Che cosa ricordi?
Niente.
Che cosa
ricordi?
Tutto.
Come ti chiami?
Non lo so.
Come ti
chiami?
Maximilian.
Come si chiama lui?
Non lo
so.
Come si chiama lui?
William.
L'unica cosa di cui ero assolutamente certo era l'assurdità della
nostra condizione. Ciò che ci accadeva non era -non poteva essere-
umano. William sedeva accanto a me, immobile, gli occhi fissi di fronte a sé,
come sempre. Perso.
«A che cosa pensi?» gli domandai per rompere il silenzio
che si era creato nella stanza.
«Non lo ricordo. Chi sei?» replicò lui con la
sua voce tranquilla e pacata.
Non gli risposi nemmeno. Era inutile, e lo
sapevo benissimo. Avrebbe dimenticato di avermi posto quella domanda entro pochi
istanti.
E io, in compenso, l'avrei ricordata per sempre. Avrei visto me
stesso nei miei ricordi, avrei potuto osservare la mia espressione dal punto di
vista di William e avrei atteso per qualche secondo una risposta che non sarebbe
mai arrivata.
William e io eravamo sempre stati insieme. E, da sempre, ero io
quello che ricordava. Memorizzavo ciò che avevo visto e ciò che aveva visto lui,
le mie emozioni e le sue. William, d'altro canto, non aveva memoria. Il suo
nome, la sua età, il luogo in cui era nato... per lui tutto questo non era mai
esistito.
William non ricordava nulla. E io, in compenso, ricordavo
troppo.
Mi massaggiai lentamente le tempie. Ci avevano fatto centinaia di
domande, tentando di capire qualcosa di più sulla nostra peculiarità.
Speravo davvero che trovassero un modo per farlo smettere. Il mal di testa
diventava ogni giorno più intenso, insopportabile.
Tornai a osservare
William. Viveva in uno stato di totale incoscienza, e non avrei saputo spiegare
come avesse fatto a raggiungere i vent'anni d'età.
Il medico ci si avvicinò
nuovamente. Ci osservò a lungo da dietro gli occhiali, confuso, in evidente
difficoltà. Doveva essere frustrante, per lui, trovarsi di fronte a una
situazione che fino ad allora aveva sempre creduto impossibile.
«Maximilian?»
mi chiamò. «Pensi che te la sentiresti di venire di nuovo con me? Ti faremo solo
qualche domanda.»
Annuii stancamente. Qualche domanda, ancora. Quanto
intendevano andare avanti? Non avevano ancora capito che non avrebbero mai
scoperto a che cosa era dovuta la nostra anormalità? Non sapevano accettare
l'idea che non sarebbero riusciti a guarirci?
Mi fece accomodare nella stessa
stanza chiara in cui avevo sostenuto il primo test. All'interno vi erano altri
tre uomini che bisbigliavano tra loro. Appena mi voltai a guardarli
tacquero.
«Maximilian, vorremmo che tu ti sforzassi di scindere, diciamo, i
tuoi pensieri da quelli di William. Vorremmo che tu cercassi capire se c'è
qualcosa che uno dei due ha visto e l'altro no.»
Sospirai e provai a
concentrarmi. Non ero mai riuscito a capire quali, dei pensieri più remoti,
appartenessero a me e quali a William. Erano un tutt'uno, così come lo eravamo
io e lui.
Chiusi gli occhi.
La prima immagine che mi tornò agli occhi fu
quella di un bambino di circa quattro anni. Lo riconobbi all'istante. Era
William. Se ne stava seduto al centro di una stanza con le pareti colorate a
fissare il soffitto. Accanto a lui sedeva una giovane donna che gli carezzava i
capelli, mormorandogli qualcosa. Mi sforzai per cogliere le parole che gli
rivolgeva, ma fu inutile. Rovistai ancora tra i ricordi, cercando di ritrovare
il volto di quella donna, o un qualche appiglio che mi potesse suggerire chi
fosse. Forse nostra madre?
Scossi la testa. Non poteva esserlo: nostra madre
era morta da pochissimo in un incidente d'auto. La donna del ricordo non aveva
niente in comune con lei.
«Cosa ti viene in mente?» domandò il medico mentre
mi ostinavo a tenere gli occhi chiusi.
«Non lo so.» replicai.
Riuscii a
recuperare immagini subito successive a quella che avevo appena visto; frammenti
di vita che non mi appartenevano.
Di nuovo William, seduto nella stessa
stanza colorata. La donna era con lui. Sembrava una scena normale, eppure
sentivo che c'era qualcosa di strano.
E poi realizzai.
William,
in quel ricordo, parlava. Stava discutendo con la donna, annuiva, ogni tanto
rideva. Com'era possibile? Lui non era in grado di sostenere una conversazione:
non ricordava le domande abbastanza a lungo da riuscire a rispondere.
«William ricordava.» mormorai spalancando gli occhi. I quattro uomini si
fissarono, perplessi, poi uno di loro mi invitò a proseguire con un cenno del
capo.
«Io ricordo... - bé, in verità è un suo ricordo – d'averlo visto
parlare. Non era così una volta.»
«Sicuro che quello fosse William? Che non
fossi tu?»
Non risposi. Una fitta lancinante alla testa mi costrinse al
silenzio. Mi portai le mani alle tempie e posai la fronte sul tavolo freddo,
sperando di trovare sollievo. Sentivo nelle narici odore di fumo e di carne
bruciata, la sensazione di soffocare, gli occhi che pizzicavano. Vedevo le
fiamme che si alzavano davanti a me, nella stanza colorata. Non era più
William, ero io. Io ero nella stanza colorata, io ero lì
proprio in quel momento, con la testa che mi scoppiava, i dottori che mi
parlavano... Sentivo il calore intenso del fuoco, la pelle bruciava, tutto,
accanto a me, veniva distrutto dalle fiamme.
E poi, lentamente, l'odore
svanì, seguito da tutto il resto. Le immagini delle fiamme mi balenarono ancora
per qualche istante dietro alle palpebre chiuse, poi sparirono, lasciandomi con
una sensazione di vuoto all'altezza dello stomaco.
«Cosa ti succede,
Maximilian?» il dottore era accanto a me, preoccupato.
«Non ne ho idea.»
ruggii, alzandomi di scatto dalla sedia. «Siete voi quelli che devono
scoprirlo.»
In realtà, avevo un debole sentore di ciò che mi stava accadendo.
I lancinanti mal di testa erano iniziati da pochi mesi, a distanza sempre più
ravvicinata, impedendomi di continuare a vivere come prima. Avevo dovuto
lasciare la scuola, il lavoro, avevo preso con me William e lo avevo trascinato
in questa clinica in cui, mi avevano assicurato, sarebbero stati in grado di
aiutarmi. Durante quel periodo avevo capito che ogni fitta riportava a galla un
ricordo lontano, qualcosa che fino a quel momento non ero riuscito a rammentare.
Fino a quel momento, nessuno degli eventi che mi erano tornati alla memoria mi
riguardava.
Vedevo William, sempre, in continuazione, in luoghi diversi, con
persone diverse.
Nella maggior parte era piccolo, non dimostrava più di
sette, forse otto anni. Un bimbo tutto ossa con enormi occhi scuri, vivace,
intelligente. Che cosa era cambiato da allora? E soprattutto, che ne
era stato dei miei ricordi? Di me, di quello che ero stato nei miei
primi otto anni di vita, che cosa era rimasto? E la risposta era lì, evidente e
dolorosa.
Nulla.
Era come se io non fossi mai esistito. Mi sforzai,
cercando di eliminare dalla mia mente tutto ciò che riguardava William. Non ci
riuscii. Fui in grado, in qualche modo, di risalire al mio primo ricordo. Era
William. La prima cosa che ero in grado di ricordare era mio fratello, il suo
sguardo vuoto, lo stesso che gli avevo visto negli occhi negli ultimi tredici
anni.
«Il padre era uno scienziato.» stava dicendo uno dei medici ai
colleghi. «Prima di morire ha lasciato degli scritti in cui ammetteva di aver
praticato degli esperimenti sui due gemelli e sulla madre. Questa assurdità
potrebbe essere una conseguenza.»
«Che cosa avrebbe mai potuto fare per dare
vita a un caso simile?» borbottò di rimando un altro, scettico. Con gli occhi
serrati, confuso dal dolore, annuii distrattamente. Aveva ragione lui,
naturalmente, come poteva esistere qualcuno – o qualcosa – in grado di
modificare a tal modo la memoria?
Mi persi il resto dei commenti. Avevo
trovato il modo di separare i miei ricordi da quelli di William. Concentrandomi,
accantonai tutto quello che, lo sapevo, non era prodotto dalla mia mente. Quello
che mi arrivava da lui, quello che mi confondeva e mi distruggeva la testa. Era
tanto, troppo. Erano pensieri complicati, ragionamenti complessi di cui mi ero
sempre attribuito la paternità ma che, mi resi conto, non erano miei. William,
pur non ricordando nulla, era più intelligente di me. Lo era sempre stato.
«Voglio andarmene da qui.» mugugnai tornando a fissare i medici. «Ho
sonno.»
Uno di loro, che sembrava il più giovane, annuì. Mi accompagnò fuori
dalla porta e poi lungo scale e corridoi che non ricordavo d'aver visto quando,
tre giorni prima, ero arrivato alla clinica. Mi condusse in una stanza piccola e
calda, coi muri colorati di un brillante giallo intenso.
William era già lì.
Nello stesso istante in cui misi piede dentro alla stanza la mia mente fu
invasa dai ricordi di William. L'avevano interrogato, di nuovo. Gli avevano
mostrato delle foto, dei volti che non riconoscevo ma che, incredibilmente,
avevano risvegliato qualcosa dentro di lui.
Mi voltai a osservarlo, e lo
sguardo che mi rivolse non era quello che ero abituato a vedergli sul volto. Era
consapevole. Mi fissava come se sapesse davvero cosa aveva davanti,
come se mi avesse riconosciuto... E ciò non era possibile. Eppure, c'erano stati
altri cambiamenti che io non ero riuscito a notare, e uno di questi era stato
evidente, solo pochi istanti prima...
Generalmente, i ricordi di William mi
arrivavano nell'istante esatto in cui lui viveva quelle esperienze. Avevo potuto
osservare, il giorno prima, il suo secondo interrogatorio proprio nel momento in
cui si svolgeva, avevo sentito le domande nel momento in cui gliele avevano
rivolte.
E ora, invece, avevo dovuto trovarmi accanto a lui per vedere ciò
che aveva fatto mentre non c'ero. E, mi resi conto con orrore, non era tutto.
Era come un film a cui erano stati tagliati dei pezzi. Le domande, gli sguardi,
i mormorii dei medici mi arrivavano a tratti, come se qualcosa li bloccasse,
come se ci fosse una barriera invisibile, una rete fitta attraverso cui solo i
ricordi più piccoli riuscivano a passare.
Erano state le foto.
Le foto che
gli avevano mostrato avevano dato vita a qualcosa che lo stava cambiando,
qualcosa che avrebbe potuto aiutarlo a ricordare.
Istintivamente, senza un
motivo apparente, mi sentii in pericolo, mentre la mia mente elaborava, contro
la mia volontà, ipotesi che mi erano state suggerite proprio dai medici,
pochissimo tempo prima.
Forse i miei primi ricordi, quelli che coprivano i
miei primi otto anni di vita, non c'erano perché non li avevo mai avuti. Perché
non c'era nessun luogo, nella mia testa, in cui avrei potuto andarli a cercare.
Era come se non avessi vissuto, come se qualcun altro lo avesse fatto al posto
mio.
Come se qualcun altro avesse ricordato al posto mio.
Forse,
all'inizio, non ero stato io a ricordare. William era intelligente, parlava,
rideva. William, allora, ricordava, e le tracce della sua vita passata
continuavano a esistere nella mia memoria. Di me, invece, non era rimasto nulla.
I ruoli, per qualche strana, inspiegabile ragione, si erano invertiti.
Tredici anni prima era successo qualcosa che aveva sconvolto il nostro
equilibrio, che l'aveva ribaltato.
E ora, quei mal di testa, quel prevalere
di William su di me, quella sua nuova consapevolezza nei suoi occhi... La sua
strana amnesia stava passando. E se lui avesse iniziato a ricordare, io avrei
iniziato a dimenticare.
Dovevo sapere, dovevo capire, verificare se quello
che avevo solo intuito fosse la verità...
«William?» lo chiamai titubante,
sperando che, come sempre, non rispondesse. Che non riuscisse a collegare se
stesso a quel nome.
Ma lui, lentamente, - troppo lentamente – si voltò a
guardarmi.
Mi sentii morire il fiato in gola.
Senza attendere un solo
istante lo afferrai per un braccio, lo costrinsi ad avvicinarsi a me.
«Vestiti, William, mettiti le scarpe.» gli gettai addosso gli abiti perché
capisse, gli infilai la maglia con rabbia e lo guardai mentre si affrettava a
indossare i pantaloni. Non lo lasciai nemmeno allacciare le scarpe e lo
trascinai fuori dalla stanza, e poi lungo il corridoio, senza far caso a
infermieri e inservienti che ci fissavano senza capire.
Uno dei medici mi
vide, mi corse incontro.
«Dove state andando?» volle sapere.
«Ce ne
andiamo.» replicai senza smettere di camminare. William mi trottava dietro
mentre io lo tiravo per la felpa. «Devo fare delle commissioni, è urgente.
Torneremo quando avrò finito.»
«Ma...»
«Non potete trattenerci.» tagliai
corto mentre raggiungevo l'ingresso principale.
Mi guardai intorno solo per
pochi istanti, cercando di ricordare quale fosse la strada giusta. Scavai tra i
ricordi di entrambi finché non trovai il nome della via che stavo cercando.
Domandai ai passanti come arrivarci, mentre William, accanto a me, si
guardava intorno stranito.
«Corri.» gli intimai quando finalmente capii che
percorso dovessimo seguire.
Giungemmo davanti alla nostra vecchia casa nel giro di pochi
minuti.
La osservai a lungo. Il primo ricordo che avevo di quel luogo
risaliva a pochi anni prima, quando mia madre me la mostrò la prima volta. Era
stata devastata dalle fiamme, così mi aveva detto. Nell'incendio aveva perso la
vita la nostra baby-sitter, e nessuno aveva più trovato il coraggio di tornarci
a vivere. Quando ci passo davanti, mi sembra ancora di sentirla
gridare. Così aveva detto.
Mi sforzai di fare i calcoli, mentre mille
altre idee mi affollavano la mente. Se non sbagliavo, l'incendio era scoppiato
quando io e William avevamo otto anni. Esattamente nello stesso periodo in cui i
miei ricordi iniziavano ad apparire.
«Entriamo.» borbottai a mio fratello
mentre mi accingevo a scavalcare il cancello. Lui mi imitò solo pochi secondi
dopo. Evitai di notare che, normalmente, non sarebbe stato in grado di farlo. Il
suo comportamento stava confermando le mie supposizioni, e preferii non
pensarci.
La porta era aperta. William si era fatto più attento, e si
guardava intorno come se quel luogo gli fosse familiare. Per me, invece, tutto
era nuovo.
Cercai tra i ricordi di William qualcosa che potesse aiutarmi a
orientarmi e a trovare la stanza che stavo cercando, ma non c'era nulla che
potesse aiutarmi. Provai a frugare tra i miei. Ma non avevo mai visto prima
quella casa, ed era inutile anche solo tentare.
Alla mia destra si trovavano
due porte di legno bianco che, a quanto pareva, non erano state toccate dalle
fiamme. Mi diressi verso quella più vicina. Portava alla cucina.
Senza
nemmeno darmi la pena di richiuderla aprii l'altra, ma mi ritrovai in un bagno
con il pavimento a mosaico.
Sospirai, osservando con apprensione le scale
nere di carbone che si aprivano davanti a me. William, immobile nell'ingresso,
mi fissava con sguardo interrogativo.
Quando iniziai a salire i primi
scalini mi seguì. Il piano superiore era buio, e l'odore del fumo era ancora
forte. Aveva impregnato i muri, la moquette, le tende che ora ricadevano a
brandelli bruciacchiati sulle finestre impolverate.
Ispezionai ogni stanza,
fino a che non trovai quella che stavo cercando.
Aveva l'aspetto di un
laboratorio, e seppi che lì, probabilmente, avrei trovato risposta alle mie
domande.
«Dammi una mano a cercare.» ordinai a William, avvicinandomi alla
scrivania.
«Cosa cerchiamo?» replicò lui, e io mi bloccai.
Non l'avevo mai
sentito fare una domanda. La sua mente non ricordava abbastanza a lungo. Che
cosa stava succedendo?
«Un diario, qualche annotazione, qualcosa che possa
aiutarmi a capire perché siamo così.» la voce mi tremava. Mentre aprivo uno dei
cassetti mi accorsi che anche le mani avevano preso a tremarmi in modo
incontrollabile.
Avevo paura. Avevo paura che William riacquistasse il suo
ruolo, che i miei ricordi mi abbandonassero per sempre. Non volevo perdere la
mia vita a causa di un esperimento, non potevo sopportare l'idea che nel giro di
poche ore avrei potuto dimenticare la mia famiglia, i miei amici, la mia
fidanzata, persino il mio nome e la mia età.
Fu lui a trovarlo. Si voltò a
fissarmi con un diario di cuoio nero tra le mani. I bordi erano stati bruciati
dalle fiamme, ma sembrava integro. Mi sporsi verso di lui perché me lo
porgesse.
Non appena me lo cedette mi sentii mancare. La risposta a tutte le
domande che mi ero posto negli ultimi tredici anni era lì, e io non ero pronto.
Ma non avevo tempo. Ogni istante che passavo in quella casa sentivo che i
miei ricordi sbiadivano, che quelli di William si facevano più insistenti, più
nitidi.
Aprii con foga la prima pagina e iniziai a leggere
silenziosamente.
«Ad alta voce.» ordinò William osservandomi. «Voglio sentire
anch'io.»
Si sedette a terra a gambe incrociate e rimase fermo a fissarmi in
attesa, mentre cercavo di recuperare la voce.
«14 ottobre 1988.»
esattamente cinque mesi prima della nostra nascita. Proseguii. «Sono
riuscito a estrarre un filamento di DNA da entrambi i gemelli e a re-impiantarlo
invertendone i proprietari, cosicché ognuno avrà un filamento di DNA
appartenente al fratello. Dopo l'operazione, la gravidanza sembra procedere
normalmente.»
Saltai diverse pagine di annotazioni in cui veniva
documentato il protrarsi della gravidanza. Sentii il bisogno di tornare
indietro. Cosa stavo leggendo, pochi secondi fa? Non appena feci per voltare le
pagine, William mi fermò.
«Vai avanti.»
La sua voce era tanto decisa che
non riuscii a ribellarmi.
Giunsi alla data della nostra nascita e ripresi a
leggere.
«14 marzo 1989. Sono nati oggi, alle 11:33 della mattina,
William e Maximilian. I primi esami condotti non mettono in evidenza problemi di
nessun tipo.»
Seguiva una dettagliata descrizione delle visite a cui
eravamo stati sottoposti, ma quando arrivai a metà della pagina lasciai cadere
il diario. Riuscivo a capire anche da solo che cosa era accaduto dopo. Tutto si
era chiarito, nella mia mente.
William aveva ricordato tutto fino
all'incendio. Avevo sentito dire che lo shock poteva provocare perdita della
memoria, ma nel suo caso non era successo. La sua mente aveva reagito per
proteggersi, com'era naturale, e l'aveva fatto usando il mio DNA come tramite.
Il mio DNA, che mio padre aveva impiantato dentro di lui.
In tutti quegli
anni io non ero stato che un mezzo, il frutto di un'abile strategia messa in
atto dal cervello di William.
Era sempre stato più intelligente di me perché
la mia mente era un prodotto della sua. La mia vita, i miei ricordi... Tutto era
dovuto a un suo tentativo di non perdere se stesso. E c'era riuscito.
E ora,
ora che l'avevano aiutato a ricordare, stava per distruggere tutto. Avrei perso
tutto. Non poteva accadere, non potevo permetterlo.
Dovevo impedire che mi
strappasse anche gli ultimi ricordi che mi erano rimasti... Il volto della mia
fidanzata mi aleggiava nella mente, ma sapevo che sarebbe stata questione di
poco tempo, anzi, pochissimo, se William fosse riuscito a recuperare la memoria.
Dovevo fare qualcosa.
Lui sembrò intuire quale fosse il mio intento. Si alzò
di scatto, portando le mani davanti a sé come una protezione.
«Non dipende da
me, Maximilian.» esclamò. Non persi nemmeno tempo a stupirmi. Afferrai il
pesante fermacarte sulla scrivania e mi avvicinai a mio fratello, folle di
terrore.
«Non posso permetterti di cancellare la mia vita!» urlai. Sentii le
lacrime che mi bagnavano il volto, le ignorai. «Mi sono preso cura di te per
tredici anni. Ho ricordato anche per te per tredici anni!»
William
boccheggiò, incapace di parlare. L'avevo messo con le spalle al muro, e ora a
separarci c'era solo l'affetto che provavo per lui. Ma non era abbastanza: non
lo amavo abbastanza da poter accettare di annullarmi per lui.
Cercò di
allontanarmi, ma non ci riuscì.
Mi scagliai su di lui. Chiuse gli occhi, e
io lo colpii.
§§§
Gli uomini vestiti di bianco e blu mi fissano. Sono vestiti tutti allo stesso
modo, perché? Uno di loro guarda qualcosa a terra. E' un ragazzo. Dalla sua
testa si allarga una macchia di sangue scuro. Che cosa gli è successo? Chi è?
Uno degli uomini mi viene vicino, mi fissa, dice qualcosa. Faccio per
rispondere, ma subito chiudo la bocca.
Che cosa è successo? Dove sono? Chi
sono gli uomini vestiti di bianco e blu?
Uno di loro mi rivolge la
parola.
«Come ti chiami?»
«Non lo so.»
Un delirio, assolutamente. Non saprei come altro descrivere questa
storia.
Devo dire che sono rimasta davvero scioccata dal risultato che ha
ottenuto al contest, non me l'aspettavo e ne sono felicissima, perciò ringrazio
immensamente i giudici, Crystalemi e CryForTheMoon. Faccio inoltre i complimenti
a tutti gli altri partecipanti: prometto che leggerò tutte le vostre
storie!
Detto questo, vi saluto.
rolly too.