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Autore: MrsShepherd    30/04/2017    3 recensioni
Spezzoni di vita della famiglia Rizzoli...
Jane e Maura hanno deciso di amarsi e costruire una famiglia insieme. I drammi, le liti e le preoccupazioni di due donne forti, che si amano nonostante la distanza, nonostante le loro diversità, nonostante TUTTO.
Brevi episodi della vita di Jane e Maura collegati da un sottile filo rosso, una bambina dagli occhi color Zaffiro che spero vi conquisterà.
Buona lettura!
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Jane Rizzoli, Maura Isles, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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17. Jane: Ciò che non uccide…
 
 - Ci siamo.-
- Già.- rispondo nervosa: - Quindi questa sarà l’ultima volta?-
Gabriel sospira, Cameron finisce per lui: - Sì Jane, l’ultima e poi…-
- Poi sarai libera.- conclude Dean cupo.
Da un lato sono sollevata che sia finita, in vent’anni di carriera non ho mai avuto una missione così difficile, nonostante sia brava in quello che faccio,… sarà perché la posta in gioco è davvero alta e la mia famiglia ha bisogno di me ora come non mai. Dall’altro lato però, la tempestività di Gabriel mi induce ad affrettare le cose, ad espormi di più. E questo è inevitabilmente a mio rischio e pericolo.
- Do un occhiata in giro e poi faccio l’incontro, cerco di recuperare la chiave elettronica e torno.- ripeto ad alta voce tutti i passaggi per essere sicura di non dimenticarmene nessuno.
- Perfetto. Cerca di attaccare anche questa.- Gabriel mi porge una chiavetta:
- La metti nel computer e in pochi minuti abbatterà i firewall e penetrerà nel sistema, raccogliendo tutte le informazioni necessarie.-
- Se saranno utili.- rispondo secca.
- Lo saranno. E poi non devi preoccuparti. Noi saremo nelle vicinanze tutto il tempo. Da qui abbiamo completa visuale della palestra e dei piani superiori. Se non torni entro l’orario stabilito entriamo noi. Una squadra è già in allerta.- Cameron e il suo solito ottimismo.
- Ok.- rispondo massaggiandomi l’occhio tumefatto, il livido dell’precedente incontro è quasi sparito. Ma ciò che è stato resterà indelebile nella mia anima.
- Ci vediamo tra un po’.-
- Buona fortuna.- bofonchia Gabriel Dean e mi guarda sparire, con un’espressione visibilmente contrariata.
 
 
Chissà se Alcatraz sa, chissà se ha un briciolo di rimorso…almeno nella solitudine. Quando il sipario cala e lui rimane solo; chissà se prima di addormentarsi al posto delle pecore conta le vittime che ha lasciato agonizzanti lungo il suo cammino.
Lo vedo lì seduto come un pascià, che si atteggia come se fosse un sovrano, mente io sono qui a sudare e attenta a non lasciarci le penne. Putrido topo di fogna, marcirai in prigione mentre il mondo gira, anche senza di te.
Questa breve pausa di riflessione mi distoglie dal ring e il mio avversario ne approfitta ,sbattendomi su un palo che delimita il perimetro.
 Sì, avversario.
Proprio di un maschio sto parlando. Un altro dei suoi meschini trucchetti messi in atto per punirmi: non mi sono piegata a lui allora e quindi mi piegherò con il tempo, in un modo o nell’altro. Mi tiro in piedi e mi accorgo che lo zigomo sanguina copiosamente, Alcatraz sorride beffardo e per mia fortuna noto che estrae il suo portafoglio dalla tasca dei pantaloni e porge una banconota ad una delle sue squillo. La chiave elettronica deve essere sicuramente lì e quindi per prenderla devo arrivare a lui.
 Agile come un felino schivo un colpo micidiale e ne affibbio un altro altrettanto tale tra le costole possenti del mio nemico, ma lui è una roccia e gemo di dolore per la mano pulsante. Mi solleva e mi scaraventa a terra inibendo qualsiasi possibilità di sfuggirgli, di respirare, ma io sono un tipo che non si piega facilmente: completamente svuotata rotolo verso sinistra, facendolo piombare a terra sul freddo pavimento sudato. È questa la chiave, usare la sua stessa forza e colpirlo nei punti giusti. Mi tiro sulle ginocchia ignorando le fitte che percorrono le mie tempie; in un attimo sono sopra di lui ed a pugno semiaperto, con le falangi delle dita tiro un cazzotto che si incastra perfettamente nella sua mascella. L’uomo geme di dolore, si tira di scatto in piedi e come un toro imbufalito si scaraventa su di me: pugno su pugno mi mette all’angolo e mi costringe a restare a terra. Sento il mio corpo che protesta e si gonfia sotto il peso dei suoi incessanti pugni, ogni parte di me è ricoperta da sangue che scorre imbizzarrito sotto la mia pelle tumefatta.
- Ti arrendi sporca puttana?-
Cerco di parlare ma tutto ciò che mi esce dalla bocca è sangue e un molare che si è staccato dal gruppo. Lui mi guarda e ride di gusto.
- Allora? Sei pronta a piegarti a me? Sei pronta a sottometterti?-
A sottomettermi!?
Chi ci ha provato ora è sotto terra con un bisturi piantato nel cuore. Io appartengo ad una sola persona e a nessun atro. Ed è per lei che sono qui stasera.
Mi alzo di scatto e ruoto tutto il mio corpo, facendo perno su un piede sferro un calcio al ginocchio facendolo uscire fuori asse, lui si accascia lasciando il fianco destro completamente esposto, il mio lato preferito: mi sposto e spingo, aiutandomi con la mano libera, il gomito spigoloso dentro l’articolazione dell’anca. Lui muove un braccio alla ceca, ma con un gesto repentino lo blocco e glielo spingo all’esterno lussandogli la spalla, poi continuo con il lavoro di prima. Colpisco incessantemente finchè la pelle del mio gomito non si brucia per lo sforzo, finchè non sento che la sua anca è ormai in frantumi. Lo finisco con un calcio nelle palle e un colpo secco che fende l’aria alla gola. Almeno gli ho tolto momentaneamente la capacità di parlare.
Sento il presentatore che annuncia la mia vittoria, ma la sua voce è lontana e tutto intorno a me si fa grigio e sfuocato. Prima di accasciarmi al suolo l’ultima cosa che vedo è Alcatraz che viene verso di me.
 
Quando rinvengo, mi ritrovo nel camerino di partenza, scuro, silenzioso…fin troppo tranquillo. Alcatraz è seduto accanto a me, si discosta allontanando dal mio naso un mucchietto di polvere bianca.
- E’ cocaina?- sbiascico io senza filtri.
- Sono sali d’ammonio…per farti svegliare.- dice lui alzando gli occhi al cielo: - Temevo di averti persa, dopotutto sei pur sempre il mio cavallo di battaglia.- si esprime lui mimando il gesto dei soldi. Essì che all’inizio mi sembrava di aver notato in barlume di gentilezza nei suoi modi. Evidentemente mi sbagliavo, la fiducia non ripaga da queste parti. Mi metto seduta lentamente, ma la vista è ancora poco nitida e la testa mi scoppia.
- Che ore sono?-
- L’una passata. Hai dormito un po’.-
- E ci credo…- sussurro dolorante mettendomi una mano sulla fronte rappresa. Sento un leggero formicolio al braccio sinistro, accompagnato da una poderosa fitta alle nocche saziate di pugni.
- Hai vinto anche stasera.- sorride lui accendendosi una sigaretta. Cerco di mettere a fuoco il suo viso sotto la flebile fiamma dell’accendino, ma inutilmente e la mia testa non riesce a stare dritta, ma ciondola pesante da un lato all’altro. Lui sembra non farci caso.
- Sai credevo che dopo questi colpi bassi ti saresti arresa e invece mi sbagliavo. Non sono uno che si sbilancia troppo, ma ti devo fare i miei complimenti. Non avevo capito che fossi così tosta.-
- Te l’ho detto.- rispondo grattandomi un braccio: - Non mi piego facilmente.-
- Ah, questo l’ho capito. Per questo volevo proporti un altro accordo. Sei la persona adatta per i miei affari.-
Sospiro  e mi fa male: - Un altro accordo…e di che genere?- la mia bocca è ancora impastata di sangue e faccio fatica a parlare.
- Preferirei parlarne in privato. Troppi papponi affamati in circolazione.- sorride beffardo: - Vieni. Ti porto nel mio ufficio.-
- Ok.- rispondo meccanicamente. Cerco di mettermi in piedi ma l’incontro mi ha letteralmente sfinito. Barcollo e casco tra le braccia di Alcatraz, che mi tira su e si propone di farmi da guida. Annuisco debolmente e aggrappandomi a lui, ci dirigiamo al piano superiore. Mi porta nella stanza centrale sul fondo e mi adagia su di una sedia. La testa è un macigno e faccio fatica a rimanere lucida, ma provo comunque a sostenere una normale conversazione. La stanza è pulita, in ordine ed odora di stantio e di chiuso. La puzza mi penetra nelle narici e una smorfia di disgusto appare sul mio viso. Lui si siede e mi guarda compiaciuto.
- Sembri piuttosto provata. Non stai bene?-
- E’ tutto a posto. È solo che…- le parole mi si fermano in gola. Sto cominciando a capire…
- Solo che?- chiede lui avvicinandosi.
Il braccio mi prude all’impazzata: con uno sforzo immane cerco di mettere a fuoco l’abrasione all’altezza del mio gomito e mi sembra di notare un piccolo foro di siringa. – Che ore sono?- ripeto confusa.
- Come mai tutta questa fretta? Vai da qualche parte?-
- Che cosa mi hai fatto?-
- Nulla, una cosa da niente…un po’ di Zolpidem mentre eri svenuta. Nulla che non si possa sistemare entro pochi giorni. Sfortunatamente non ti concederò tutto questo tempo.- si avvicina e mi sposta bruscamente sulla scrivania. Non riesco ad opporre resistenza.
Penso a Maura, a Charlotte, alla mia famiglia, a quell’atroce pensiero di mia moglie che veglia sul mio corpo morto, idea che mai mi sembra così vicina come ora
- Vuoi uccidermi?- sussurro io con voce rotta.
- Hai indovinato. Ancora complimenti. Ma prima voglio divertirmi un po’.-
Mi appoggia una mano sul collo e mi tiene schiacciata alla scrivania, con la mano libera si toglie la cintura e mi slaccia i pantaloni. Cerco di divincolarmi ma la sua forza è nettamente superiore alla mia. Con il braccio mi tiene ferma e senza alcun preambolo entra dentro di me. E io sono diventata sua. Urlo cercando in tutti i modi di farmi sentire, ma non ci sono finestre in quella stanza ed è troppo presto perché vengano a salvarmi. Piombo nella disperazione più profonda: la mia presa sui suoi fianchi si allenta, la mia bocca rimane serrata; mano a mano che le sue spinte si fanno più rapide il mio respiro diventa più leggero, il mio corpo più malleabile, la mia indole più docile, le mie lacrime più amare. E continua, ancora, ancora e ancora. Fino a che crolla senza forze.
È ancora dentro di me quando gli sussurro: - Hai fatto questo anche a quella ragazzina?- lascio cadere esausta le braccia oltre ai bordi della scrivania.
- Chi? Parli di quel cucciolo ancora in fasce? Ha avuto quello che si meritava. Lo stesso che si merita una spia come te…- dice con il fiato corto staccandosi da me.
- Lei era innocente…non ha fatto nulla.- dico stremata e immobile, con le gambe aperte e la mia vulnerabilità completamente esposta.
- Allora l’agente Dean non ti ha raccontato proprio nulla eh?! Tamara Perez era dentro fino al collo.-
- Perez?- mormoro incredula.
- Già. Quella ragazzina, voleva rendersi utile, come sua sorella e l’agente Dean la sfruttata per cercare di incastrarmi, ma inutilmente. Perché io sono un Dio, inespugnabile, sempre all’erta, al di sopra di tutti. Dovreste averlo capito ormai.-
- Ti metteremo dietro le sbarre una volta per tutte…-
Alcatraz si riallaccia i pantaloni e si sistema la cintura: - Non oggi. Non con te.-
Apre la porta dell’ufficio e immediatamente due uomini si presentano all’appello come animali ammaestrati.
- Pensateci voi.- dice sprezzante, prima di lasciare la stanza, guardandomi come se il mio destino fosse già segnato.
I due galoppini ridacchiano di gusto e si preparano ad infliggermi altre violenze, per poi finirmi con un colpo letale. Il primo si avvicina e mi volta, appoggiandomi a faccia in giù contro la superficie della scrivania. Sento la sua erezione farsi pericolosamente vicina alle mie natiche; è il momento giusto per agire.
Allungo le braccia, le mie mani tastano alla ceca la pila di documenti sulla scrivania fino ad arrivare a toccare qualcosa di freddo e duro. Impugno il tagliacarte e sfruttando la forza disperatamente risparmiata, colpisco alla ceca. L’arma si conficca nel collo e spruzzi di sangue si riversano sul muro, imbrattandolo di rosso. L’uomo si allontana barcollando ma io mi volto e lo trascino verso di me, in modo che diventi uno scudo. Gli estraggo la pistola silenziata dalla fondina e parandomi dietro il suo corpo rigido sparo due proiettili verso l’altro uomo, che non riesce a rispondere al fuoco. Non riesco a prendere una mira precisa, ma lo colpisco ugualmente perché vedo la sua sagoma sfuocata abbattersi al suolo. Mi avvicino al primo uomo ormai stramazzato al suolo e giro più volte il coltello nella ferita in modo da esser sicura di averlo messo KO.
Mi allaccio i pantaloni e tiro fuori dalla tasca la chiavetta che mi ha dato Gabriel. Mi avvicino al computer e dopo diversi tentativi riesco ad inserirla nella porta USB, le scritte che compaiono non sono leggibili, ma non ho tempo di valutarne l’efficienza: lui fa il suo lavoro, io ho fatto il mio. Mi dirigo verso i cassetti e ne scardino uno; lo trascino fino alla parete gocciolante e tasto il muro con mani tremanti e decisamente poco salde. Quando trovo l’inizio del cartongesso sollevo con entrambe le braccia il cassetto estratto e tenendolo saldo per il manico lo scaravento ripetutamente sulla parete scalfendola, rompendola, distruggendola, colpo dopo colpo. Non mi curo del rumore, non mi importa del dolore, di ciò che ho appena subito e di cosa accadrà dopo. Voglio solo scappare da qui. “Fa che ci sia un’ uscita di emergenza…ti prego.”
 Prego ad un Dio che ormai non è “di casa” da un po’…o forse non mi sto rivolgendo a lui.
Lei ha ascoltato le mie preghiere: l’ultimo colpo mi apre definitivamente l’uscita. La porta è antipanico, apribile solo dall’interno: con le ultime forze rimaste lancio il cassetto verso la maniglia che si apre senza troppi convenevoli. Mi volto verso il computer che è ritornato spento e intonso come prima. Con la speranza che i dati siano stati raccolti estraggo la chiavetta e mi dirigo verso il cestino, dove pochi minuti prima avevo lasciato il portafoglio di Alcatraz.
Come dicevo, utilizzare la forza del nemico a suo svantaggio: se non fosse stato strafatto di coca, se non avesse creduto di aver la verità in tasca, si sarebbe accorto che mentre mi violentava, sono riuscita a sfilargli il portafoglio dalla tasca anteriore dei jeans e a riporlo nel cestino pieno di carta che ne ha attutito il rumore sordo. Forse Alcatraz non è del tutto inespugnabile.
Lo prendo e me ne vado da quel posto infernale. L’odore dell’aria umida mi rinvigorisce un poco, dandomi la forza necessaria per scendere le scale, senza inciampare ad ogni gradino. Quando sono arrivata all’ultimo scalino guardo in su: tra gli alti edifici popolari spunta un cielo stellato e nonostante la mia visione si sposti continuamente, riesco a notare un dolce spicchio di luna che mi veglia da lassù.
- Grazie.- sussurro in lacrime.
- Grazie.-
Le mie gambe si fanno più pesanti ad ogni passo e le mie forze mi stanno lentamente abbandonando. Devo raggiungere la macchina, non è sicuro rimanere qui, ma sono così stanca. Stringo ancora al petto la chiavetta e il portafoglio e quando vedo le sagome di due uomini avvicinarsi nella notte, correndo verso di me, la mia presa si fa più salda e sicura. Quasi automaticamente alzo l’arma che mi è rimasta in mano e prendo la mira, ma il mio braccio trema e le gambe deboli non riescono a contrastare la mia paura. Perdo l’equilibrio e cado tra le braccia di uno dei due; chiudo gli occhi in attesa di morire, ma la sua voce profonda mi sembra familiare.
- Jane! Oddio Jane…che cosa ti hanno fatto?!- urla Cameron allarmato.
Gabriel si china verso di me e mi sembra di vivere una scena a rallentatore: mi prende il viso con entrambe le mani e cerca di svegliarmi, ma io ormai sono già andata da tempo. Allungo debolmente la mano e affido il mio bottino alla Giustizia. Alla cieca ed imparziale dea che adesso non pare più così candida.
E poi il buio.
Non sono pronta a morire.
Non mi piegherò mai. Nemmeno alla morte.
 
 
 
 
   
 
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