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Autore: Jo_The Ripper    15/05/2017    1 recensioni
«E sai perché morirai? Perché mi devi una morte, Molly Hooper. Mi devi la morte di Sherlock Holmes.»
La caratteristica più profonda e universale di tutti gli psicopatici è l’assenza di rimorsi. Non hanno il concetto di colpa. Non hanno coscienza morale. Uno psicopatico intenzionato a uccidere si serve di qualsiasi mezzo per ingannare la vittima al fine di toglierle la vita.
E quando arrivi al livello finale del Grande Gioco non puoi tirarti indietro. Tutto quello che puoi fare è continuare la partita, ponendo sul piatto della bilancia sentimenti nascosti nell’angolo più buio di un Palazzo Mentale, un fantasma riemerso dalle profondità di un passato perduto nel tempo e l’ombra di una nemesi a lungo creduta sconfitta.
«Il grande Sherlock Holmes, che ha la capacità di esaminare il mondo sotto la potente lente del suo microscopio cerebrale, che individua schemi e tracce laddove gli altri vedono solo trame abbozzate, ora sta facendo i conti con gli effetti dell’essere umano.»
Genere: Angst, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eurus Holmes, Jim Moriarty, John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Capitolo 6

Una settimana si trascinò in quel modo. I medici non avevano alcuna novità. Tutto era sospeso in una fase di calma apparente e asfissiante. Una situazione statica e carica di tensione.

Sherlock si sentiva soffocare tra quelle mura. Uscì dalla stanza e camminò attorno all’isolato del Barts. La testa gli doleva e si stava facendo strada nel suo corpo un insinuante bisogno di nicotina. Comprò un pacchetto di sigarette e ne fumò un paio. Lo gettò poi nel primo cassonetto disponibile con un gesto di stizza.
L’orario di visita era terminato ma, quando rientrò nella stanza, si sorprese al vedere una figura di donna accanto al letto di Molly. Lo stupore aumentò nel constatare chi fosse. Si pose sulla difensiva.
«Cosa ci fai qui?»
La donna era come la ricordava: in ordine, curata e ben vestita. Teneva una mano sulla fronte di Molly e gli rispose con voce malinconica, cominciando ad accarezzare i capelli della patologa.
«Sta soffrendo.»
Sherlock si avvicinò e le afferrò il polso. Fissò gli occhi nei suoi infondendo al suo sguardo tutta la collera di cui era capace.
«Cosa ci fai qui.» Ripeté in un sibilo minaccioso.
La donna si liberò con grazia, sollevando le mani a palmi aperti in segno di resa.
«Tranquillo, Sherlock Holmes. Non sono qui per farle del male, se è questo che temi.»
Sherlock esitò un secondo. La donna sembrava sufficientemente inoffensiva da permetterle di rimanere. Le sue spalle, però, rimasero tese, sull’attenti, pronto a scattare al minimo accenno di pericolo. Lei mosse qualche passo e la collana con il ciondolo a forma di ankh – la chiave della vita – dondolò lanciando un bagliore argenteo. Si lasciò cadere sulla poltrona e accavallò le gambe, sorridendo al detective in maniera enigmatica.
«Sono qui perché Sherlock Holmes non fa mai nulla senza motivo.»
Sherlock assottigliò gli occhi, diffidente, provando a mettere da parte i suoi timori per la figura dormiente di Molly e concentrarsi sulla persona che gli sedeva davanti.
Lei era una specialista nel renderlo nervoso.
«Quindi ti saresti scomodata a lasciare il tuo comodo rifugio solo per psicoanalizzarmi?» La prospettiva non lo tranquillizzò. La donna si strinse nelle spalle.
«Le vecchie abitudini non muoiono mai, scivolano semplicemente nell’ombra. Un evento come questo direi che merita una visita personale.»
«Come hai fatto a saperlo?»
Lei inarcò un sopracciglio.
«Allo stesso modo in cui tu risolvi un caso: applicando un metodo. Tu hai i tuoi, io i miei.»
Sherlock sbuffò con sarcasmo.
«Metodi dalla comprovata efficacia.» Lei inclinò leggermente la testa.
«Dipende dai punti di vista.» Lo redarguì. «Alcuni si prodigano in chiacchiere quando gli dai ciò che vogliono, altri hanno la loro storia scritta sugli abiti e sulla pelle. Ma se parliamo di te… tu canti come un’allodola al mattino, quando ti viene chiesto di risolvere un enigma. La vanità del tuo ego.»
Il detective strinse i pugni e le lanciò un’occhiata obliqua. Lei appariva perfettamente calma.
«Quindi lei è la patologa chiamata in servizio la vigilia di Natale.» Rilassò la schiena contro la spalliera e il detective annuì. «Mi aspettavo un soggetto meno… banale. Non sposata, sola, pratica di morte, tua amica… gli elementi che l’hanno resa un bersaglio perfetto. Eppure deve possedere qualcosa di speciale tale da farti implorare per la sua vita e tenerti chiuso qui dentro per giorni a vegliarla.»
«Da quanto tempo sei qui?»
Irene Adler non era un’ingenua. Notò immediatamente la tonalità falsa nella voce di Sherlock. Ormai lo conosceva abbastanza da capire che lui non le mentiva mai veramente ma non era sempre del tutto sincero. Il suo modo di mentire consisteva nel distrarla.
«Te la sei cavata bene con questo tentativo di sviare il discorso. Mi duole informarti che non ha funzionato.»
Lui esalò un lungo sospiro e si lasciò scivolare sul pavimento, la schiena poggiata contro il letto della patologa. Valutò se assecondare Irene o meno. Non aveva intenzione di parlare di Molly. In realtà non aveva intenzione di parlare di nulla. Però si sentiva stanco. Di una stanchezza profonda, logorante, quasi insostenibile. Le parole lasciarono le sue labbra prima che potesse fermarle.

«Pensavo di avere stampato in maniera permanente un determinato modo di essere. Ero conscio di non essere tagliato per le relazioni sociali e mi ero organizzato una vita solitaria focalizzata sul crimine e la scienza. Nel farlo ho accantonato delle variabili, non considerandole degne di attenzione, tra cui il tempo. Questo ha mischiato le carte in tavola. Poi l’arrivo nella mia vita di persone che ho imparato a conoscere… tutto è cambiato e ho dovuto ricominciare la compartimentalizzazione.»
Lei lo osservò in un misto di compatimento e supponenza.
«Ora il disegno comincia a delinearsi. Se ripenso a quello che mi hai detto in passato nell’ufficio di tuo fratello, vedo solo la tua grande ipocrisia: rifuggi i sentimenti per poi buttarti a capofitto in missioni di salvataggio. Sei in fuga da quello che provi, ancora ostinato a non accettare il cambiamento. E adesso ti stai crogiolando nel senso di colpa.»
Lui la guardò in tralice.
«Da te non mi aspetto comprensione. Molly è innocente ed io non posso fare a meno di sentirmi responsabile. Ho tradito la sua fiducia.» Batté un pugno sul pavimento, assalito dai rimorsi. Era colpa sua. Lei si abbassò verso di lui, intrecciando le dita davanti a sé.
«Non esistono innocenti, Sherlock. Esistono solo diversi gradi di responsabilità.» Gli occhi della donna erano penetranti, poteva avvertirli chiaramente scandagliare ogni suo pensiero.
«E quale sarebbe la sua responsabilità?»
«Amare te.»
Lui fece scattare gli occhi verso di lei. Si sentiva sempre più disorientato. Per quanto avesse ascoltato quelle parole direttamente dalla bocca di Molly, faticava ancora a dar loro un senso. Socchiuse le palpebre e scosse la testa.
«Ah, Sherlock, cos’è che non vedi quando sei cieco! Diceva Goethe: la verità è scostante perché è frammentaria, incomprensibile.»
Lui fece un cenno di assenso. Questa affermazione poteva capirla. Il resto gli sembrava solo un groviglio inestricabile, senza alcuna logica. Si alzò in piedi e si diresse alla finestra. Irene seppe che quello era il momento per sferrare il suo attacco finale.
«Non hai risposto alle domande di tua sorella: cosa saresti disposto a fare pur di salvarle la vita? Cosa significa Molly Hooper per te?»
Sherlock si voltò e incontrò il suo sguardo. Solo allora constatò che, per uno strano gioco di luci e ombre, le sue pupille erano così dilatate da far sembrare l’iride scura come il carbone. Rimase a lungo in silenzio.
«Molly è mia amica.» Ammise infine. «Una donna capace di trattare le persone con pazienza e calore ma al tempo stesso non teme le sfide e all’occorrenza sa essere molto dura e decisa, e questo l’ho sperimentato sulla mia pelle. È garbata, onesta, accorta, leale. Con lei posso toccare argomenti – socialmente definiti morbosi e malsani - in maniera naturale. Mi fido di lei.» Tacque e spostò lo sguardo verso le grandi gocce di pioggia che schizzavano sul vetro della finestra. «La risposta mi pare alquanto ovvia, alla luce di queste ultime ammissioni.»
Sherlock osservò con la coda dell’occhio l’espressione colpita di Irene al suo exploit melenso. Non si aspettava di certo che si aprisse con lei a quella maniera, non dopo i suoi tentativi passati di creare tra loro una sorta di intimità. Vide nei suoi occhi una fuggevole sensazione di trionfo nell’aver scavato così in profondità dentro di lui, nell’aver fatto affiorare informazioni cruciali di cui ora si sarebbe fatta tutrice e avrebbe potuto utilizzare a suo vantaggio. Avrebbe continuato a giocare con lui. Si rimproverò severamente per essersi dimostrato uno sprovveduto emotivo.
«Quindi se ti proponessero una scelta…» Cominciò lei con tono noncurante e Sherlock la guardò interrogativo.
«Tra cosa?»
«Tra il risparmiare la sua vita e prendere la tua in cambio.»
Il detective continuò ad ostentare una calma glaciale anche se il suo sguardo era teso e preoccupato.
«Lei non vorrebbe.» Si avvicinò a Molly e lasciò scivolare la mano sul lenzuolo, rimanendole vicino ma senza arrivare a toccarla.
«Malgrado ciò, tu lo faresti.»
Lui annuì. «La morte rovina un solo giorno e lei merita di essere felice.»
«Allora lo intendevi davvero.»
La donna era sinceramente stupita.
«Prego?»
«Tu la ami.»
Un’affermazione semplice, pulita, a cui non seguì alcuna replica per diversi minuti. Sherlock era spaesato, colto alla sprovvista e confuso. Il problema consisteva nel fatto che non si era mai soffermato, almeno fino ad allora, a interpretare i propri sentimenti per Molly Hooper e non era del tutto sicuro di poterci riuscire. Doveva esserci un’altra spiegazione, per quanto indistinta e inaccessibile potesse sembrare. Rimase lì con in testa un pensiero che non riusciva a tradurre in parole. Qualcosa di inesplorato. Lui era un uomo di scienza. Dell’amore sapeva solo che era scatenato dal rilascio dei mediatori chimici dopamina, serotonina e ossitocina (facilmente fabbricabili in laboratorio e, se assunti in dosi massive, potevano causare schizofrenia, estrema paranoia e pazzia) e che inibiva il funzionamento della corteccia prefrontale, l’area deputata ai comportamenti razionali. Si umettò le labbra e aggrottò le sopracciglia. La sua voce era stranamente arrochita.
«L’amore romantico è biochimicamente indistinguibile da un severo disturbo ossessivo - compulsivo.»
«E possiamo immaginare l’assoluta veridicità di questa asserzione, specie quando essa viene espressa da un uomo che si definisce un sociopatico iperattivo.» Concluse lei alzandosi in piedi.
«Bene, adesso devo proprio andare. Grazie per questa conversazione illuminante. Arrivederci, Sherlock.»
Senza dargli tempo di aggiungere altro, lasciandolo interdetto, gli regalò un bacio sulla guancia e uscì dalla stanza. Lui non la seguì. Fissò la porta e si sentì travolto da un’improvvisa stanchezza. In due falcate raggiunse la poltrona e ci cadde malamente sopra. Crollò subito.

Quando aprì gli occhi, il collo gli faceva male. Guardò l’orologio, erano circa le due del mattino. Si era addormentato in una posizione strana e gli sembrava di aver fatto un sogno ancora più strampalato.
Molly continuava a dormire.
Sherlock non sapeva esattamente quale pulsione lo stesse spingendo ad agire. Un attimo prima era intontito, quello dopo in piedi. Spostò una sedia dal muro, la avvicinò al letto di Molly e si sedette.
Le prese la mano tra le sue e la strinse, iniziando ad accarezzarne il dorso con il pollice. Stette in quella posizione per qualche minuto, passando in rassegna tutti i dettagli di lei. Le persone entravano in quella camera, si accomodavano e iniziavano un dialogo a senso unico, tutti spinti dalla convinzione che Molly potesse ascoltare le loro parole. Invece, tra loro due, ancora una volta, regnò il silenzio.
Alla fine lasciò che i gesti arrivassero dove le parole non potevano. Le prese il viso tra le mani e, con lentezza, avvicinò le labbra alla fronte di Molly e vi lasciò un lungo bacio pieno di calore, delicatezza e premura. Quando si scostò continuò ad accarezzarle i capelli. Un gesto intimo che non aveva mai condiviso con nessun altro. Si abbassò e sussurrò al suo orecchio una sola parola.
«Resta.»

***

Il mattino successivo John arrivò di buon’ora. Ormai aveva stretto amicizia con il personale del reparto e cominciava a godere anche lui di alcuni privilegi. Salutò cordialmente le infermiere e si accinse ad entrare nella stanza di Molly, convinto di trovare Sherlock già attivo.
Invece, quando aprì la porta, era ancora profondamente addormentato. La cosa che però lo stupì, era il modo in cui dormiva: aveva il capo inclinato da un lato e, nel sonno, stringeva la mano di Molly. John gli indirizzò un debole sorriso. Forse avrebbe dovuto svegliarlo, ma non se la sentì. Si limitò a poggiare ciò che gli aveva portato sul tavolino e, con discrezione, lasciò la stanza.

Molly Hooper sentiva un profumo dolciastro e pungente. Aveva uno strano sapore in bocca e cercò di deglutire ma la lingua era come paralizzata e le labbra incollate tra loro. Provò ad aprire gli occhi senza riuscirci. Da lontano sentiva delle voci ovattate ma non era in grado di distinguere le parole. Quando finalmente aprì gli occhi, in maniera lenta, dovette socchiuderli a causa della luce che filtrava dalla tenda. Ci volle qualche secondo prima che si abituasse e i puntini luminosi sparissero. Realizzò di essere sdraiata in una stanza d’ospedale. Girò piano la testa e, nel suo campo visivo comparve una figura. In un primo momento non riuscì a metterla a fuoco; aprì gli occhi a fessura e vide un uomo dai capelli scuri e il viso spigoloso a poca distanza da lei. Era Sherlock, addormentato su una sedia accanto al suo letto. Spostò lo sguardo più in basso e lo fermò sulle loro dita intrecciate. All’inizio ebbe difficoltà a riordinare i pensieri. Poi la memoria riaffiorò in immagini sconnesse. Per qualche secondo fu colta dal panico quando si sentì invadere il cervello da frammenti di ricordi di come fosse rimasta chiusa all’interno della bara. Strinse forte i denti e si concentrò sul respiro.
Era viva, ce l’aveva fatta. Sherlock ce l’aveva fatta. Ed era rimasto con lei.
Strinse di più la sua mano, cercando di rafforzare la presa con le sue deboli energie. Gli avvenimenti precedenti sembravano già molto lontani o addirittura un sogno assurdo. Si concentrò sul presente. Provò a schiarirsi la voce per parlare.
«Sher… lock.» Il suono che produsse fu sottile e raschiante, come un oracolo in trance durante la sua predizione.
«Sherlock.»
Le sue palpebre tremarono e spalancò gli occhi. Lei gli sorrise con dolcezza.
«Molly.» Pronunciò il suo nome in un sussurro flebile, la sua espressione stupefatta.
«Ciao.» Continuò lei.
«Ti sei svegliata.»
Quello sguardo lasciava trapelare tutto il sollievo che provava. La fissava in maniera talmente intensa che le procurò un brivido lungo la schiena.
«Come ti senti?»
«Ancora un po’ intontita. Mi sembra di aver preso una sbronza colossale e di essere stata sballottata su una nave durante una tempesta. Perché il letto continua a inclinarsi all’indietro?»
Lui sollevò la mano e parve essere sul punto di toccarla, ma all’ultimo minuto vi rinunciò.
«Vado a chiamare il dottore, hai bisogno di essere visitata.»

Sherlock scattò in piedi e corse nella sala medici. Tutti accorsero prontamente nella stanza di Molly, ma lui non entrò. Uscì fuori nel corridoio e si passò le mani sul viso. Il cuore continuava a battergli contro la gabbia toracica in un ritmo forsennato.
Tutti i timori, le paure, l’avvilimento che aveva covato in quei giorni, scivolarono via, rimpiazzati da un caldo guizzo di liberazione. Molly era viva, si era svegliata e qualcosa dentro di lui si era ricompattato. Afferrò il cellulare e inoltrò un sms a tutti gli altri per avvertirli che la patologa aveva ripreso conoscenza.
Sherlock lo ripose nella tasca e si allontanò, ritenendo la sua presenza ormai non più necessaria.
Percorse il corridoio con l’ombra di un sorriso sul volto. Era tempo di tornare ad essere Sherlock Holmes e sistemare altre questioni irrisolte.

***

John Watson era arrabbiato. No, non proprio arrabbiato. John Watson era incazzato nero. Ovviamente il destinatario di tale astio non poteva essere altri che un certo consulente investigativo.
Per i quindici giorni successivi al risveglio di Molly, Sherlock non si era più fatto vedere in ospedale. All’inizio John si era fatto bastare la spiegazione del dover incontrare Mycroft e i suoi genitori per rivelare loro la verità su Eurus (cosa che l’aveva rinchiuso nel suo mutismo da palazzo mentale) ma poi la faccenda aveva assunto tinte molto più surreali.
Sherlock si era buttato a capofitto nella gestione della ristrutturazione del 221B, nel lavoro e negli esperimenti, mettendogli sottosopra la casa e poi non facendosi vivo per altro tempo, senza renderlo minimamente partecipe.
Tuttavia John era abbastanza ferrato in Sherlockologia da scommettere che c’era sicuramente in ballo dell’altro (più precisamente qualcosa riguardante la patologa). I suoi sospetti l’avevano condotto all’unica fonte capace di fugarli, ovvero Mycroft. Il medico sapeva che tutta l’area di Musgrave era videosorvegliata e le registrazioni di quella notte dovevano essere da qualche parte.
La sua congettura si rivelò corretta e, una volta visionato il filmato, i pezzi del puzzle, che si erano cominciati ad incastrare la notte del rapimento, andarono al loro posto rivelando il quadro d’insieme: Sherlock Holmes se la stava filando.
E lui ormai ne aveva abbastanza. Era giunto il momento di metterlo spalle al muro e piantarla con quella situazione ridicola.

***

Quando John aprì la porta del 221B, studiò lo stato in cui versava l’appartamento da poco rinnovato, fino ad incrociare la figura del consulente.
Era steso sul divano, un braccio sugli occhi, l’altro languidamente abbandonato lungo il corpo, avvolto nella sua vestaglia color pelo di cammello, i piedi nudi che, in quell’ambiente dove sarebbe servito solo un bel fiammifero e tanta benzina, rischiavano escoriazioni o, peggio ancora, infezioni fungine.
«John, smettila di porti delle domande, mi infastidisci.» Disse senza neanche guardarlo.
«In tutta franchezza, le domande sono l’ultima cosa a cui sto pensando. Però, visto che sei così bravo a dedurre, puoi arrivarci da solo a formulare i miei pensieri.»
Sherlock spostò la mano dagli occhi, ruotando lievemente il capo in direzione del dottore.
«Sei un uomo molto rozzo e volgare, John Watson.»
Il medico spostò il peso da una gamba all’altra.
«Stai riducendo questo appartamento ad una topaia.»
Sherlock si voltò di scatto e si mise a sedere, accigliato.
«Non è una topaia.» Affermò con convinzione, facendo poi vagare lo sguardo nel soqquadro della stanza. «È solo uno spazio un po’ angusto.»
«Angusto, certo.»
John lo vide abbandonare il divano per andarsi a sistemare sulla sua poltrona di pelle, miracolosamente salvatasi dall’esplosione. Lo seguì e si sedette davanti a lui.

Sherlock guardò il dottore e gli lesse sul viso una strana sorta di nervosismo o qualcos’altro al quale non sapeva dare un nome. Non era mai stato bravo nell’interpretare gli stati d’animo, anzi, tendeva quasi sempre a travisarli. Provò quindi ad approcciare la questione seguendo un più semplice e sicuro processo di eliminazione, e avrebbe cominciato dal sentimento statisticamente più probabile.
«John, mi sembri… preoccupato.» Alle sue stesse orecchie la frase suonò più come una domanda che come una constatazione.
«Tu sei un completo idiota.» Rispose l’altro incrociando le braccia sul petto.
«A cosa devo questa sublime esternazione di affetto?»
Watson inspirò profondamente e contò fino a dieci, il tutto per evitare di tirargli un dritto sul naso. Lo rallegrò il pensiero di come gli avrebbe cancellato dalla faccia quell’espressione sarcastica.
«Molly.»
«Molly?» Sherlock si irrigidì, ponendosi in stato di allerta.
«Sì, ti ricordi di lei, no? Il medico specializzato in anatomia patologica che lavora al St. Bartholomew’s Hospital. Di recente è stata rapita e ha trascorso dei giorni in coma… la donna che, da quando si è svegliata, non hai più visto.»
«È successo qualcosa?» Domandò con una nota allarmata nella voce.
«No, sta benissimo, infatti è per questo che sono qui.»
Il detective gli fece un cenno per incitarlo a parlare.
«Visto che è stata dimessa dall’ospedale, abbiamo pensato che sarebbe carino organizzare un party di bentornato. Ovviamente tra gli invitati è stato fatto anche il tuo nome.»
«Non mi sento a mio agio durante le feste e poi, come puoi notare, sono molto occupato.» Le dita lunghe di Holmes vagarono per la stanza in uno sbuffo di eloquente impertinenza.
John si accomodò meglio nella poltrona, accavallò le gambe e strinse gli occhi. Quell’ostinazione gli stava facendo davvero perdere le staffe.
«Potresti anche farlo un piccolo sforzo, dopotutto si tratta di una cara amica.»
Il detective sospirò e lo guardò con sdegnosità.
«Non vedo come la mia presenza possa essere di un qualche supporto, visto che non ho la benché minima idea di come si organizzi una festa, per non parlare del fatto che le altre persone mi tollerano a malapena e…»
«Ho visto la registrazione di quella notte.»
Sherlock si interruppe, corrugò la fronte ed assunse un’espressione guardinga.
«Ah…» Socchiuse gli occhi e si abbandonò allo schienale. John lo aveva fregato. Cercò di mantenere un tono piatto e fece una leggera alzata di spalle. «E?»
«Come sarebbe a dire “E?”» John mandò fuori un sospiro irritato. «Sherlock, quando pensi di affrontare la situazione? Non credi di doverle un confronto? Per l’amor di Dio, le hai detto che la ami!»
«Lo so cosa ho detto, John, grazie tante!» Alzò la voce per poi riprendere in fretta il suo contegno studiato. «Vorrei solo sottolineare che se tu avessi visionato prestando maggiore attenzione, non ti sarebbe sfuggito il contesto.»
«Quindi è così che è andata? Hai semplicemente soddisfatto un desiderio espresso in punto di morte? Sherlock, seriamente, chi vuoi prendere in giro?» John sollevò gli occhi al cielo, stufo. «Ascolta.» Gli disse inclinando il busto in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia. «Lo so che per te questa faccenda dei sentimenti è… complicata e che per la testa ti passa l’impossibile da quella notte. Ma io so cosa ho visto. Ti conosco da parecchi anni e credimi quando dico che ho imparato a distinguere le tue espressioni quando decidi di mentire agli altri. Come con Janine, ricordi? Il tuo viso… cambia. Però, in quel momento, tu non stavi facendo un favore a qualcuno, non stavi partecipando al gioco. Stavi dicendo la verità.»

Il detective emise un suono a metà tra un grugnito e uno sbuffo. Aveva avuto modo di riflettere su importanti dettagli dal mattino in cui Molly era uscita dal coma e quello era il momento di renderne edotto anche John. Doveva recuperare il controllo della situazione. Il controllo significava tutto.
«Lei ti ha parlato di quella notte?»
John scosse il capo.
«Mi ha detto che i ricordi sono confusi ed è normale, lo shock potrebbe averle causato una qualche amnesia lacunare che potrebbe risolversi con il passare del tempo. I medici in ospedale sono della stessa opinione.»
Sherlock annuì.
«Illuminami, John, se lei non ricorda perché dovrei insistere nel farle rivivere un evento traumatico? Chi ne trarrebbe vantaggio?»
«La verità, Sherlock! Molly ha detto di amarti, è quello che prova da quando la conosci e, probabilmente, sarà così per il resto della sua vita. Tu l’hai vegliata giorno e notte, rifiutandoti di abbandonare il suo capezzale. Quindi ne giovereste entrambi se la smettessi di scappare nascondendoti dietro patetiche scuse e ti decidessi a parlarle chiaramente!»
Sherlock strinse di più le mani sui supporti della poltrona, stanco, irritato e stizzito dalla mancanza di ragionevolezza del suo amico.
«Proprio non vuoi capire! Pensi sia giusto andare da lei e ribadire che per colpa mia ha rischiato di morire, che la mia dichiarazione è stata frutto di una manipolazione degli eventi e che, in altre circostanze, non ci sarebbe stata? E poi, anche se fosse tutto vero - come ti stai affannando a sostenere con tanta veemenza - , non vorrei che il ricordo di quelle parole conducesse solo ad una serie di memorie dolorose che sarebbe meglio cancellare.»

John esitò un attimo, incerto su come esprimersi. Sherlock aveva voltato la testa in direzione del camino, e si rese conto che gli era entrato in funzione un meccanismo di difesa nello sguardo abbassato perché non tradisse ciò che provava. Avrebbe fatto di testa sua, come sempre, facendo dannare tutti gli altri attorno a lui.
Rifletté che forse avrebbe dovuto rassegnarsi, anche se la parola non era contemplata nel suo vocabolario. Era un soldato e come non si era fatto abbattere dalle mitragliatrici nemiche né dai tristi eventi a cui la vita lo aveva sottoposto, non si sarebbe fatto sopraffare dalle sue obiezioni, per quanto giuste apparissero. Sicuramente Sherlock si sentiva frustrato, risentito, magari anche incompreso. Si era convinto di essere nel giusto perseguendo quella via di cocciutaggine e si stava comportando da stupido. Forse la sua intenzione era davvero quella di proteggere Molly da un tracollo emotivo e se stesso da sentimenti la cui matassa non riusciva a dipanare e lo rendeva vulnerabile. L’unica cosa che avrebbe potuto far uscire Sherlock dalla sua impasse, era una scossa. Ma non una scossa qualunque, un vero e proprio terremoto.

«Ora ti intestardisci a non voler recepire ciò che ti sto dicendo e a fare di me una sottospecie di persona spregevole che vuole metterti in difficoltà, eppure, un giorno, lo farai. Ho sempre creduto che il vero senso dell’amicizia fosse circondarsi di persone dotate di qualità che possono renderti una persona migliore. Apprezzare i loro insegnamenti e cercare di ascoltarle quando rivelano qualcosa di te - non importa quanto cattiva o buona possa essere - e soprattutto fidarti di loro, che è la cosa più difficile di tutte. Ma anche la migliore.» John prese una pausa e osservò la punta delle sue scarpe strusciare sul tappeto. Sherlock non aveva mosso un muscolo, ciò nonostante sapeva che non si era perso una parola del suo discorso.
Si alzò in piedi, pronto ad andarsene, il suo compito a Baker Street era concluso.
Sherlock lo seguì con uno sguardo fosco e pensieroso, fino a quando John si fermò sulla soglia. Mise una mano sullo stipite e si morse il labbro inferiore, dubbioso su cosa volesse aggiungere e tamburellò brevemente le dita sul legno.
«Una volta mi hai detto che avevi la terribile sensazione che fossimo tutti umani, me compreso. Forse non avresti dovuto aspettare tanto tempo per realizzare di esserlo anche tu. Ma sai com’è, meglio tardi che mai.»
Sherlock non accennò la minima reazione quando il dottore lasciò l’appartamento, e d’altra parte John era abituato ai suoi comportamenti insoliti.
Glieli aveva elencati tutti quando si erano conosciuti.

***
Salve!
Perdonate il ritardo, ho avuto non pochi problemi a rimettere a posto questo capitolo. La mia idea iniziale era un tantino diversa, è stato un cambiamento in itinere che tra l’altro non prevedeva la presenza di Irene Adler. Trovo il suo personaggio molto affascinante, anche se non è per niente semplice scriverne. Voi direte: allora qui cosa c’entra? Beh, ho pensato che una donna dal carattere insinuante come il suo non avrebbe perso occasione per andare a stuzzicare Sherlock, non dopo i suoi rifiuti di cene e quant’altro. Per sua stessa ammissione il detective le risponde qualche volta ma questa situazione, con in ballo un gran carico di sentimenti, è un altro paio di maniche. Se Sherlock non fa nulla senza un motivo (di cui sia consapevole o meno), anche lei è dello stesso avviso. Penso che la curiosità di vedere la donna per cui Sherlock ha implorato più volte sia stata un richiamo forte, così come il rinfacciargli tutte le cose dette in passato quali “Io non imploro, i sentimenti sono difetti chimici dalla parte perdente e non dovrebbero guidarti il cervello” ecc, ecc.
Poi chissà, Sherlock potrebbe anche essersi immaginato tutto, è abbastanza logorato il ragazzo…
Ecco, arriviamo a lui. Sherlock soffoca, sopprime ma, prima o poi, esplode. Lui è capacissimo di mentire a se stesso, cerca di capire, di ritrovare il controllo che questo tipo di situazioni lascia sfuggire. Tutto deve avere una spiegazione logica, deve essere inquadrato e passato al vaglio del suo esame. Non ci si libera di un approccio alla vita come il suo dalla sera alla mattina. Lui ammette che ci sono stati dei cambiamenti. Io non credo che siano tali da fargli arrivare a gestire una cosa complessa come l’amore. Se Molly ha una visione chiara e limpida dei propri sentimenti, Sherlock non ce l’ha. E credo sia quello che lo inibisce di più. Si giustifica, cerca di sviare, fa perdere le staffe a John applicando il consueto raziocinio a tutto. Penso si sia evinto dal capitolo qual è la mia visione di Sherlock e dei suoi sentimenti. Non so se siete concordi, ma a ciascuno il suo XD
Allora, come al solito, vi rinnovo l’appuntamento alla settimana prossima con il penultimo capitolo e scusatemi per il commento corposo quasi quanto il capitolo postato :P
Baci e buona settimana ^^

  
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