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Autore: _Chimaira_    09/06/2009    0 recensioni
Perché nulla dura.
Il Tempo, la Memoria, i Ricordi.
Tutto scompare, svanisce e ci lascia indietro a torturarci in una vecchia casa con lacrime, spine e rimpianti.
Ci abbandona, come granelli di sabbia sfuggiti al vetro della clessidra, apparentemente senza motivo.
Così, per gioco.
3° Classificata al concorso "Memoria" indetto da Crystalemi e CryForTheMoon
Genere: Triste, Sovrannaturale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I personaggi, la trama, l’ambientazione e i fatti narrati sono miei e mi appartengono di diritto in quanto mia personale creazione.
Se me li copiate vi do fuoco.



“Certe cose dovrebbero restare come sono.
Dovreste poterle mettere in una di quelle bacheche di vetro e lasciarcele”


- Il Giovane Holden –
J. D. Salinger





Rimasi a guardare il portone immenso che mi stava davanti.
Poteva tranquillamente ricoprire l’entrata di una cattedrale, con i battenti di pesante legno di quercia che occupavano abbondantemente un terzo della facciata del palazzo.
E pensare che, nei miei diciotto anni di vita in questa città, non avevo mai prestato particolare attenzione a quella villa; o almeno pensavo fosse uno di quei palazzi di proprietà del comune perennemente sigillati, che celavano al proprio interno centinaia di opere d’arte dimenticate e pesanti tappeti di polvere.
È quindi scontato che, alla notizia che si trattava di una villa privata e, per di più, abitata, la mia prima reazione fu di sorpresa; anche perché non mi risultava di aver mai visto un movimento, un rumore o anche solo una luce accendersi oltre le finestre dei vari piani, nonostante passassi di frequente davanti all’abitazione.
A dispetto di queste perplessità, comunque, non mi feci troppi scrupoli; chiunque abitasse là dentro, mi aveva assunto come domestica per l’estate, forse per sostituire un’altra donna di servizio in vacanza. Nella mia mente, allora, non c’era spazio per alcun dubbio; ero infatti proiettata completamente sul mio obiettivo, una reflex della Canon che costava parecchio, o comunque abbastanza da spingermi a fare il giro della città e ricoprire supermercati e giornali di annunci per trovare lavoro. Per alcune settimane le uniche risposte che ricevetti furono frasi di scuse e richieste di referenze e curriculum, cose di cui ero puntualmente sprovvista; così che quando, finalmente, mi fu proposto un lavoro come collaboratrice domestica a tempo pieno per tutta l’estate, quasi svenni per la felicità. Accettai e mi fiondai il giorno dopo all’indirizzo, pensando già di passare i seguenti tre mesi a rassettare tranquillamente l’appartamento di una simpatica vecchina. Solo in seguito mi resi conto che rassettare era un verbo che si adattava a malapena allo sgabuzzino.
Deglutii, un po’ per il caldo di prima estate e un po’ per l’inquietudine, e afferrai con le dita sudaticce il batacchio di bronzo, scuotendolo leggermente. Mi sembrò di vedere la poca gente che mi passava accanto rabbrividire al suono cupo che riempì l’aria, seguito da un lungo e tenebroso silenzio. Nulla.
Sospirai, indovinando uno scherzo di cattivo gusto nei confronti di una povera ragazza che voleva solo guadagnarsi un po’ di soldi, e sentii la rassegnazione arrampicarsi per la schiena. Chiunque fosse stato quel mattacchione, sperai che almeno lui si fosse divertito. Raccolsi le mie valige e feci per andarmene, quando sentii il rumore secco di serrature che scattano. Immobile, fissai il portone dal quale proveniva quel suono che sapeva di tensione, guardandolo aprirsi silenziosamente. Uno dei battenti si schiuse verso l’interno, rivelando un maggiordomo dai lineamenti freddi quanto l’espressione; mi squadrò muovendo appena la testa.
“Deve essere la nuova cameriera” disse con un marcato accento francese “La stava aspettando”. Mi esibii in un sorrisetto imbarazzato, trascinando le borse nell’atrio.
Monsieur Deroux la attende in studio” proseguì “Le illustrerà i suoi doveri e le regole della casa, dopo di che potrà sistemare le sue cose nella sua stanza e mettersi al lavoro. Est-ce que tu as compris?”
“Sì”
Esaurì la loquacità, guidandomi verso lo studio in silenzio. La casa, o meglio, il castello, era immerso in una costante e lugubre penombra; gli oggetti erano ammantati da una flebile luce dorata data dai candelabri sparsi ovunque, donandomi la strana sensazione di essere chiusa in un carillon di velluto scuro. Anche perché le tende erano, sebbene di colori diversi, tutte realizzate in velluto, e ognuna rifletteva il colore della stanza a cui negava la luce; una cosa che imparai in fretta, infatti, era che ogni stanza aveva un colore peculiare:
il salotto era, nei muri e in qualunque altro aspetto, verde giada; la sala da pranzo era immersa in una collezione di oggetti e tappezzeria corallo scuro e addirittura il bagno, completo di vasca in tinta, era sulle tonalità del celeste.
Curiosa di indovinare il colore della mia destinazione, fui accompagnata dalla mia guida fino all’ufficio del mio datore di lavoro, dove entrò prima di me. Aprì la porta in mogano, facendomi riconsiderare tutta l’atmosfera della casa; se le altre stanze mi erano sembrate buie, lo studio era la stanza più tetra e lugubre che avessi mai visto.
Inabissata tra tendaggi bordeaux, la stanza era a fatica illuminata da due candelabri particolarmente grandi ai lati della stanza, e da un terzo, più piccolo, appoggiato al centro della scrivania ovale posta al centro della stanza. Quest’ultima era tappezzata da alte librerie ricolme di libri dall’aria antica. Accanto al tavolo, su una sedia foderata era seduto un uomo sulla quarantina, con i capelli nero lucido rigati da qualche ciocca prematuramente bianca. Bloccò di colpo la penna con la quale stava scrivendo non appena il maggiordomo entrò nella stanza. Lo degnò a malapena di uno sguardo, fermando poi i suoi occhi d’ebano su di me.
“Sei la domestica per la stagione, non è vero?”
Annuii, leggermente intimorita. Il viso di quell’uomo, per quanto potesse sembrare attraente ad una donna di mezza età, non mi incoraggiò.
“Come ti chiami?” chiese, in modo quasi gentile. Quasi.
“Sara. Sara Bossardi”
“Io sono Jacques Pierre Deroux” mi stupii della perfetta pronuncia italiana “e quello che ti dirò ora è l’indispensabile per vivere e lavorare qua dentro”
“Certo, ho capito” confermai, senza sapere bene cosa.
“Bene, allora cominciamo a fondare le basi. Regola numero uno” indicò il maggiordomo “Per qualunque cosa chiedi a Dorian. Il fatto che ti paghi non vuol dire che ti debba intrattenere io, né tantomeno che tu sia autorizzata a disturbarmi. Ed ecco infatti il punto due. Non mi disturbare.”
Scese il silenzio, e riprese a parlare solo dopo che io acconsentii vigorosamente.
“Quando sono nel mio studio, solo Dorian può entrare, a meno che non sia io stesso ad averti invitato in modo più che esplicito”.
Notai che faceva male le pause tra una parola e l’altra, così che si ritrovava spesso a riprendere fiato a metà sillaba. Come quando non si è abituati a parlare a lungo da molto tempo e ci si ritrova di colpo a dover fare un sermone in piena regola; quello che stava facendo a me, per intenderci. Feci ancora di sì con la testa, cercando di memorizzare parola per parola ciò che mi veniva detto; la mia priorità divenne non far arrabbiare Jacques Pierre Deroux.
“Per ora, le regole sono queste. In poche parole, non ficcare il naso nei miei affari” guardò Dorian “Ci sono alcune porte chiuse; non tentare di aprirle né di cercare le chiavi. Quando sono nella mia stanza, vale la stessa regola dello studio”.
“Non la disturbo”. Completai docilmente.
“Brava ragazza” sorrise, finalmente. Poi sospirò “Ora le cose più semplici. Pulirai, spolvererai, laverai, farai il bucato, servirai i pasti e rassetterai tutta la casa. Fatti dire dalla governante – a quest’ora sarà nelle cucine – quali sono i turni con le altre domestiche e cerca di adattarti immediatamente”.
Stavo per rispondere «Heil, Hitler», ma la mia voce si fermò ad un flebile “Certo”.
“E un’ultima cosa”
Trattenni il respiro.
“Evita di uscire dalla tua stanza, la notte” abbassò la testa, girandosi verso il tavolo e riprendendo a scrivere “Ophèlie si turba con poco”.
Cadde il silenzio, graffiato dalla stilografica che macchiava il foglio con parole scure, e Dorian chinò il capo con un espressione strana. L’uomo ignorò sia me che il maggiordomo, il quale mi portò fuori dalla stanza, guidandomi verso la mia camera.
“La sua camera da letto è quella in fondo al corridoio a destra. Avrà i fine settimana liberi e altri giorni, ma li sceglierà Monsieur Deroux quando sarà il momento. Buon lavoro”.
Lo vidi ruotare su se stesso e tornare indietro lungo il corridoio, finché non imboccò la scalinata dell’atrio e scomparve. Non ci misi molto a capire che mi avrebbero sfruttata come una schiava. A giudicare dall’atteggiamento, per lo meno.

*

Passai due mesi e mezzo sgobbando come se ne andasse della mia stessa vita, e al tempo stesso raccogliendo informazioni dai piccoli gesti degli altri e dagli indizi che trovavo per la casa.
Venne fuori che il mio datore di lavoro, Monsieur Jacques P. Deroux, era uno scrittore francese piuttosto famoso nel suo paese, trasferitosi in Italia per piacere della moglie. Moglie che non avevo mai visto.
Fatto sta che viveva praticamente da recluso, muovendosi per casa solo per un tragitto che andava sistematicamente dalla camera alla sala da pranzo, dalla sala da pranzo allo studio e dallo studio alla camera. Forse per i pasti tornava in soggiorno, anche se spesso venivo incaricata di portargli il pranzo in ufficio. E anche lì i nostri contatti erano pressoché nulli, poiché mi era stato consigliato di lasciare il vassoio con il pasto davanti alla porta, bussare e battere in ritirata; sempre che non volessi essere deliziata dai rimproveri dello scrittore. Cosa di cui facevo volentieri a meno.
A dirla tutta, credo che fosse fotofobico; in tutta la casa non c’era una sola lampadina, a parte nelle cucine, e l’energia elettrica era usata solamente dai vari elettrodomestici e da un telefono, ma visto che non squillava mai, né nessuno lo usava, era come se non ci fosse.
Ma questa era solo una delle tante cose strane, in quella casa. A partire dal proprietario e dalla sua presunta famiglia.
Come ho già avuto modo di dire, era rinchiuso per la maggior parte del tempo nel suo studio, a scrivere probabilmente; il mio giudizio su di lui oscillava dal giudicarlo misantropo e prenderlo per eremita, che poi queste definizioni sarebbero l’una il sinonimo dell’altra. A volte capitava di incrociarlo per i corridoi durante i suoi pellegrinaggi abituali, dove lui mi rivolgeva una smorfia che voleva essere una specie di sorriso imbarazzato, al quale rispondevo ugualmente impacciata con un leggerissimo inchino, trasformatosi nel mentre in un cenno del capo appena riconoscibile. Anche quando gli servivo i pasti in tavola era solito a rivolgermi un flebile sorriso, credo generato da una timida buona educazione piuttosto che dal vero interesse di piacere ad altri. C’è però da dire che era un bell’uomo, con i capelli scuri spettinati e gli occhi neri che non avevo mai visto brillare, nemmeno per il semplice e casuale riflesso della luce. Bellezza che lui però non sembrava affatto sfruttare. Per niente. Non so se poter definire questa cosa strana; dopo tutto, ogni persona ha il suo carattere, bellezza o no, ma era piuttosto l’aura che lo circondava a renderlo stravagante. Anche perché, diciamocelo; vivere da ingabbiati in una villa con un pugno di domestici e la moglie-fantasma non è esattamente lo stereotipo della normalità.
Ah, giusto. Stavo dimenticando la moglie.
Ophèlie, la donna misteriosa e invisibile che non si faceva mai vedere per la casa, e di cui nessuno – a parte me – sembrava notare l’assenza. Non mi fu mai detto «porta questo alla signora» o simili; anzi, nessuno la menzionò proprio. Solo Deroux, a volte, chiedeva a Dorian di andare a vedere come stesse Ophèlie, ma subito dopo il maggiordomo tornava a dedicarsi alla mansione precedente. Il solo segno della sua presenza era forse una melodia che, ogni notte, sentivo attraversare il primo piano, leggera ed evanescente come il sogno di un sogno. Le note oscillavano nell’aria, calde e malinconiche. Poi, dolcemente, svanivano nel nulla tenebroso da cui erano nate, accompagnandomi finalmente in un sonno profondo.
E tutto si ripeteva, notte dopo notte, melodia dopo melodia. Ricordo ogni canzone e ogni nota (grazie a piccoli rudimenti di pianoforte inflittimi dai miei genitori da piccola), con la stessa nitidezza con cui ricordo ogni oggetto in quella villa, ogni sfumatura delle tende e ogni venatura del legno dei mobili.
Li ricordo perfettamente, esattamente come se ce li avessi davanti in questo istante, cristallizzati. Come mi pareva fosse effettivamente quella casa, del resto.
La stessa villa sembrava infatti ferma nel tempo, come bloccata in una fotografia:
passavo intere giornate a spolverare stanze e, anche solo dopo mezz’ora dalla pulitura, sembrava che sui mobili di cui mi ero appena occupata ci fosse ancora più sporcizia di prima. Imparai anche che, non importa quante volte spostassi quel vaso o mettessi al suo posto quel libro; quello tornava sempre sul tavolino sbagliato o aperto sul leggio. Le prime settimane non ci feci caso, pensando che le altre domestiche (eravamo tre in tutto, più un cuoco, il maggiordomo e la governante) avessero spostato di nuovo le cose, ignare del mio intervento; ad un occhiata più attenta però, mi accorsi che gli oggetti tornavano nella loro esatta posizione, al millimetro. Il che era razionalmente impossibile. Quindi decisi di ignorare tali fenomeni. Per quieto vivere.
Una parte della mia mente tentò di dare una spiegazione a questi avvenimenti, concludendo con la romantica idea che la casa volesse mantenere sempre la stessa facciata, quasi temesse che, con un qualsiasi cambiamento, i ricordi che racchiudeva tra le sue tende di velluto e i suoi candelabri potessero svanire come cenere nel vento.
A quest’idea, mi diedi della sciocca e continuai a spolverare un mobile del salone, nonostante sapessi di fare una cosa prettamente inutile.
Più tardi, quando rientrai nella stanza per apparecchiare la tavola, sbuffai constatando che il velo grigio era ancora onnipresente.

Convissi con quest’atmosfera da racconto di Poe per tutto il tempo del mio servizio, rispettando scrupolosamente ogni regola, come un cagnolino ubbidiente.
Non disturbai mai Monsieur Deroux quando non voleva, non invasi il suo spazio né cercai di entrare nelle camere vietate. Che poi, alla fine, era solo una; l’ultima in fondo al corridoio, all’altra estremità rispetto la mia. E, soprattutto, seguii il dogma che mi vietava tassativamente di uscire la notte; e devo dire che non ci tenevo particolarmente. La casa, immersa nella penombra già di giorno, non doveva essere uno spettacolo particolarmente allettante, di notte. Non per chi non vedeva di buon occhio corridoi bui e vuoti.

Ma quella notte non riuscii a resistere.

Era fine agosto, un mese passato a lamentarmi mentalmente del caldo e ad attendere i week-end per andare in piscina e uscire con gli amici; nonché a ignorare con brividi sempre più freddi per i già citati avvenimenti inquietanti della villa.
Quella sera mi rigiravo nelle coperte che mi si appiccicavano addosso per l’afa, cercando un sonno che probabilmente avevo lasciato indietro a qualche mese prima, insieme alla bella frescura primaverile. Mi alzai.
Indugiai un buon quarto d’ora davanti alla maniglia della porta, bramando un bicchiere d’acqua e calcolando quanta paura avrei avuto nel tragitto dalla camera alla cucina e ritorno, tremando già all’idea. La vinse la sete. Deglutendo con la gola secca, abbassai il pomello, permettendo alle tenebre profonde del corridoio di invadere la mia stanza. Mossi un passo, ritrovandomi oltre la soglia.
Il buio della casa era interrotto dalla luce delle poche candele lasciate accese lungo il muro, fari lungo una costiera tempestosa. Non illuminavano più di un metro attorno a loro, e le ombre delle porte e dei mobili disseminati qua e là si allungavano sulle pareti e sul pavimento, golose di superfici ancora illuminate. Raggiunsi le cucine pesando ogni passo e trattenendo il respiro per la paura; oltre al bicchiere d’acqua pensai di portare in camera una bottiglia, evitandomi un altro viaggio del genere nel caso mi fosse tornata sete; imbracciai quindi una bottiglia di plastica, preparandomi al viaggio di ritorno che, sicuramente, non mi avrebbe risparmiato una tensione tale e quale dell’andata. Attraversai l’androne e feci le scale una alla volta, tirando un sospiro di sollievo quando arrivai in cima; tenendomi rigorosamente a ridosso della parete ripercorsi lentamente il corridoio, e una sensazione di conforto mi sommerse quando toccai di nuovo la maniglia della mia camera.
Fui bloccata da un rumore.
Uno scricchiolio secco, di qualcosa che si muoveva e poi cozzava su qualcos’altro, dall’altro capo del corridoio. Mi paralizzai, le dita strette sempre più forte attorno al ferro del pomello e la testa girata in direzione del cigolio, che fu immediatamente sostituito da un silenzio pesante e oleoso. Spalancai gli occhi nel tentativo di vedere nell’oscurità che, mi sembrava, si faceva sempre più densa, inghiottendo i candelabri e la loro già precaria luce. Le candele, esaurite, si spensero in un sospiro di fumo. L’ambiente si illuminò di un’irreale luce bluastra, accompagnata dal respiro musicale di un pianoforte. Riconobbi le note che ogni sera mi concedevano al sonno. La melodia si distese come nebbia e mi avvolse, incantevole e incantante, simile ad un fresco venticello nelle notti di torrida estate. Appoggiai la bottiglia a terra e seguii la musica, ammaliata dalle note che sembravano guidarmi; gentili, mi portarono davanti alla porta solitamente chiusa, allora semiaperta. Dall’interno veniva la musica, sempre più angosciante e somigliante ai respiri affannati di chi sta per morire di morte crudele. Ero ancora a qualche metro di distanza quando terminò la canzone, si spense la luce e la porta si chiuse di colpo.
Persino il chiarore azzurrino del corridoio mi consegnò, spietato, alle tenebre della notte e al terrore del silenzio. Presa dal panico mi voltai e scattai verso la mia camera, con l’unico desiderio di barricarmici dentro e accendere tutte le luci che mi capitassero a tiro. Corsi alla cieca, con gli occhi che cercavano disperatamente un pezzo di luce, qualcosa alla quale appendersi, attaccarsi con tutte le forze.
Fu così che feci la conoscenza di Ophèlie Deroux.
Avevo raggiunto le scale, sfrecciando nelle tenebre, quando scorsi una luce biancastra e tremolante sugli scalini; rallentai, preparandomi a nascondermi in qualche anfratto ombroso per sfuggire a quello che credevo essere il mio principale. Presi la luce ondeggiante per quella di una candela, e cautamente mi avvicinai alla tromba delle scale, pronta ad acquattarmi dietro un piccolo mobile lì accanto. La luce si bloccò.
Curiosa, avanzai verso la scalinata, incapace di capire cosa creasse tanta luce finché non me la ritrovai davanti.
La mano tesa e poggiata sul corrimano, pallida come il vestito e il resto del corpo; mi fissava con occhi bianchi e privi di pupilla, irradiando una luce sfocata che illuminava tutto l’atrio. La sua immagine ondeggiava come mossa da un soffio impercettibile, oscillando sugli scalini. Mi fissava con la bocca chiusa in un’espressione neutra, scrutandomi con le sue orbite che non potevano vedere e tenendomi inchiodata in mezzo al corridoio. Fui incapace di muovere un solo passo, e pativo la chiara paura di aprir bocca, di turbare quello spirito bellissimo.
“Ophèlie”. Sussurrai, temendo quasi di essere sentita. Il fantasma chinò e rialzò il capo lentamente, spalancando gli occhi.
“Aiutami”. Borbottio roco portato dal vento, mi avviluppò in una brezza gelida che vidi nascere dalle sue labbra. Mosse un passo e la sua figura si stemperò nell’aria, come nebbia spezzata dal vento. Ne mosse un altro, allargando le dita verso di me col palmo verso l’altro, donando o esigendo qualcosa.
“Suona con me, Sara”
Sbiancai, ritrovando la coscienza del corpo. Cominciai a correre, senza nemmeno il fiato per urlare. Non mi voltai e non mi fermai, entrando in camera senza rallentare. Mi ci sbarrai dentro, chiudendo la porta a chiave e bloccando la maniglia con una sedia; chiusi la finestra e accesi tutte le candele e le luci della stanza.
Raggomitolata sotto le coperte, attesi l’alba fissando la porta, mai abbastanza chiusa.

*

Il mattino dopo mi preparai in fretta, contenta della luce del giorno e desiderosa di mettermi al lavoro per distrarmi. Nonostante continuassi a sperare che si fosse trattato di un sogno, la bottiglia d’acqua che mi ero portata in camera testimoniava il contrario. Aprii con circospezione la porta, temendo quasi di ritrovarmi faccia a faccia con la donna della notte precedente.
“Che sciocca” mi dissi “I fantasmi non escono di giorno”.
Presi comunque un grande spavento quando trovai sulla soglia Dorian, con una faccia a dir poco funerea. Mi guardò negli occhi, gelido.
Monsieur Deroux la desidera nello studio”
“Certo. Devo andare subito?”
Mi voltò le spalle senza né rispondere né sorridere, lasciando intendere che dovevo seguirlo. Cercai di inventarmi una scusa credibile per la mia uscita notturna, consapevole che «avevo sete» non era molto convincente, nonostante fosse la verità. Davanti alla porta il maggiordomo bussò, ma mi fece entrare da sola. Mi spinse nella stanza, dove ad attendermi c’era lo scrittore, in piedi e con una smorfia di dura impassibilità; con un cenno della mano mi invitò a sedermi dall’altro capo della scrivania, davanti ad una strana clessidra. Le due ampolle erano di vetro e con la classica forma a goccia, legate l’una all’altra da tre colonne di legno avvolte in spirali, terminanti in due basi rotonde.
La sabbia all’interno delle lacrime di vetro cadevano in un sottile filo d’orato, riempiendo una boccetta e svuotando l’altra.
Deroux afferrò l’oggetto, cominciando a giocarci mentre si sedeva di fronte a me.
“Ho saputo che ieri notte sei uscita dalla tua stanza”. Non mi guardava.
“Esatto”
“Posso sapere per quale motivo?”. Continuava a ribaltare la clessidra, invertendo continuamente il senso di caduta della sabbia. I suoi movimenti – fluidi, eleganti – erano magnetici.
“Avevo sete, sono scesa a prendere un bicchiere d’acqua”.
A queste parole si interruppe, smettendo di giocherellare con l’oggetto e girando la testa per fissarmi, sollevando un sopraciglio. Sentii i suoi occhi neri incenerire i miei, senza lasciarmi alcuna possibilità di scampo. Dopo qualche secondo, riprese il suo passatempo distratto.
“Nonostante io ti avessi esplicitamente vietato” sottolineò l’ultima parola “Di girare per la casa di notte, per qualsivoglia motivo?”
“Sì” ammisi. Non che ci fosse altro da poter dire. Lui annuì, come se desse quella risposta per scontata. Cosa che effettivamente era.
“… e hai disturbato Ophèlie …” concluse, a voce talmente bassa che quasi non lo sentii. Poi si voltò verso di me per guardarmi, dritto negli occhi, ma con uno sguardo vacuo che mi fece dubitare che mi considerasse davvero.
Sospirò, allungando il braccio e appoggiando la clessidra davanti a me. Congiunse le mani osservando la polvere ambrata che riprendeva la sua caduta verso il tempo che passava.
“Sara” per la prima volta mi chiamò per nome “cosa credi rappresenti, la clessidra?”
“Il tempo che passa” affermai, sapendo che sicuramente era la risposta sbagliata. Infatti scosse la testa.
“Rappresenta la vita” . alzai un sopraciglio.
“La vita da …” posò il dito sull’ampolla superiore “… e la vita prende”, disse indicando quella inferiore. Poi si lasciò cadere di nuovo sulla sedia sbuffando, continuando a fissare l’oggetto.
“O la vita da e la Memoria prende, fa lo stesso” mormorò accendendo la mia curiosità.
“Memoria?”
Mi guardò storto, per poi riprendere a parlare. Sentivo che si sentiva a disagio, a parlare così a lungo.
“Per te cosa sono i Ricordi?”
“Le immagini del passato, informazioni più o meno utili che ho mantenuto nella mia mente per quando mi possono servire”
Fece schioccare la lingua, segno che a suo avviso avevo detto un mucchio di sciocchezze.
“I Ricordi sono creature crudeli” cominciò.
“Per quale motivo?”. Alzò lo sguardo, piantandomi addosso i suoi pozzi di disperazione. Gli occhi, neri di antrace, esprimevano tutta la tristezza tenebrosa che ammantava la casa.
“Perché svaniscono. Si consumano e, man mano che li usi, non diventano altro che macchie colorate di confusione e suoni”
Contribuii al silenzio condito dal sibilare delle candele che si consumavano, soffocate dall’odore di carta antica e di chiuso.
“All’inizio straziano, lambiscono la carne con lingue e immagini incandescenti; poi, sempre più velocemente, scivolano da qualche parte, per sedimentarsi definitivamente lontano dai nostri pensieri, dove non possono più fare male. In quello, rimangono solo rimorsi e rimpianti”
Si era immedesimato nella parte dello scrittore tormentato; aveva anche trovato il ritmo della pause per riprendere fiato, parlava come se stesse leggendo un libro.
“I quali ti tormentano, ti chiudono in una stanza buia a tentare disperatamente di vivere di Ricordi, a trasformarti in un fantasma, solamente perché non hai il coraggio di alzare la testa e andare avanti” esaminò la mia espressione attenta.
“I Ricordi non sono altro che catene. La Memoria la più tetra prigione dell’uomo”
La stanza si vestì del nostro silenzio, vuoto e pieno allo stesso tempo. La clessidra esaurì la sabbia, ma Deroux non la rivoltò. Rimase a guardarla, poi si alzò e si avvicinò ad una delle librerie, esaminando i volumi che la riempivano.
“Sul tavolo c’è una busta. Contiene il tuo compenso. Prendilo e vattene”
Non mi mossi per la sorpresa; mancava ancora una settimana alla fine dei tempi concordati. Accortosi che non me ne stavo andando, Deroux voltò un po’ la testa, donandomi uno sguardo di scorcio.
“Hai infranto la regola più importante” disse con voce fredda e tagliente “Hai invaso la mia Memoria. Troverai che non ho tolto un centesimo dalla somma che ti dovevo, ma ora desidero che tu lasci questa casa. Arrivederci”.
Annuii e lui si voltò di nuovo. Allungandomi verso la busta guardai ancora una volta la clessidra: l’ampolla inferiore si era incrinata e la sabbia usciva lentamente, impolverando il tavolo di pulviscolo dorato. Non dissi nulla e uscii, pronta a prendere le mie cose e tornare a casa. Fuori dall’ufficio trovai Dorian, col cordiale sorriso freddo che mi aveva dedicato in quei pochi mesi.
“Arrivederci” . Lo salutai educatamente, e dopo pochi minuti mi sentii bisbigliare, con la voce saggia del nonno col nipote.
“Non deluderci, cara”.
Mi voltai per chiedergli spiegazioni, ma quando lo feci il corridoio era vuoto.

*

Tornai nella casa un mese più tardi, verso fine settembre. Davanti a me si apriva l’ultimo anno delle superiori, e compilando il modulo dei crediti mi venne detto che potevo aggiungervi il mio lavoretto estivo. La pratica doveva però essere controfirmata dal datore di lavoro, per cui mi vidi costretta ad indugiare di nuovo davanti al portone incastonato tra le mura della parte antica della città.
Prendendo fiato, afferrai il picchiotto e bussai. Silenzio. I colpi risuonarono in echi distanti nella casa, facendomi rabbrividire. Allungai ancora la mano verso il batacchio di ottone, ma al mio sfiorare delle dita la porta si aprì di qualche centimetro, scivolando verso l’interno.
Nessun rumore di serrature, quella volta. Solo il silenzio avvolgente che sfuggiva da quella fessura. Spinsi la porta con una mano, quel tanto che mi bastava per infilarmici dentro senza attirare troppo l’attenzione. Mi richiusi la porta alle spalle, trattenendo il respiro mentre mi voltavo.
La polvere sembrava essere l’unica occupante della casa da parecchio tempo. L’intonaco chiaro dell’entrata era più per terra che sui muri e i mobili erano ricoperti da graffi e muffa; metà del corrimano delle scale aveva ceduto e le colonnine che lo sostenevano erano a pezzi sul pavimento sporco. Ogni cosa e oggetto era esattamente nella stessa posizione di quando lavoravo là dentro; ovvero, nello stesso punto in cui si ostinava a tornare. Solo la polvere, padrona assoluta, era in quantità maggiore di quel che ricordavo. La stessa atmosfera di immobilità avvolgeva ogni stanza, ogni muro; quando entrai di nuovo in quella casa, il tempo si fossilizzò in ogni batuffolo di polvere, danzante nei raggi di sole che filtravano dai vetri rotti.
Nonostante fosse chiaro che la villa era disabitata, decisi di fare un’ultima cosa.
Esitai davanti all’idea di salire al primo piano; ma facendo attenzione ad ogni scalino, superai la gradinata, ritrovandomi sul pianerottolo. Mi girai e, gettando uno sguardo distratto alle scale, rividi nei miei ricordi il fantasma di quella notte, che allungava la mano verso di me e mi chiedeva di suonare con lui. Rinchiusi quell’immagine in una cella della mia mente, allontanandomi per il corridoio; il mio passaggio lasciava profonde impronte sul tappeto di polvere, e i miei passi mi portarono davanti a quella stanza. Quella chiusa, quella vietata; quella misteriosa. Con la punta delle dita diedi una leggera spinta, e quella si spalancò.
La stanza era completamente bianca, con le tende in garza chiara stracciate e ondeggianti alla brezza timida di fine settembre; nella stanza c’era un letto matrimoniale col baldacchino del colore dominante della camera, la seta delle coperte logora e macchiata. A stonare c’era, davanti a me, un pianoforte a coda, bianco e lucido. Sembrava l’unica macchia di luce in tutta la desolazione della casa. Mi sedetti sullo sgabello, sollevando la testiera. I tasti erano lucidi e sembravano sorridermi, spingermi a toccarli, suonarli. Feci scorrere le dita sulla loro superficie liscia e intrigante, producendo un leggero suono soave e fresco. Mi guardai le spalle per un lungo istante, sentendomi osservata, ma scacciai quella sensazione a forza; chiusi gli occhi e ripescai alla mente gli insegnamenti che mi erano stati dati da piccola. Abbassai le dita sui tasti, sentendo le prime note fluire dai polpastrelli, riempiendo l’aria piena di nulla della villa.
Suonai per quello che mi sembrò un battito di ciglia, accompagnando le dita con delicati movimenti del busto. Suonai canzoni e melodie che non conoscevo e mai avevo sentito; liberai note immobili nella mia memoria e in quella di qualcun altro, che cercava di rivelarsi attraverso quel pianoforte guidando le mie mani. Oscillai dalla ragione alla suggestione onirica del dormiveglia, suonando e suonando in estasi, con l’unico intento di redimere le note che erano imprigionate in quelle stanze, in quella villa, dai ricordi di qualcuno che non conoscevo. Con le melodie che creavo, ricordavo, sognavo mi giungevano immagini che non mi appartenevano, memorie che non erano mie.
Vidi una donna, i lunghi capelli castani e la pelle chiara, baciare un uomo dai capelli scuri e gli occhi di tenebra sulla soglia di quella casa, abbracciarlo e tenerlo stretto nella camera in cui stavo suonando. La scorsi stesa e con i capelli sparsi a ventaglio sul cuscino, spegnersi lentamente tra le braccia dell’uomo che non mi parve di riconoscere. Intravidi l’uomo ritirarsi nello studio ed esaurire mente e inchiostro su pagine che recitavano la sua disperazione e la sua solitudine. Lo seguii mentre si macerava sotto il peso dei ricordi. Vidi il sangue scorrere nella casa, nell’ultimo disperato gesto dello scrittore, del poeta folle che altro non desiderava se non ricongiungersi, in pace, con la donna bianca. Infine, vidi le stanze lasciarsi andare, consumarsi sotto il peso del Tempo che le lasciava indietro, a riempirsi di Ricordi e di passato.
Requiem for a dream si spense nella stanza alabastro. La penombra si fece di nuovo spazio ammantando la tastiera del pianoforte, che vidi logoro e segnato dal passato. Le note mi abbandonarono, riconsegnandomi al silenzio sospeso della camera. Mi parve di risvegliarmi da un lungo e denso sogno, e il mio sguardo confuso si posò sul leggio, che fino ad allora avevo dato per scontato fosse vuoto. Invece, vi era posata una fotografia. Ancora intorpidita, la presi tra le dita. I miei occhi stanchi riconobbero la figura elegante di Ophèlie che sorrideva all’obiettivo, seduta allo stesso pianoforte che occupavo io; aveva una mano poggiata sulla spalla a stringerne un’altra, che apparteneva a Deroux, in piedi alle sue spalle, il quale guardava la moglie con occhi innamorati.
Voltai la pellicola e vi trovai una scritta, che riportava una data. 1895.
La girai ancora e fissai distratta i sorrisi intrappolati nelle sfumature di bianco, grigio e nero. La misi in borsa, allontanandomi velocemente verso l’uscita. Un attimo prima di attraversare di nuovo il portone, sussurrai.
“Ho suonato per te, Ophèlie. Buon riposo”.

*

Tempo dopo fui raggiunta dalla notizia che la casa sarebbe stata abbattuta, per far spazio alla nuova sede degli uffici comunali. Seta, candele e velluto sarebbero stati sostituiti dalle pratiche e dai documenti del nuovo ufficio dell’anagrafe. La vecchia sede era impraticabile e mangiata dalla muffa, a causa della vicinanza col fiume della città; a qualche impiegato era venuto in mente quel vecchio palazzo disabitato da secoli di cui nessuno reclamava la proprietà. In pochi giorni l’edificio sarebbe stato demolito per dare inizio ai lavori veri e propri. In seguito, come forse era prevedibile, vari racconti si diffusero a macchia d’olio su quella casa, ricostruendo inconsapevolmente la vera storia di Jacques Pierre Deroux e Ophèlie. La più diffusa era infatti quella che io consideravo più aderente alla realtà dei fatti.
Raccontava che uno scrittore francese degli ultimi anni del 1800, tale J. P. Deroux, si fosse trasferito in Italia per accontentare il desiderio della moglie, stabilendosi in una cittadina di provincia per avere la tranquillità necessaria per scrivere i suoi romanzi.
Deroux e la moglie passavano lunghe giornate a fare piacevoli passeggiate sul lungo fiume e a suonare e scrivere, conducendo una vita ritirata tutto sommato appagante. Deroux era ispirato dalla musica di Ophèlie e la stessa traeva dai racconti e dalla compagnia del marito lo spunto per comporre nuove melodie al pianoforte. Finché non si ammalò.
Le giornate divennero sempre più lunghe e difficili da passare, e lo scrittore non riuscì più a stendere una sola riga. Non mangiava, non beveva, passava il tempo a rassicurare la moglie, dicendole che presto sarebbe guarita e che lui non vedeva l’ora, perché lei gli aveva promesso che una volta in salute gli avrebbe insegnato a suonare il pianoforte, così avrebbe potuto fare musica con lei.
La donna, Ophèlie, si spense come una candela ad un tramonto di fine agosto.
Si dice che da allora non una stanza della casa vide la luce del sole; le finestre erano coperte da tende di velluto e che, insieme alle camere, anche il proprietario fosse sprofondato nella stessa tenebrosa disperazione; si ritirò in un mondo di ombre e candele consumate fino a quando, esasperato, si tolse la vita raggiungendo l’amata. I loro spiriti, a detta della gente, vagavano ancora nella villa, e avrebbero impedito alle macchine di distruggere ciò che ancora rimaneva di loro.
Ora, questo non era altro che uno dei tanti racconti che cominciarono a girare su internet, ma l’ultima frase mi colpì particolarmente.
“avrebbero impedito alle macchine di distruggere ciò che ancora rimaneva di loro”, continuavo a ripetermi mentre cercavo la foto. Quando la ripresi tra le mani temetti di spezzarla, tanto sembrava fragile. Riattraversando con lo sguardo l’immagine in bianco e nero, realizzai che presto sarebbe stata l’unica cosa che li avrebbe legati al presente, che gli avrebbe impedito di scivolare nel luogo dove tutto viene dimenticato. Aveva i bordi ingialliti e anche le sfumature di grigio erano sbiadite, ma ancora là, presenti. Un’idea mi attraversò la mente, dando finalmente una risposta ad alcuni dubbi che mi avevano tormentato mesi addietro.
In quella fotografia c’era la spiegazione della mia assunzione da parte di persone morte da secoli, e dell’ultimo discorso di Deroux. E anche alle melodie che suonai il giorno del mio ritorno, quando le avevo ripescate da una memoria che avevo scoperto di avere solo in quell’istante, e solo per quel momento.



Si muore due volte.
La prima viene pianta dai nostri cari.
La seconda da noi stessi.
Accade quando ogni nostra cosa viene lasciata svanire nel Tempo, quando si sedimenta tra le sue pieghe per affogare lasciando spazio ad un nuovo presente. Bianco, candido, ancora da riempire.
E noi stessi scivoliamo, sempre più in basso, sempre più a fondo, dimenticati da tutti e anche da noi. A volte, l’unica traccia che lasciamo è una casa spoglia e polverosa, ricoperta da muffa quanto dai ricordi che lei stessa vuole far rivivere.
La stessa casa che aveva richiamato a sé coloro che l’avevano abitata e vissuta. Che aveva dato una seconda possibilità allo scrittore, che tuttavia non si arrese mai alla morte della moglie. Non volle ammettere nemmeno che i suoi ricordi lo stavano lasciando, che il viso, il profumo, il tocco di Ophèlie si faceva sempre più lontano e confuso, finché i suoi lineamenti non divennero grigi e impersonali, grotteschi.
Deroux imparò per primo che, se la vita dà, è solo la Memoria a toglierci.
Si chiuse quindi in quella casa, tenendo incatenata a sé la moglie e il suo ricordo confuso. Si consumò nella sua mente e si spense in un rivolo di sangue che gli bagnò le braccia.

Ma nessuno dei due volle dissolversi in questo modo.
Ophèlie non voleva essere dimenticata, per questo suonò senza posa le melodie che aveva composto per il marito, addolcendogli i sogni.
Deroux, non voleva essere dimenticato, perciò ricoprì il proprio maniero fatiscente con i suoi ricordi, fermando il tempo all’interno della casa.
E la villa stessa … anche lei voleva che qualcuno scoprisse la loro triste vicenda; fu così che cristallizzò il tempo negli ultimi istanti dello scrittore, a disposizione di chi fosse disposto ad entrare in quella Memoria.

Insieme, fecero in modo di tramandare la loro storia a qualcun altro. Qualcuno che sapesse ricordarli e farli ricordare.
La Memoria li spinse ad un ultimo, disperato gesto. Mi chiamarono per un compito molto più importante che spolverare mobili.
Io, quando quel giorno risposi al telefono, divenni la loro ultima possibilità di non disperdersi come sabbia nel vento. Di salvarli.
E lo sto facendo. Riparando la clessidra, rimettendo ogni granello di sabbia al suo posto, richiudendo le crepe con le lacrime e l’inchiostro di questa penna. Rigirandola quando finisce la terra da una parte e contemplandola mentre, lentamente, esaurisce e spegne i miei ricordi.
Persino la fotografia che tengo tra le mani è rovinata, con i bordi ingialliti e i volti confusi.

Perché nulla dura.
Il Tempo, la Memoria, i Ricordi.
Ci sfilano davanti, consumandosi ogni volta che li rievochiamo, per poi andare a frantumarsi nei recessi lontani della nostra mente logora.
Tutto scompare, svanisce e ci lascia indietro a torturarci in una vecchia casa con lacrime, spine e rimpianti.
Ci abbandona, come granelli di sabbia sfuggiti al vetro della clessidra, apparentemente senza motivo.
Così, per gioco.






Sono particolarmente orgogliosa di questa storia.
L’ho scritta in 4 giorni per il già citato concorso (Memoria), al quale si è classificata 3^.
Una mia amica, dopo averla letta, mi ha detto di essersi innamorata dei due coniugi Deroux, così mi è venuto in mente di scrivere la loro storia, ambientata a fine ‘800.
Anche se, a dirla tutta, mi sono affezionata anch’io a quei due, specialmente ad Ophèlie; anche dal nome si capisce. Lei e la Dama di Shalott sono le mie protagoniste femminili preferite.
Spero che vi sia piaciuta questa storia, anche se era un po’ lunga.
Capitemi, mi sembrava di vivisezionare mio figlio, quando pensavo di dividerla in capitoli.^^

-Chimaira-
  
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