Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Phoenix502    11/05/2017    1 recensioni
CONTIENE SPOILER DEL MANGA
E se il dolore fosse troppo grande? E se le lacrime versate fossero troppe? E se i ricordi non facessero altro che alimentare la sofferenza? E se tutto ciò diventasse un tormento, sia di giorno che di notte,
ci sarebbe un modo per porvi fine ?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Il rumore degli zoccoli arrivava alle orecchie come qualcosa di assordante, gli spari dei fumogeni gli rimbombavano in testa e i loro colori, che tracciavano linee nel cielo limpido, gli causavano dei capogiri. Non era certo la cosa migliore che gli potesse succedere proprio durante una spedizione, mentre cavalcavano fuori dalle mura in mezzo ai giganti. Sentiva un vuoto dentro di sé, come se qualcosa mancasse ma non sapesse spiegarsi bene che cosa fosse a lasciarlo così solo. Attorno a sé, decine, centinaia di soldati galoppavano tra i verdi prati che si estendevano ben oltre l'orizzonte, dove a nessuno era dato sapere cosa vi fosse. Tutto sembrava trascorrere in maniera fin troppo calma: non avevano ancora incontrato giganti e chiunque fosse uscito dalle mura era ancora lì, provvisto della propria attrezzatura e di tutto il coraggio possibile. Poi lo vide. Era lì davanti a sé , con il mantello verde che sventolava sulla sua schiena. Il portamento fiero, le spalle possenti, i capelli biondi... Gli bastò guardarlo un attimo per capire che cosa gli stesse mancando così tanto. Diede qualche colpetto al fianco del cavallo per farlo andare più velocemente, con il vento che spostava le ciocche corvine dal proprio viso e lo costringeva a socchiudere gli occhi. Affiancò il cavallo dell'uomo che aveva avuto davanti fino a qualche minuto prima, voltandosi per guardare il suo viso e i suoi occhi cristallini. «Erwin» urlò il suo nome per farsi sentire ed attirare la sua attenzione. Lui si girò, con la sua espressione rassicurante e il suo sorriso, capace di placare ogni tormento. Gli parve di essere finalmente riuscito a colmare quel vuoto, che adesso ogni cosa sarebbe stata diversa, che quel senso di oppressione e tristezza sarebbe svanito dalla propria mente. Quell'atmosfera gli sembrava quasi nostalgica, come se fosse tutto un ricordo e lui lo stesse rivivendo. Era troppo vivo per essere solo un ricordo, solo qualcosa che viveva in un angolo remoto della propria mente. Le sue emozioni erano così vive e così vere... «Quali sono le disposizioni?» chiese all'uomo che stava cavalcando di fianco a lui.«Non ho disposizioni da darti, Levi» rispose egli con tono calmo, continuando a sorridere. Che cosa stava dicendo? In una situazione come quella era quasi impossibile non avere nulla in mente, erano pur sempre fuori dalle mura, esposti ad una moltitudine di pericoli diversi. «Che significa? Non sei forse il comandate, Erwin? Non hai più le palle per caso? » ed ecco che il suo tono sgarbato era tornato prepotentemente a farsi sentire. Il comandante non avrebbe certo ignorato una provocazione del genere. Ma non ricevette nessun rimprovero, nessuno sguardo severo, l'espressione sul volto di Erwin non era variata. «Non sono io il comandante, Levi, dovresti saperlo ormai. È tutto nella mani di Hanji». Perché stava parlando di Hanji? Perché negava di essere il comandante? Perché avrebbe dovuto passare l'incarico a qualcun altro? «Perché Hanji? Che c'entra lei adesso? » chiese con tono frustrato. Non stava capendo più nulla, nella sua mente si stavano avvicendando immagini diverse, tutte confuse, tutte che riguardavano il comandante ma a cui non riusciva a dare un ordine, che non riusciva a focalizzare bene, di cui non comprendeva la vera natura. Ad un certo punto, Erwin spronò il cavallo, andando sempre più veloce e lasciandosi dietro lui e i suoi pensieri. «Dove cazzo vai, Erwin?!» si mise ad inseguirlo, con il vento che faceva muovere freneticamente il mantello e la polvere sollevata dal cavallo del comandante che gli sferzava il viso e minacciava di accecarlo. Fu un attimo. Un classe 15 mentri era proprio lì davanti a loro, ed Erwin gli stava correndo incontro, sprezzante del pericolo. Levi urlava, continuava ad aprire la bocca, sforzandosi più che poteva di chiamarlo, imprecando contro di lui, intimandogli di fermarsi senza ottenere risultati, perché la sua voce era l'unico suono che non riusciva ad avvertire, in mezzo al rumore degli zoccoli e a quello del vento. Sentiva un dolore al collo, i muscoli tesi, le vene sporgenti,ma quello sforzo era vano. Il gigante sollevò un piede, e poco dopo ci fu un tonfo, che fece tremare la terra sopra cui stava cavalcando. Il comandante era stato schiacciato. Sentì le lacrime che gli bagnavano gli occhi, la rabbia che cresceva sempre di più, forse per non essere riuscito a far nulla per evitare una simile catastrofe. Si voltò, guardando i compagni che sembravano impassibili, come se nulla fosse accaduto. Il gigante rimase fermo, spostando il piede e rivelando il corpo senza vita del comandante. Nessuno accennava a fermarsi, tutti passavano accanto alla bestia e al cadavere dell'uomo senza dire una parola, senza nemmeno guardare. Quando, anche lui, fu accanto al corpo senza vita di Erwin, cadde da cavallo , a causa di quei dannati capogiri che non lo avevano abbandonato un attimo, ma che anzi erano aumentati proprio quando aveva visto Erwin morire per colpa di quella bestia, ritrovandosi a giacere accanto al comandante morto, con la vista che si annebbiava e le lacrime che continuavano a scorrere, la disperazione che prendeva possesso di lui e la consapevolezza che sarebbe morto. Era buio. Buio ma con dei contorni familiari, con una luce debole. Era immerso in un bagno di sudore, con i capelli che si erano attaccati alla sua fronte. Anche il viso era bagnato, di lacrime. Si mise a sedere tra le lenzuola del proprio letto e realizzò che quello era stato un incubo, che non era realmente caduto da cavallo e che non era morto. Però qualcosa era vero, qualcosa si rifletteva nella realtà. Si guardò intorno, riconoscendo alcuni oggetti seppur essi fossero coperti dalla coltre oscura che stendeva la notte nella sua stanza. Uno tra tutti, spiccò sul cuscino che aveva accanto a sé. Lo prese tra le mani, guardandolo mentre luccicava leggermente, a causa del chiarore lunare, sul proprio palmo aperto. Era il ciondolo che, di solito, Erwin portava al collo, quello di cui lui si era impadronito dopo la morte di quest'ultimo, e che posava sempre sul cuscino, ogni sera, prima di addormentarsi, o almeno, cercando di farlo . Perché, in quell'incubo l'unica cosa maledettamente vera, era che il comandante fosse​ morto. L'unica amara verità in mezzo ad un insieme di insulse menzogne. L'unica cosa che sarebbe dovuta essere falsa. Da quanto tempo lo sognava? Forse dal primo giorno in cui non era stato più fisicamente al suo fianco, sin da subito. Sentì che le lacrime stavano cominciando a scendere di nuovo, come in quel maledetto incubo, mentre pensava ai loro ultimo momenti insieme, agli ordini che gli aveva impartito, alla sua espressione fiera mentre andava incontro alla morte. Levi era uscito provato da quella battaglia ,che li aveva visti battersi per poter riconquistare il Wall Maria, aveva superato il dolore che gli causavano le ferite, aveva superato la rabbia per non essere riuscito a uccidere chi avrebbe meritato di veder porre fine alla propria miserabile esistenza da traditore, aveva superato tante cose tranne una. Quella che gli stringeva il cuore in una morsa e alimentava i suoi incubi. Strinse forte quel ciondolo nella propria mano, chiudendola a pugno e portandolo alle labbra, mentre le gocce salate gli rigavano le guance e ricadevano sulle sue dita contratte, nello sforzo di tenere ancora con sé qualcosa che ormai non esisteva più. Non ci sarebbe stato modo di porre fine alla sua sofferenza, non c'era cura per quello che stava provando. Tranne una. Quell'idea che si era fatta strada nella sua mente, che lo aveva portato a provare più volte senza mai riuscire. Forse, quella sera, sarebbe stato il momento giusto. Le dita smisero di stringere ciò che aveva in mano, che venne poi poggiato sulle lenzuola davanti a sé. Si alzò dal letto e, nel buio della camera, si mosse a passo sicuro verso l'armadio. Lo aprì, con la certezza che ciò che stava cercando fosse proprio lì dentro.Le sue mani andarono alla ricerca di quell'oggetto, sepolto tra le pile di indumenti. Lo aveva nascosto lui stesso lì in mezzo, come per celare il suo passato da delinquente, che, comunque, sarebbe pur sempre rimasto, come una macchia, sulla propria anima. Il contatto con la lama fredda lo fece rabbrividire, e capì di averlo finalmente trovato. Estrasse il pugnale che tanti anni fa aveva usato per portare avanti la sua vita da malvivente nella città sotterranea, e che aveva poi tenuto con sé, anche se in segreto, fino a quel giorno . Strinse forte il manico e tornò a sedersi tra le candide lenzuola del letto, che tra non molto non sarebbero più state uniformemente bianche. Guardò il ciondolo che aveva davanti e scostò la manica della maglia che indossava in quel momento, scoprendo il polso sinistro. «Non lo sapevi che ce l'avessi ancora questo... » disse alzando leggermente il pugnale per far sì che la poca luce colpisse la lama e la facesse risplendere «E non sapevi nemmeno che, alla fine, lo avrei usato così... ». La lama era adesso poggiata sulla pelle del polso, sensibilmente più calda rispetto al metallo. Esitò un attimo, prima che il taglio venisse tracciato. Netto, nella propria carne. Sentì un dolore immenso, una fitta gli colpì tutto il braccio e la mano destra cominció a tremare. «Sto venendo da te... » le lacrime continuavano a scendere e le sue parole erano pronunciate tra i singhiozzi. Il tremore si era esteso ormai a tutto il corpo. Batté più volte le palpebre, per far si che le lacrime non gli appannassero la vista, prima di afferrare il pugnale con la sinistra. Il braccio si cui aveva praticato il taglio era ormai rigato da alcune gocce di sangue, ma non sentiva nemmeno dolore, era tutto coperto dal senso di benessere che ,si ripeteva, avrebbe provato di lì a poco. La lama venne avvicinata anche al polso destro, mentre un leggero sorriso gli si dipingeva sul volto, nell'atto di tagliare anche le vene di quel braccio . «D'ora in poi saremo solo noi due. Niente spedizioni, niente giganti, niente cazzate... Tra poco ti rivedrò, Erwin». Poggiò il pugnale proprio accanto al ciondolo e si sdraiò sul materasso, voltandosi verso la finestra, da cui entrava la luce che lo aveva accompagnato mentre compiva qual gesto. Si sentì pervadere da un senso di pace, come se stesse per addormentarsi nuovamente, stavolta per sempre. Mentre i suoi occhi si chiudevano, rivide il volto di quell'uomo che gli aveva sorriso in sogno e che lo aveva fatto anche nella realtà, molto tempo prima. Vide la sua mano, la stava tendendo verso di lui. E lui alzò il proprio braccio, con gli occhi chiusi e nel silenzio della propria stanza.Afferrò quella che gli stava tendendo quell'ulmo dai capelli biondi, la tenne stretta, non l'avrebbe lasciata mai più. Fu allora che la mano ricadde pesantemente sul materasso, mentre lui pronunciava un ultimo sussurro «Ti amo». Quel "Ti amo" che Erwin avverti forte e chiaro, mentre stringeva Levi tra le braccia, ma che nella stanza del caporale non fu altro che un mormorio, che si spense come Levi , nel silenzio della notte.
   
 
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