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Autore: LeoValdez00    05/05/2017    0 recensioni
Johnlock / postS2 / John's PoV
Raccolta di Flashfic e One-Shot non collegate fra loro se non per il tema principale (non sono in successione cronologica, sono solo what if del periodo tra la seconda e la terza stagione).
"Non ha mai capito quella storia del 'Mind Palace', anche se Sherlock ha provato a spiegarglielo diverse volte, ma John è certo che in questo momento la sua mente sia come un'enorme stanza.
È buia, impolverata, silenziosa."
"Le volte in cui l’altro lo aveva pregato di fare qualcosa si potevano contare sulle dita di una mano.
L’ultima volta che lo aveva fatto era stato l’inizio della fine"
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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My mind palace
 
 
 

La poltrona è scomoda, se ne rende conto solo in questo momento.

È troppo bassa, costringe la gamba in una posizione dolorosa, possibile che non se ne sia mai accorto?

Rimane immobile, seduto al proprio posto, lo sguardo alla poltrona scura di fronte a sé.

Non ci crede ancora, non riesce a farlo.

Chiude lentamente gli occhi, prende un respiro profondo, tremante.

Sente le lacrime aspettare pazientemente dietro ai suoi occhi il primo segno di cedimento, le ferma appena in tempo, non sa quanto potrà resistere.

Inspira. Espira.

“Non è così che le persone fanno? Lasciano un biglietto”

Le dita stringono convulsamente i braccioli della poltrona, le nocche sbiancano, mentre risente quella frase, come registrata.

Una sola lacrima, tonda e perfetta, sfugge al suo militare controllo e scivola indisturbata fra le ciglia chiare, rigandogli la guancia.

Quella voce, la sua voce, gli risuona nella mente come mille volte amplificata.

Ogni sfumatura nel tono, ogni pausa, ogni sospiro di quel discorso.. è ancora tutto impresso nella memoria.

Non ha mai capito quella storia del “Mind Palace”, anche se Sherlock ha provato a spiegarglielo diverse volte, ma John è certo che in questo momento la sua mente sia come un'enorme stanza.

È buia, impolverata, silenziosa.

Piena di fotografie, fotogrammi di com'era diventata la sua vita da quando lo aveva incontrato.

Piena di registratori, milioni di conversazioni incancellabili, ognuna di vitale importanza.

Piena di ogni cosa che possa permettergli di ricordare Sherlock per come lo ha conosciuto.

Si accorge di piangere, un pianto silenzioso e sommesso, militaresco in qualche modo, ma non se ne preoccupa.

Ha paura, John.

Ha il terrore, paralizzante, di poter dimenticare anche un solo, minuscolo, dettaglio riguardante l’uomo che gli ha cambiato la vita.

Lui non è come Sherlock, non ha alcuna certezza che il suo cervello ricordi tutto ciò che gli interessa.

Come può sapere che, un giorno, la sua mente non decida di voler cancellare il giorno in cui si sono incontrati? O il suono della sua voce? O il colore dei suoi occhi? O il suo raro sorriso?

Come potrebbe permetterlo?

Ma come potrebbe impedirlo?

Le sue labbra sottili si piegano in un sorriso amaro.

Non si è mai sentito impotente come negli ultimi giorni, non ha mai provato tanto dolore come negli ultimi giorni.

Vorrebbe urlare, vorrebbe gridare fino a perdere la voce, ma non può.

La signora Hudson è al piano di sotto.

Inspira. Espira.

Si decide a guardarsi attorno, ad analizzare il piccolo appartamento del 221b, ma una rabbia cieca si impossessa di lui.

Com'è possibile che nulla sia cambiato?

Come può il mondo andare avanti come nulla fosse?

Perché il tempo non si è fermato nel momento stesso in cui Sherlock si è tolto la vita?

Che senso ha essere seduti in questa stanza, sapendo che la poltrona nera rimarrà per sempre vuota?

“Addio, John”

Ogni tipo di controllo che si era imposto una volta varcata la soglia del loro appartamento è ormai svanito.

John china la testa, a corto di fiato, e inizia a singhiozzare.

Inspira. Espira.

Deve riprendere controllo di sé, la signora Hudson sarà di ritorno a momenti, non vuole che lo veda in questo stato.

Si asciuga nervosamente il viso, strofina il palmo delle mani sugli occhi nel vano tentativo di rendersi nuovamente presentabile.

“Non posso essere messo così male al tuo funerale.. devo mantenere un minimo di decoro” sussurra con un fil di voce, accorgendosi solo in un secondo momento di come gli sia venuto naturale parlare con il posto vuoto di Sherlock.

“Tu non avresti avuto nessun decoro per il mio, vero?” continua imperterrito, la dolorosa stretta al cuore che aumenta ad ogni parola, incentivandolo a non smettere.

“Forse nemmeno ci saresti venuto..” mormora, guardando in alto per impedirsi di piangere ancora.

“Avresti detto che sono una cosa stupida, i funerali.. che è solo uno sciocco modo per illudersi di poter fare ancora qualcosa nei riguardi di qualcuno che ormai è morto, a cui non può importare” dice piano, lo sguardo che torna alla poltrona di pelle nera.

“Sono per i vivi, Sherlock.. non per i morti.. è per i vivi che da migliaia di anni vengono organizzati i funerali” sussurra, con lo stesso tono accondiscedente che avrebbe usato per spiegargli l’ennesima convenzione sociale che si sarebbe ostinato a non capire.

Tutto questo fa male, più di quanto potesse immaginare.

È un dolore diverso da quello di una pallottola che attraversa la carne, è più forte, capace di insinuarsi sotto la pelle, capace di avvelenare ogni cosa trovi sul suo cammino, come il suo cuore.

“Lo so che il cuore è solo un muscolo, Sherlock, era in senso metaforico!” sbotta John ad alta voce, conscio di aver solo immaginato l’ovvia constatazione che sarebbe stata pronunciata in una normale conversazione.

Quando, dopo diversi minuti, la signora Hudson entra nell’appartamento, John sta piangendo senza alcuna remora, senza alcuna vergogna.

La padrona di casa si avvicina lentamente a lui, lo sguardo di chi non ha dormito un solo minuto negli ultimi tre giorni, ma comunque pienamente composto.

Lei gli sfiora delicatamente i capelli, in un gentile gesto di conforto.

“Lo so, mio caro John.. lo so..” 
   
 
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