Anime & Manga > Yu-gi-oh serie > Yu-gi-oh! Arc-V
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Autore: Selena Leroy    01/06/2017    2 recensioni
Il progetto "Les Enfant Terrible" aveva uno scopo: dare alla luce una nuova generazione più consapevole, più capace e più ambiziosa della precedente. Non era rimasto molto, d'altronde, agli ultimi superstiti di un pianeta arso vivo dalla Peste, un nuovo morbo che infesta il pianeta uccidendo qualunque creatura esistente si trovi sul suo cammino.
Yuya Sakaki è una di queste speranze, cresciuta assieme al padre e alla medicina. Ha solo sedici anni, ma il suo quoziente intellettivo supera di gran lunga quello delle sue normali coetanee; con il suo amico di sempre, quel ragazzo di nome Yuto segretamente innamorato di lei, continua una battaglia che però sembra persa in partenza.
E la situazione, per lei, volgerà inaspettatamente verso il peggio; alla morte improvvisa del padre, le decisioni di un uomo mai visto né sentito e che risponde al nome di Leo Akaba, la porteranno via dal suo luogo natio, dai suoi affetti e dai suoi amici, e in quella solitudine imposta da estranei, nelle cui menti si cela un segreto dalle cupe ombre, tutto ciò che le rimane da fare è lottare, e continuare quella ricerca ora così preziosa. Se farlo o meno da sola, dipenderà solo da Reiji Akaba...
[Pendulumshipping]
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akaba Reiji/ Declan Akaba, Yuto, Yuya Sakaki
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
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L

e imposero di conoscere la morte alla tenue età di dieci anni, l’ambizione di quei folli che non riconoscevano più la sua infanzia si era snodata fino ai limiti di una folle derisione verso qualunque vincolo e rispetto in quei diritti che la fanciullezza avrebbe avuto da riservare, l’innocenza scacciata come un male peggiore di quello che si desiderava curare, ucciso con la verità.

Si chiamava Rachel, e doveva aver avuto pressappoco cinque anni. Che ella fosse una bambina lo si evinceva dalla sua bassa statura e dall’esilità del corpo tremante, ma che di quel viso infantile non ci fosse più nulla di effettivamente puerile era una cosa a cui molti, tra i suoi compagni, erano giunti ad affermare sotto le ironiche risate di chi non concepisce più quale sia davvero un motivo per concedersi al lusso della risata.

Yuya non rideva. Il baluginio delle sue iridi cremisi era un’ode al pianto che le era stato vietato di versare, i singhiozzi trattenuti un cappio che le strattonava il collo in attesa della sua decapitazione, il cuore un piombo fuso che atterrava dolcemente verso i meandri di una disperazione mai creduta umanamente concepibile.

Lei era lì, prossima a spegnersi, il volto a rigarsi di quelle lacrime sanguigne che l’avevano trasformata in un’orrenda maschera di grottesco dolore, il corpo a riempirsi di piaghe nere e gli occhi spiritati, ormai immersi nella follia in cui si cade inevitabilmente al concretizzarsi definitivo della Peste, volti verso di lei.

Già, proprio verso di lei. Anche se era da dichiarare impossibile un tale evento, congelatosi nell’ermetica riservatezza concessa alla paziente riflessa dal mare di specchi che quei vetri ingannatori le concedevano nel loro pertugio di conforto, lei lo sentiva quello sguardo sulla sua pelle, ne avvertiva il tremore quasi fosse una cosa tattile capace di raggiungerla per lambirle la diafana pelle coperta di brividi.

E in quello sguardo non vi era alcun sentimento, se non l’ultimo pensiero della moritura.

Perché non mi avete salvata?

 

***

 

I

l piccolo Reira dormiva tranquillamente accanto a lei, accoccolato a quel piccolo peluche da cui considerava impensabile ogni qualunque tipo di separazione, e il respiro leggero che accompagnava il lieve movimento del suo corpo era l’unico suono percepibile all’interno della stanza oscurata dal sole.

Yuya lo guardò intenerita, mentre discendeva dal letto con l’affetto di chi non desidera far scoppiare la splendida bolla onirica nel quale i bambini sono avvolti, e al suo districarsi dalle leggere coperte sentì su di sé l’immensa colpa di aver macchiato, anche solo con l’ombra dei suoi ricordi, la dolcezza di un infante rinchiuso nella blindata difesa dorata offerta dalla sua ignoranza del male.

I bambini erano qualcosa di indispensabile, per una società così prossima al collasso, la loro esistenza non era più il semplice frutto di un amore consumato nei gesti della passione, era l’avverarsi di un miracolo nell’immonda ferocia del mondo circostante, un flebile raggio di luce che si districava tra le nubi di morte ormai aleggianti in maniera fosca per tutto il distrutto globo.

Reira era tutto questo; il generare di un sorriso verso i suoi dubbi a confrontarsi col male degli adulti era un obbligo che ella avrebbe voluto riconosciuto da tutti, perfino da quel riottoso fratello adottivo che con ogni mezzo aveva deciso di rendersi insopportabile ai fini di un’esistenza abbastanza vicina alla sua da far pesare qualunque contatto vigente tra i due. Un rancore che la ragazza non sapeva in alcun modo spiegare, ma di cui aveva ormai accettato l’esistenza, anche per il solo scoramento dato dalla mancanza di soluzioni in cui la sua mente arenava.

In fondo, si diceva rincuorata, ella non era sola. La presenza del piccolo Reira, orami affezionatosi a lei nell’incalcolabile dolcezza con cui sono soliti amare i bambini, era sufficiente per concederle speranza anche quando quelle iridi ametista facevano la loro comparsa per adombrare ogni suo sereno pensiero. La voce esile del piccolo mentre le chiedeva della sua vita passata, la manina che si avvinghiava ai suoi vestiti quando cercava di attirare la sua attenzione, gli occhi zaffirini che si allargavano di stupore a qualche sua rivelazione di dolce attesa, era tutto ciò che le serviva per poter rispettare il sacro vincolo impostole dal padre; sorridere era diventato quasi impossibile, da quella terribile tragedia che ancora scuoteva il suo cuore in viscere di dolorosa stretta, e il ricordo di lui, evanescente in immagini che ella non aveva altro modo di concepire se non nella fantasia dei sogni, funestava la sua anima ormai al tracollo della sua coscienza. Erano giorni in cui alla tristezza si alternava quella spossatezza guadagnata a sforzo di mille menzogne portate avanti al mentire sulla sua vera condizione, e senza quel dolce bambino al suo fianco ella non avrebbe mai potuto aver vita in quel pertugio di false certezze, e il fascino della morte avrebbe preso il sopravvento senza lasciarle altro scampo se non il ricongiungersi cruento con l’unico uomo che desiderava rivedere.

Reira era tutto quello che lei non era stata, e avrebbe voluto concedergli tutto ciò che uomini privi di alcuno scrupolo avevano preteso di strapparle. Ecco l’imbarazzo nell’accostarsi a lui quando la sua mente ancora vergava sull’orrida immagine di una bambina morente, ecco perché sentiva quasi il bisogno fisico di scacciare dal fanciullo tutta la corrosività delle inique verità a cui un tempo ella fu sottoposta.

Il progetto Les Enfant Terrible venne considerato – in maniera onerosamente giusta – come l’approdo più nefasto per ogni considerazione dell’umana concezione dell’anima. Tramutare gli esseri viventi in macchine semoventi dalle strabilianti capacità di calcolo ma completamente inabili in qualunque dimostrazione affettiva ne guastasse l’insuperabile efficienza aveva portato molti a condannare il futuro nella cancellazione di ogni speranza alla guarigione della malattia. Chi avrebbe popolato quella terra, all’uscita da quel buio tunnel, se non umani ormai completamente dimentichi di cosa fosse l’amore? Questo servì come spiegazione per il respingere, da parte di molti, di questa barbara pratica dell’abbassamento morale. Yuya fu solo una dei pochi sfortunati partecipanti, e sulla sua pelle sentiva ancora il marciume gettatole addosso nell’indifferenza che i suoi mentori generavano su se stessi al realizzare per loro programmi totalmente inadatti alla loro superficialità di ragazzini. Erano stati cresciuti così, e nulla aveva potuto mettere riparo all’indicibile danno operato sulle loro anime.

Senza suo padre, la ragazza sarebbe diventata un essere amorfo, osceno nel suo continuo esistere, indifferente verso ogni semplice forma di sofferenza umana. E al pensare di una simile catastrofe, le sovveniva sempre in mente lo sguardo austero di Reiji quando, con voce raggelante, aveva valicato con noncuranza tutti quei limiti per lei insormontabili.

In quei pochi secondi, le si era palesata dinnanzi ciò che le elucubrazioni nefaste di uomini saggi ma inascoltati avevano profetizzato, ciò che avrebbe rischiato di concepire senza una guida a indicarle l’uscita dalla strada della perdizione, ciò che avrebbe pronunciato nel male congeniale all’indifferenza. L’effige di quanto desiderato da coloro che l’avevano cresciuta, l’odio aberrante natole dentro andò a spiegarsi proprio in ragione di quell’espressione fanatica che troppe volte aveva visto senza concepire la profondità della follia insita nel lugubre brillio rossastro.

Concepirsi come anime destinate ad un eterno peregrinare in direzioni opposte non aveva concorso alcun sacrificio di intenti, soprattutto per colui che fin da subito si era reso araldo di tutta l’animosità che quella casa poteva concepire nei suoi confronti, e il divergere degli sguardi nelle rare occasioni di collisione tra le loro realtà si realizzava nell’unanime decisione di lasciare al gelo il compito di sviscerare ogni loro legame di acerbo sentimento.

Il piccolo Reira era l’ultimo tassello rimastole nel suo distacco pedissequo dal freddo ragazzo. Il bambino, bontà sua, custodiva all’interno della sua innocenza l’infante sogno di divellere quella loro testarda decisione di allontanamento congiunto. Lo si evinceva da quelle frasi apparentemente casuali, pronunciate con una noncuranza studiata e con il timore nascosto nelle cuciture del peluche ormai consunto; dalle risposte ricevute era sempre solito trarne un sorriso triste, nell’evidenza di quanto titanica si rivelasse la sua impresa; e pur tuttavia egli non lasciava mai allo smarrimento il compito di inficiare sulla sua focosa determinazione. Per lui, Yuya avrebbe lasciato il mondo ai compromessi, avrebbe giocato la carta della maschera e avrebbe accondisceso ad ogni sua più esigua richiesta, anche solo per la generosità che traspariva da cotali desideri, ma in cuor suo sapeva perfettamente quanto umiliante e svilente si sarebbe rivelato il cedere alle lusinghe del cucciolo, e l’idea stessa di dover valicare quel muro che Reiji aveva sapientemente costruito intorno a lui la disdegnava nella caparbietà di chi non concepisce immani fatiche solo per la vanagloria altrui. Era forse semplice orgoglio, quanto le impediva di aprirsi a colui che ancora non riusciva a chiamare fratello, eppure ammetterlo non la aiutava a concedersi l’annullarsi delle sue debolezze. Constatare e osservare quanto fosse umana era l’unica cosa che davvero potesse fare.

“Yuya, sei sveglia?”
La voce di Leo Akaba, seppur profonda e greve, si disciolse nell’aere con la delicatezza di un velo di seta lasciato a strusciare sulla pelle. Che fosse per Reira o per la ragazza, tale gentilezza, a lei non era dato saperlo. Aprirgli la porta fu l’unica cosa che le rimase da fare per rincontrare quel sorriso di affabile gentilezza, un sorriso che – a detta di molti – non gli si vedeva in viso dalla morte della figlia adorata, scomparsa anni addietro per via del male che troppe famiglie aveva devastato.

“Voglio che tu venga a vedere con i tuoi occhi. Oggi sperimenteremo la cura!”

 

***
 

S

i chiamava Eisuke, ed era un giovane ragazzo di quindici anni. Il viso pallido e smunto aveva da poco perso la patina sanguigna che uomini chimicamente protetti avevano rimosso con veli delicati subito distrutti per il grado infettivo in esso custodito. Yuya guardava quasi con diffidenza quell’agire asettico di dubbia utilità, gli anni avevano dimostrato che nulla preveniva davvero gli eventuali contagi, il contatto con sostanze infette non era mai stato dimostrato come effettivo mezzo utile a contrarre una simile piaga. Ma si chiamava precauzione, quella che ormai costringeva gli umani a temere le loro stesse ombre per paura che in esse ci fosse il mortale batterio, e a simili circostanze ella non aveva potere di dir nulla se non nei suoi ironici pensieri. Lo sguardo cremisi lasciato a vagare sull’eccessiva magrezza del soggetto posto a sperimentazione, sui capelli ormai incanutiti prima del tempo, sulle labbra tremanti e sulle macchie nere comparse attorno alla gola, aveva risvegliato in lei una tremenda agitazione nata dalle parole dell’uomo in minuti ormai lontani eoni.

“Il signor Miyase, secondo la sua cartella clinica, è destinato a morire tra non pochi minuti” enunciò Leo Akaba al suo fianco, la figura possente a rendere claustrofobica la piccola stanzetta di vetro che li proteggeva – ennesima precauzione inutile ma necessaria – da qualunque rischio di contagio “So che è crudele, una cosa simile, ma ho bisogno di comprendere nell’immediato istante quanto sia efficace la mia ricerca. Ti assicuro, comunque, che nulla di male gli verrà fatto durante le sperimentazioni. Sai bene che io non sono come mio figlio”

Gli occhi della giovane rimasero socchiusi, all’accendersi delle bianche luci nell’interno dello spoglio laboratorio. Preparato per l’arrivo di un paziente terminale, ogni qualsiasi cosa esposta al contagiato era stata rimossa ai fini di inutili perdite di tempo in eventuali decontaminazioni, e tutto quello che era rimasto, oltre all’invisibile gabbia nel quale erano rinchiusi, era un lettino con la dovuta strumentazione per il calcolo delle funzioni vitali. I pochi presenti in sala - l’identità nascosta in quelle divise dal bianco splendore – altro non possedevano se non una grande siringa da 50 CC, il liquido cremisi a rilucere nella monocromia dell’ambiente circostante. Yuya represse un brivido, al pensiero che in esso vi era parte del suo sangue, adeguatamente studiato affinché non risultasse dannoso per i pazienti che lo avrebbero accolto nel loro corpo. Leo Akaba aveva contribuito, a quanto egli stesso amava affermare, eppure la giovane non lo aveva mai visto debole come accadeva a lei durante le prime trasfusioni.

“Possiamo incominciare” affermò Leo Akaba, e nella consapevolezza che quel luogo li proteggeva anche dai suoni, gesticolò il suo ordine in un movimento confuso di mani.

E gli uomini acconsentirono.

All’inizio non accadde nulla. All’effettuarsi dell’operazione, aveva avuto seguito solo la lieve smorfia del paziente, il quale riusciva a percepire il lieve dolore anche nel limbo dei narcotici che gli erano stati somministrati. Sia Yuya che Leo guardavano con apprensione il fievole respiro del giovane che non accennava a migliorare, il bip delle macchine a intuirsi attraverso la lettura di monitor statici a qualunque cambiamento.

E poi accadde. Un tremore improvviso, nuove lacrime a riversarsi sulle guancie, lamenti convulsi a scuotere il corpo agonizzante.

“Aumentate il dosaggio dei sedativi!” urlò Leo Akaba, dimentico del luogo in cui era e del silenzio che comportava. I suoi uomini non risposero, anche loro assistevano attoniti al macabro spettacolo che si stava consumando senza una voce razionale a suggerire cosa compiere in una simile circostanza.

“Adesso vado in sala, tu non muoverti da qui!” esclamò alla fine l’uomo al fianco di Yuya dopo due estenuanti minuti carichi di angoscia, la mano ad artigliare la maniglia trasparente con fare aggressivo.

Ma Leo Akaba non uscì da quella stanza. E questo perché, nello spiraglio concesso dal suo impeto, egli riuscì ad udirlo. Ascoltò basito quel suono intermittente che aveva tanto voluto sentire.

“Signore, il paziente risponde! Battito cardiaco in aumento, stabilimento di tutti... sì, di tutti i parametri vitali! Signore, è incredibile”

E Yuya, dall’angolo del suo cantuccio, non riuscì a trattenere le lacrime.

“Sta guarendo...”

 

***

 

“F

ratellone, hai visto Yuya?”
Era stata una giornata priva di qualsivoglia distrazione, il supplicare di requie aveva trovato risposta ad un indifferenza che aveva del sadico nell’inchiodarlo sul posto di lavoro anche con la mente a vagare altrove.

Massaggiarsi il setto nasale non aiutò il mal di testa imminente che minacciava di distruggere quella poca pazienza rimastagli, e il continuo rivangare di quei documenti non era che un aggravante a quel desiderio sempre più prepotente di abbandonare, almeno per quel giorno, tutto quanto fosse cartaceo o digitale e concedere alla sua mente un momento di silenzio e di tranquillità, momento che aveva ricercato già il giorno precedente ma con scarsi risultati. La ramanzina di Himika Akaba risuonava ancora nelle sue orecchie, il fastidio a mescolarsi al rancore covato nei confronti di una ragazzina che, a poco a poco, stava convergendo tutte le persone di quella casa dalla sua iniqua parte. E adesso il fratellino, il suo adorato fratello minore, che chiedeva espressamente di lei proprio a colui che più di ogni altra cosa ne desiderava l’immediata distanza e l’istantanea cancellazione dalla sua vita.

“No, Reira, sai bene che Yuya non ha alcuna licenza qui, non è possibile che l’abbia vista”

Il viso deluso del bimbo fu un colpo basso al quale il ragazzo non era preparato. Al rancore adesso incedeva il rimorso, la voce accusatoria che sempre amava sbandierare nei confronti della ragazza adesso l’avrebbe volentieri concessa a se stesso, per aver lasciato al suo incalzante sentimento d’acredine la possibilità di sferzare la tenerezza e la sensibilità di un bambino innocente.

“Quando hai visto Yuya per l’ultima volta?” Chiese dunque, sperando in cuor suo che – qualunque colpa gravasse sulla sua coscienza – si cancellasse per quella strana forma di inspiegabile interesse che aveva lasciato a vagare nella discussione.

“Ieri... ieri sera” rispose il bambino, lo sguardo ancora fisso verso il basso “Siamo andati a dormire insieme... ma quando mi sono svegliato, lei era già andata via”

“E non ti ha detto se aveva qualcosa da fare, per quest’oggi?”

Il bambino denegò, le mani strette attorno al peluche quasi con animosità, forse una qualche dimostrazione di rammarico verso se stesso per non aver prestato abbastanza attenzione ai pensieri della giovane.

“Però, ora che ci pensò” aggiunse dopo alcuni secondi, meditabondo “Forse papà ne sa qualcosa”

Il viso del fratello maggiore si fece in quell’istante aggressivo, il sospetto a incedere nella luce profonda delle iridi indagatrici.
“Sì, ora ricordo” continuò il piccolo, ignaro della tempesta che le sue parole potevano scatenare “Mi sono svegliato perché avevo sentito una voce... non ricordo cosa abbia detto, però sono sicuro che era lui. Forse è stato allora che Yuya se n’è andata... ma avrebbe almeno potuto svegliarmi”
Reiji non resse più. Alzatosi di scatto dalla sedia, lasciò cadere il camice sul piccolo divano che fin troppe volte aveva utilizzato come letto, e a larghi passi percorse il suo studio per raggiungere l’uscita.

“Fratellone, dove stai andando?” Chiese il piccolo Reira, allarmato da tanta agitazione.

“Tu adesso va dalla mamma, Reira” rispose l’uomo, serio in volto “Io vado un attimo da nostro padre... credo che abbia alcune cose da dirmi”

 

   
 
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