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Autore: Damnatio_memoriae    03/06/2017    4 recensioni
Andrea è una studentessa che ama scrivere.
Vittoria è una studentessa che ama leggere.
Sembra già tutto preparato a tavolino e lo sarebbe ancora di più se entrambe si rendessero conto di chi è la persona che hanno vicino. Ma fraintendersi è facile, troppo facile, e le parole possono far male, soprattutto quelle scritte. Sono gli opposti che si attraggono o i simili che si pigliano?
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
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On my own

Capitolo II
 
But every time I do this my way
I get caught in the lies of the enemy
I lay my troubles down,

I’m ready for you now
 
 
Andrea ancora stentava a credere di essersi fatta coinvolgere in un progetto del genere, al punto di rimanerne ingarbugliata dal collo in giù. Non solo aveva quasi rischiato di beccarsi una nota per quel lercio spione di Salvemini – il loro odio reciproco si era fatto evidente già dal terzo giorno di scuola -, ma avrebbe anche dovuto passare un pomeriggio a settimana in istituto per lavorare ad un progetto che non aveva la più pallida idea da che parte si dovesse prendere. Chi aveva mai fatto il rappresentante d’istituto? Non aveva nemmeno partecipato alle riunioni di quelli degli anni passati, ma non era certa che avessero apportato delle modifiche così pregnanti, contando che tutto era rimasto esattamente uguale. In compenso a quelli del Classico, tutti all’ultimo anno, sarebbe almeno stato riconosciuto un punteggio più alto alla maturità, ma a lei, che era solo al terzo anno, cosa sarebbe spettato? Un voto più alto in pagella, una stretta di mano e chi si è visto si è visto?
Picchiettò nervosamente la matita sul tavolo di legno. Avrebbe potuto impiegare quel tempo per studiare, per scrivere. O per parlare con Maeries. E invece no.
Stappò la sua bottiglietta d’acqua e ne bevve un sorso prima di ritornare a testa china sul suo blocchetto di appunti.
La scuola non era mai stata tanto silenziosa come in quel momento, o forse era il corridoio del quarto piano ad essere sempre così contemplativo. La vicepreside aveva assegnato ai nuovi rappresentanti d’istituto l’ex sala riunioni e Andrea doveva ammettere che i professori del Classico si trattavano più che bene: il tavolo era lungo e curato, gli scaffali in ordine, i volumi nelle vetrinette disposti accuratamente in ordine alfabetico. Nulla a che vedere con le sue sale riunioni, per lo più accampate nelle prime aule disponibili, i muri impiastricciati di scritte, i cavalletti traballanti. Odiava profondamente dover dare ragione a quegli spocchiosi, ma la loro ala della scuola non sembrava aver accolto un’orda di vandali inferociti.
Guardò il foglio bianco che aveva sotto mano. All’inizio di ogni riga aveva segnato dei punti in lettere romane, per buttare giù qualche nuova idea da esporre al comitato…ma esattamente che cosa avrebbe potuto proporre per migliorare la vita a quelli dell’Artistico? Insomma, almeno lei avrebbe dovuto saperlo. Non è che non ci fosse nulla da dire, è che ce n’era troppo. Andrea avrebbe voluto fare come era solita con le storie che non le venivano bene: selezionare tutto, cancellarle e riscriverle. Ma in quel caso bisognava aggiustare e lei non era brava in quello.
Con un tratto incerto riempì i punti con qualche spunto, poi, come da una parola nasce una parola, l’idea VI si trasformò in storia e la storia in descrizione. Erano già tre giorni che non scriveva nulla. Erano già tre giorni che non sentiva Maeries e uno strano vuoto iniziava a farsi strada nel suo stomaco.
 
Sasha provò a trattenerla stringendole un lembo della maglietta, ma Noemi la allontanò malamente.
«Non mi devi toccare!» le sibilò, non potendo alzare la voce senza che qualche bidello le scoprisse a saltare le lezioni.
«Mi devi ascoltare» insistette, lo sguardo deciso ma gli occhi insicuri «Ti prego».
«Perché dovrei?» ribattè aspramente «Io non esisto più, ricordi?». Finse una sicurezza che non sentiva e la voce la tradì, costringendola a darle le spalle per non essere vista.
«Noemi, mi dispiace…».
«Dispiace anche a me. Dispiace anche a me averti dato tutto quello che avevo e averti guardata mentre lo gettavi via».
«Non è così».
«Evidentemente non eravamo nulla di importante».
«Lo so quello che è successo con Luca. Se solo lo avessi saputo, allora avrei…» titubò «Avrei reagito in maniera differente».
«Io invece sono felice che sia andata così. Almeno adesso è chiaro il posto che occupo».
«Bhe, allora gradirei che tu lo spiegassi anche a me!» disse esasperata, allargando le braccia.
Noemi si morse le labbra. «Io adesso torno in classe» sentenziò, asciugandosi gli occhi «Non mi va di restarti vicina».
«Aspetta» le sbarrò la strada, parandosi davanti alla porta «Dobbiamo parlare, non puoi continuare a scappare».
«Oh, tu adesso vuoi parlare? E quando volevo parlarti io, tu dov’eri? Quando io avevo bisogno di chiarire, di capire perché mi avessi riempito la testa di stronzate, tu dov’eri? Non c’eri».
«Noemi…».
«Noemi un cazzo» sbottò «Quante volte te lo sei portata nel letto, Sasha? Quante? Ed io che pensavo ti servisse tempo, ti servisse spazio, io che ti aspettavo pensando che prima o poi ti saresti accorta di me. E intanto Luca ti…» si arrestò, lasciando la frase a metà «Non importa».
«A me importa».
«A me non più!».
«Che cosa vuoi che ti dica?! Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!».
«Non serve dispiacersi se non hai neanche capito dove hai sbagliato!».
«Posso migliorare!».
«Tu non vuoi migliorare!» pianse «Non ti rendi nemmeno conto dell’effetto che le tue parole possono avere sulle persone. Tu apri la bocca e parli, parli, parli e se qualcuno ci rimane male pazienza, potrai sempre dire che ha frainteso, dico bene?».
«Questo è meschino Noemi».
«No, sei tu quella meschina» alzò un dito per indicarla «Tu che non sei mai brutale, sei solo “sincera”; tu che spari a zero su tutti, ma hey, sei fatta così, ti dobbiamo accettare; tu che sei integerrima e non puoi scendere a compromessi, piuttosto che siano gli altri ad accontentarti; tu che non sbagli mai, siamo noi poveri stupidi che non capiamo quello che vuoi dire».
«Smettila».
«Mi hai guardata in faccia. Mi hai guardata in faccia e mi hai detto che solo ripensare a quello che avevamo fatto ti faceva venire da vomitare. Dimmi, ho frainteso anche questo?».
«Si!».
«Ah…certo. Ovviamente. Colpa mia: avrei dovuto prenderlo come un complimento. Come quando mi hai detto che per te non esistevo più. O quella volta in cui mi hai detto che ero solo uno scherzo. O la volta prima, quando mi hai detto che la nostra era solo una cosa fisica e non c’era nient’altro di importante. Era solamente una “cottarella passeggera”, no?».
«Invece di rinfacciarmelo adesso, perché non hai aperto la bocca quando era il momento di farlo?!».
«E di nuovo la colpa è la mia! Sei un’egoista Sasha. Lo sei sempre stata, ma non credevo fino a questo punto, non dopo tutto quello che mi avevi già fatto passare. Ma non ti stanchi mai di dire e dire e non fare mai nulla? Perché in fon…».
 
«Ciao ragazzina» le sussurrò all’orecchio una voce, facendola sobbalzare. Involontariamente Andrea premette troppo duramente la matita sul foglio e la punta si spezzò, imbrattando l’ultima riga.
Di nuovo lei. E non l’aveva nemmeno sentita arrivare.
Istintivamente girò il quaderno a faccia in giù per evitare che quella ragazza potesse sbirciare i suoi scarabocchi.
Si voltò appena a guardarla e non riuscì a nascondere il fastidio. Non è che avesse qualcosa contro di lei in particolare, ma non la mandava in visibilio l’idea di dover condividere i venerdì con Vittoria e i suoi amici - magari quegli stessi amici che l’avevano bullizzata.
«Ti ho detto di non chiamarmi così» le disse e come saluto lo ritenne più che sufficiente.
L’altra si limitò a sorriderle e a girare con il cucchiaino di plastica il caffè che aveva appena preso alle macchinette. Aveva gli occhi chiari e i capelli biondi tagliati corti, anche se doveva averli avuti lunghi fino a non molto tempo fa; la pelle chiara e liscia coperta da un leggero trucco, il naso all’insù e un’espressione curiosa perennemente stampata sul viso. Una barbie, se non fosse stato per il seno troppo prosperoso e i vestiti sportivi. Andrea avrebbe di gran lunga preferito che Vittoria avesse avuto anche la lingua e l’intelligenza di una barbie. E invece le disgrazie arrivavano sempre tutte insieme.
«Ma a me piace chiamarti così» ribattè.
«Ti diverte essere inopportuna?».
«Mi diverte dare fastidio alla gente, sì. Alle persone permalose soprattutto. Ma non sarebbe così divertente se tu non ti impegnassi tanto per rendermelo facile».
Andrea buttò uno sguardo alla porta. «Ci sei solo tu?».
Scosse la testa «Gli altri arriveranno a momenti. Siamo sole solette».
La mora roteò gli occhi. «Che goduria, aspettavo questo momento da tutta la vita…».
«Dolce come uno yogurt scaduto, andiamo migliorando».
«Se vuoi dolcezza posso darti due euro per andare a comprare una brioches, che dici?».
«Così piccola e già così scontrosa» rise «Hai imboccato la strada per diventare zitella senza passare dal via?». Bevve un sorso di caffè.
«E tu invece? Hai un buono per uscire gratis di prigione?».
«Non te l’hanno mai detto che sembri quasi una ragazza perbene quando sorridi?».
«Non direi».
«Forse perché non sorridi spesso. Mi chiedo come fai a camminare senza inciampare nel broncio che ti ritrovi».
«Non saprei, tu come fai a non inciampare? Ti hanno dato il porto d’armi per andare in giro con quelle due testate nucleari?» alzò un sopracciglio, squadrandola.
Vittoria si passò una mano tra i capelli, scostandosi il ciuffo che le dava fastidio agli occhi. «Ragazzina, dovrai fare di meglio: sono anni che sento queste battute, ormai non mi fanno più nessun effetto. Mi aspetto decisamente più inventiva da una studentessa dell’Artistico».
Andrea picchiettò le dita sul tavolo, ma quando si accorse di star facendo troppo rumore si fermò, la bionda che la osservava con fare compiaciuto.
«Smettila di chiamarmi ragazzina» riuscì solo a ripetere Andrea, guardando da un’altra parte.
«Sei buffa quando ti imbarazzi».
«Io non mi imbarazzo per niente».
«Dillo alle tue guance, magari loro ti credono».
Andrea non rispose e Vittoria continuò «Chi è che ti chiama così?» le rivolse uno sguardo malizioso.
«Te lo direi, se fossero affari tuoi».
«Ah, c’è un amore dunque».
«Smettila, non mi conosci nemmeno».
«Ti ho vista con la testa nel water, direi che abbiamo raggiunto un certo grado di intimità, non credi?».
«Divertente. Davvero divertente» sputò, sperando che quel caffè le si trasformasse in aceto nello stomaco.
«Suvvia, che espressione truce» la blandì l’altra, passandosi il cucchiaino da una parte all’altra della bocca e provando con il bicchierino vuoto a fare canestro nel cestino – senza riuscirci. «Sorridimi come hai fatto l’altro giorno quando ti ha scritto il tuo ragazzo».
Andrea aggrottò la fronte. «Io non ho nessun ragazzo» tagliò corto, senza dilungarsi in troppe spiegazioni.
«Ah, no?» fece spallucce «Poco male. Chi era, qualche tuo amico speciale?» domandò curiosa, tirando indietro la sedia a capotavola e sedendosi a cavalcioni, le braccia appoggiate allo schienale.
Andrea dovette impiegarci qualche secondo per capire a quale momento si stesse riferendo Vittoria e la recensione che le aveva lasciato Maeries le si stampigliò nella mente.
«Bingo!» la indicò Vittoria, schioccando la lingua sul palato.
«Smettila» iniziò a sentirti a disagio «Non te l’hanno insegnato che la curiosità uccide il gatto?».
«E la noia tutto il resto».
«Non hai proprio nessun altro da disturbare? Un amico, un fidanzato, che so io».
Increspò appena le labbra. «Sentirò il mio ragazzo più tardi. Non è altrettanto facile prenderlo in giro, il tuo gesticolare mi dà più soddisfazione».
«Io non gesticolo…» borbottò tra sé, ponendo fine alla conversazione e tornando a scrivere.
 
Nei cinque minuti di silenzio che seguirono, Vittoria non le staccò gli occhi di dosso nemmeno per un istante. In fondo era vero, un po’ si divertiva a mettere in imbarazzo le persone, e con quella piccoletta era tutto molto più semplice. La trovava tenera, in fondo. Forse per la sua età, o per il ciglio che assumeva quando arrossiva e faceva di tutto per sembrare una roccia; un po’ per la sua lingua tagliente che, però, non riusciva a scalfirla minimamente. Ma era simpatico che qualcuno ci provasse ancora, dopo tutto quel tempo. Praticamente, un gattino che si credeva di essere un leone solo perché nessuno l’aveva mai messo davanti ad uno specchio.
Tirò un sospiro. O forse era perché si sentiva un po’ in colpa? Si ricordava di quando aveva trovato Matteo, insieme a Manuel, Giulia e Giacomo, farle tana nel bagno delle ragazze. Lo zaino era stato rovesciato, tutti i fogli, il portapenne e i quaderni erano stati buttati nei lavandini sotto l’acqua corrente. Nessun appunto sarebbe stato più leggibile e Andrea sembrava fosse dispiaciuta soprattutto per quello.
Vittoria si era divertita, almeno all’inizio. Non ci aveva trovato nulla di male, ma sembrava essere l’unica ad aver fatto proprio il motto «Il gioco è bello quando dura poco». O, almeno, il gioco è bello fino a quando qualcuno non si fa male. Quella ragazzina non aveva versato nemmeno una lacrima quando Giacomo l’aveva strattonata per i capelli. Sembrava tutto tranne che intenzionata a farsi vedere debole, ma gli occhi erano rossi e lucidi e stava scoppiando. Aveva incrociato lo sguardo di Vittoria solo per una frazione di secondo e la più grande si era stupita di tutto quel rancore.
«Matteo, adesso basta» gli aveva detto Vittoria «Giacomo, lasciala stare».
«Ma ho appena iniziato».
«No, hai già finito. Forza, torniamo in classe. Se Provero ci becca siamo fottuti».
Ora che la osservava riusciva a rivedere quella ragazzina, ma meno acerba e più distaccata. Andrea si era spostata di una sedia, evidentemente per mettere maggior distanza tra sé stessa e lei, ma Vittoria non se l’era presa. La fissava con il chiaro intento di metterla a disagio, perché sapeva che Andrea si sentiva osservata e la controllava di tanto in tanto da sotto le ciglia, facendo finta di girarsi per sistemarsi i capelli o la maglia. Era decisamente troppo ingenua e Vittoria decisamente troppo sfacciata.
«Che cosa stai scrivendo?» le domandò, poggiando il mento sulle mani unite, piegando la testa e sorridendole.
Sembrò prenderla in contropiede, perché Andrea si affrettò a dire «Nulla!», come se volesse tenere nascosto uno dei più grandi segreti dell’umanità.
«Non mi pare nulla» la punzecchiò.
«Ti pare male».
«Difficile, raramente mi sbaglio. E tu sei un libro aperto».
«E tu hai delle manie di grandezza».
«È vero, sono cresciuta a pane e obiettivi».
«Sono quasi commossa».
«Fa’ un po’ vedere» le disse, poggiando i palmi contro il tavolo e sporgendosi, allungando il collo per sbirciare qualche riga.
«No!» coprì subito la pagina Andrea e quando la vide alzarsi dalla sedia per venirle vicina sbiancò.
«Coraggio ragazzina, non mordo mica».
L’altra era chiaramente agitata. «Non mi interessa» decretò rapida, chiudendo il suo blocco, ma prima che potesse riporlo al sicuro nella sua tracolla Vittoria glielo sfilò dalle dita.
«Ridammelo!» le urlò all’istante, alzando un braccio per riprenderselo, ma la bionda lo teneva a debita distanza.
«Vediamo un po’…» iniziò a dire, aprendo una pagina a caso e indietreggiando per non farsi raggiungere da Andrea.
«Smettila subito!» le saltò addosso, senza riuscire ad afferrarla.
«Che cosa c’è scritto qua?».
«Sono cose personali!».
«Addirittura personali? Allora devo leggerle per forza» scherzò, ma se si fosse curata dell’espressione atterrita di Andrea le avrebbe restituito il quaderno all’istante.
«Smettila Vittoria, smettila!» saltò per strapparle le pagine dalle mani, la bionda continuava a ridere e a scansarsi.
«Mhmhm…» controllò una riga a caso «”Lei la prese e la sbattè al muro”. Ah, iniziamo proprio così? Alla faccia del medias res».
«Falla finita! Subito!» le urlò ancora Andrea, le mani che iniziavano a fremere, gli occhi che le pungevano.
«”E le disse tutto quello che si era tenuta dentro fino a quel momento, tutto ciò che non era riuscita a spiegarle prima e per la prima volta si sentì leggera, perché…”».
«Cazzo, smettila! Vittoria non sono affari tuoi!». Non voleva che una completa estranea leggesse delle cose così intime, c’era troppo di lei dentro quelle parole.
«”Per la prima volta si sentì leggera, perché finalmente Sasha poteva…poteva…”» un impercettibile spezzato nella voce, una sicurezza che veniva meno, le labbra che si chiudevano sui denti, fino a farle perdere del tutto il sorriso «”…poteva vedere quello che Noemi provava per lei”». Deglutí a fatica. «No, aspetta un momento, non può essere, io…» non fece in tempo a finire la frase.
Andrea approfittò della sua distrazione per sottrarle il quaderno dalle mani, stringendoselo al petto per impedirle di portarglielo via di nuovo. Tremava dalla rabbia, dall’indignazione, o forse era solo imbarazzo.
«Sono cose mie!» fremette, la bocca corrucciata che presagiva il pianto «Non dovevi permetterti di fare una cosa simile, non dovevi!».
Vittoria boccheggiò. «Ma io la conosco questa storia» riuscì solo a dire, perché tutto in quel momento sembrava confuso. Poteva davvero essere che…?
«Mi fai schifo!» sbraitò Andrea, affrettandosi a chiudere la tracolla, ficcando a forza il taccuino dentro il primo scomparto «Sei un essere spregevole! Non erano affari tuoi!».
«…Cecille?» la chiamò in un sussurro. No, impossibile, quante possibilità potevano esserci di…?
Andrea si arrestò, la mano ferma a mezz’aria, il corpo piegato sullo zaino. Percepì il cuore mancare un battito e il freddo stringerle le viscere. Solo una lacrima di vergogna lasciò le sue ciglia, finendo sulle lenti degli occhiali.
«Ragazzina?» la chiamò ancora Vittoria, rigida nella voce e nei movimenti, ma ora quella parola aveva assunto un tono diverso, un colore tutto suo, ben definito, un’identità che solo loro due potevano riconoscere. Ad Andrea si ghiacciò il sangue mentre l’immagine del profilo di Maeries prendeva forma nella sua memoria. «Non ci posso credere, tu sei davvero…» continuò la bionda.
«Fai silenzio!» la interruppe con un bisbigliò e la sua espressione era così pesante che Vittoria ammutolì. «Smettila di chiamarmi in questo modo» ripetè ancora una volta, l’ultima volta.
Si mise la tracolla in spalla e si diresse a grandi falcate verso l’uscita.
Vittoria la afferrò per una spalla. «Aspetta, io…».
«No!» la fermò Andrea, schiaffeggiandole la mano «Ti odio!».
La bionda vide il suo sguardo, lo stesso che aveva riconosciuto in quel bagno due anni prima, e non trovò il coraggio di trattenerla.
Andrea si catapultò fuori dalla porta, scontrandosi contro il gruppetto di ragazzi che in quel momento stava entrando. Pestò piedi, diede spintoni.
«Hey, ma guarda dove vai!» le urlò qualcuno.
«Che cogliona!» disse un altro.
Lei corse per il corridoio, quasi caracollando giù dalle scale. Aveva bisogno di allontanarsi da quel posto.
Vittoria la seguì con lo sguardo fino a quando Matteo non le si parò davanti.
«Oh, Vicky!» la prese in giro il suo migliore amico «Non ti posso lasciare un attimo da sola che già mi fai piangere le scolarette?».
«Stai zitto Teo!».
   
 
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