Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    09/06/2017    2 recensioni
Sono tante le cose che si fanno per amore.
E Mycroft Holmes lo sa bene, anche se non riesce a comprendere cosa spinga le persone a gesti tanto estremi.
Ha visto suo fratello gettarsi da un tetto per proteggere i suoi amici da James Moriarty, rinunciare alla sua vita per due anni per proteggere John Watson, prendersi un proiettile per il suo migliore amico, morendo per mano di sua moglie, soltanto per saperlo al sicuro.
E tutto solo per amore. Quel sentimento che per Mycroft sembra così complicato da comprendere.
Tuttavia, quando Magnussen arriverà a minacciare Sherlock, sarà proprio l’amore a spingere Mycroft a offrirsi al suo posto, mettendo a rischio la propria vita e la propria libertà, per preservare quelle del suo fratellino. La persona che Mycroft Holmes ama più della sua stessa vita.
Perché l'amore ci spinge dove non ci saremo mai aspettati di poter arrivare.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti ;) Come state?
Eccomi qui con il quarto capitolo e questa volta, come potete vedere, le note sono all’inizio.
Questo perché in questo capitolo troverete descrizioni e scene più crude rispetto ai capitoli precedenti. Non saranno esplicite ma potrebbero comunque turbarvi, perciò ho pensato di avvertirvi prima che leggiate, in modo che siate preparati. :)
Ne approfitto anche per ringraziare tutti coloro che hanno inserito la storia fra le preferite/ricordate/seguite e soprattutto coloro che hanno speso un momento del loro tempo per recensirla: Creepydoll e MartixHedgehog.
Grazie di cuore a tutti!♥
A lunedì con il prossimo capitolo ;)
Un bacione, Eli♥
 
 
 
Amore

 
Capitolo IV
Punto di rottura


 
 
 La sera seguente, Mycroft si presentò ad Appledore, proprio come Magnussen aveva chiesto. Come sempre, la porta era aperta, perciò il politico varcò la soglia e si diresse verso il salotto, dove sapeva che Magnussen lo stava aspettando.
 Non appena entrò, capì che qualcosa non andava.               
 Magnussen era seduto sul divano, in attesa, lo sguardo perso nel vuoto.
 Mycroft si bloccò.
 «La credevo più intelligente, signor Holmes.» sbottò Magnussen, dopo qualche secondo di completo silenzio, volgendosi verso Holmes e incontrando il suo sguardo.
 Mycroft aggrottò le sopracciglia.
 «Non la credevo così stupido da recarsi a Baker Street per parlare con suo fratello.» spiegò l’altro, mettendosi in piedi e abbottonandosi la giacca. «Non con segni così evidenti dopo la nostra notte insieme.»
 Il maggiore degli Holmes si schiarì la voce. «Volevo convincerlo a desistere dal continuare ad indagare su di lei.» spiegò. «Non ho-»
 «Non ha detto nulla.» concluse per lui, avvicinandosi. «Ma non ce n’è stato bisogno. Perché Sherlock ha capito, dato che, ovviamente, non ha dovuto fare altro che osservare.» sospirò. «Le avevo esplicitamente detto che nessuno avrebbe dovuto sapere nulla. E lei ha deliberatamente ignorato il mio avvertimento. Perciò mi vedo costretto a prendere dei provvedimenti.» si fermò accanto a lui e puntò gli occhi nei suoi. «Mi segua.» concluse freddamente.
 E insieme si avviarono verso il piano superiore, verso la camera da letto.
 
 Mycroft lasciò Appledore qualche ora più tardi.
 Uscì dalla stanza da letto di Magnussen – senza nemmeno premurarsi di prendere la giacca – e percorse velocemente il corridoio, tentando di ignorare il dolore alle gambe e alle braccia, il sangue che scorreva sulla sua pelle, i lividi che dolevano e gli abiti che sfregavano sulle ferite ancora aperte, aumentando la sensazione di dolore.
 Le lacrime gli rigarono le guance e, prima che potesse rendersene conto, i singhiozzi presero a scuoterlo violentemente, togliendogli il fiato.
 Attraversò il vialetto di corsa, in preda al dolore e alle lacrime, non volendo altro che lasciarsi quella casa alle spalle. Spalancò il cancello e si bloccò sul marciapiede, realizzando soltanto in quel momento di non aver nemmeno chiamato l’autista.
 Portò le mani alle tasche e tremando, tentò di estrarre il cellulare, ma un rumore alla sua destra catturò la sua attenzione.
 Mycroft si voltò di scatto e solo in quel momento si accorse che accanto al marciapiede era ferma un’automobile nera. E da quell’auto era appena scesa una persona, che adesso stava camminando verso di lui con passo spedito.
 Il politico indietreggiò, pronto a rientrare all’interno del cortile della villa per non essere visto, ma quando la figura entrò sotto il fascio di luce del lampione, si bloccò.
 «Sherlock» gemette.
 Suo fratello era in piedi di fronte a lui, immobile, gli occhi spalancati, il volto pallido e tirato. La compostezza che di solito lo contraddistingueva sembrava essere un lontano ricordo: ogni cosa in lui lasciava trasparire quanto fosse preoccupato e sconvolto nel vederlo così.
 Il politico non sapeva perché suo fratello si trovasse lì – probabilmente l’aveva seguito per assicurarsi che stesse bene, considerato che il giorno precedente non aveva voluto dargli spiegazioni riguardo la sua condizione – ma in quel momento poco importava.
 Mycroft avanzò zoppicando.
 Il consulente investigativo allargò le braccia e accolse il fratello nella sua stretta, stringendolo forte a sé.
 Quando i loro corpi si scontrarono, Mycroft riprese a singhiozzare convulsamente, aggrappandosi alle spalle di Sherlock e tremando contro di lui.
 «Va tutto bene.» sussurrò Sherlock, accarezzandogli i capelli e la schiena. «Sono qui. È finita.» lo cullò fra le braccia. «Va tutto bene. Non ti toccherà più, te lo prometto.»
 Mycroft affondò il viso nella sua spalla, gemendo. «Mi dispiace…» singhiozzò. «Mi dispiace tanto…»
 «Non devi scusarti. Non è colpa tua, Myc.» affermò Sherlock. Poi sospirò e lo allontanò da sé. Si tolse il cappotto e lo adagiò sulle sue spalle. «Vieni. Hai bisogno di un medico.»
 Mycroft sentì una stretta al cuore. «No…» ansimò, indietreggiando. «Niente ospedali. Non voglio… non voglio che mi tocchino…»
 «D’accordo.» disse il minore, sollevando le mani di fronte a sé. «Se preferisci può pensarci John. Ci sta aspettando in macchina.»
 Mycroft esitò. Non poteva ignorare che quella notte Magnussen si fosse spinto così oltre da procurargli ferite più gravi del solito, perciò avrebbe avuto bisogno di aiuto. E sarebbe stato meglio avere quello di John, piuttosto che quello di un’equipe di medici che non avrebbero fatto altro che fare domande.
 Annuì.
 «Ok.» affermò Sherlock, poi gli poggiò delicatamente una mano sulla schiena e indicò l’auto. «Andiamo.» concluse, aiutandolo a raggiungere l’automobile.
 Mycroft si strinse nelle spalle e tirò i lembi della giacca per ripararsi dal freddo che gli stava attraversando le ossa e il corpo, e seguì suo fratello.
 
 Sherlock aprì la portiera dell’auto e aiutò suo fratello a salire sui sedili posteriori, poi prese posto accanto a lui, richiudendola.
 Non appena si furono seduti, John – seduto al posto di guida – si voltò verso di loro. Quando i suoi occhi si posarono sul volto di Mycroft si spalancarono. Impallidì e immediatamente il suo sguardo saettò sul volto di Sherlock.
 Il consulente investigativo gli rivolse uno sguardo eloquente. «Andiamo a casa di Mycroft.» disse.
 John annuì e mise in moto. Poi partì e imboccò la strada principale, diretto verso Londra.
 Sherlock, intanto, con la coda dell’occhio, controllava suo fratello. Non aveva idea da quanto quella storia stesse andando avanti, ma suo fratello era cambiato così tanto da essere diventato quasi irriconoscibile. Era dimagrito di parecchi chili, le guance erano scavate, i polsi sottili e le costole visibili sotto la camicia leggera che indossava, e il leggero strato di barba rossiccia che gli incorniciava il volto contribuiva ad aumentare il pallore del suo volto; i suoi occhi erano colmi di paura e, per la prima volta nella sua vita, di lacrime. Qualcosa che Sherlock non aveva mai visto accadere prima di allora.
 Mycroft si strinse maggiormente nel cappotto, poi si sdraiò sul sedile, poggiando il capo sulle gambe di suo fratello, rannicchiandosi su un fianco. Le lacrime ripresero a rigargli le guance e il suo corpo tremò violentemente, in preda al dolore e alla paura.
 Sherlock si stupì di fronte a quel gesto, ma senza esitazioni, prese ad accarezzare dolcemente il capo di suo fratello, sentendo che aveva ripreso a singhiozzare, mentre con l’altra mano tenne stretta la sua fino a che non furono arrivati a destinazione.
 
 Una volta raggiunta la villa di Mycroft, Sherlock aiutò il fratello a scendere dall’auto e, aiutato da John, lo guidò all’interno della casa. Raggiunsero il salotto e il consulente investigativo fece sedere il fratello sul divano, inginocchiandosi poi di fronte a lui e cercando il suo sguardo.
 «Sicuro di non voler andare in ospedale?» domandò il consulente investigativo.
 Mycroft annuì, stringendosi nuovamente nelle spalle, tenendo lo sguardo basso.
 «Per questo non hai voluto dirmi niente?» chiese ancora, dopo aver rivolto a John uno sguardo fugace. «Perché era Magnussen a farti del male?»
 Le lacrime rigarono le guance del politico.
 E quella, per Sherlock, fu una risposta suggestiva.
 «Da quanto tempo va avanti?»
 «Due mesi.» rispose Mycroft flebilmente.
 Sherlock chiuse gli occhi, inspirando profondamente. «Quanto oltre si è spinto?»
 Il silenzio del politico e le lacrime che gli rigarono le guance furono ancora una volta eloquenti.
 «Ti ha violentato?» domandò a quel punto il minore.
 Mycroft singhiozzò e il suo corpo tremò violentemente. «Non… non ho potuto impedirglielo… io… io non…» si affrettò a dire.
 «Mycroft, non è colpa tua.» intervenne John. «Nulla di ciò che è successo è colpa tua.»
 Il maggiore degli Holmes scosse il capo, singhiozzando.
 Sherlock poggiò una mano sul ginocchio del fratello e cercò il suo sguardo. «Myc» lo chiamò. Poi, vedendo che continuava a tenere lo sguardo basso, poggiò una mano sul suo viso e lo sollevò.
 I loro sguardi si agganciarono.
 Sherlock gli accarezzò la guancia con il pollice. «È tutto finito.» affermò. «Lui non si avvicinerà a te mai più. Non gli permetteremo di farti ancora del male. Ok?»
 Mycroft annuì.
 «Adesso hai bisogno di una visita per capire quali siano i danni.» aggiunse il minore, senza allontanare la mano dal viso del maggiore. «Permetterai a John di visitarti? O preferisci che sia uno dei tuoi medici a farlo?»
 Il politico scosse il capo. «John va bene.» disse in un sussurro.
 «Ok.» dichiarò Sherlock. «Andiamo nella tua stanza, così puoi sdraiarti.» e detto questo lo aiutò a mettersi in piedi e a raggiungere il piano superiore.
 
 La visita durò più di un’ora.
 John controllò il corpo di Mycroft con perizia e professionalità, prestando attenzione a non fargli del male e a non avere con lui un contatto prolungato, considerato ciò che aveva passato.
 Riscontrò svariati traumi dovuti alla violenza sessuale e a quella fisica, che si erano ripetute senza tregua in quelle settimane, lasciando il corpo di Mycroft provato e marchiato, e somministrò immediatamente degli antidolorifici al politico, che li ingerì senza protestare.
 Poi passò alle ferite.
 I polsi erano stati lacerati a causa dell’uso prolungato di manette. Le braccia erano state martoriate con sigarette e coltelli dalla lama seghettata. Il petto era coperto di segni di unghie e denti. E le gambe erano coperte da lividi estesi e abrasioni di ogni genere, alcuni in via di guarigione, altri freschi, probabilmente risalenti ai giorni precedenti.
 John ripulì e disinfettò le ferite, poi cosparse i lividi con una pomata anti-contusioni, sperando di lenire almeno in parte il dolore che avrebbero causato nei giorni a venire.
 Durante il controllo, Mycroft continuò a piangere silenziosamente, ma senza mai emettere un suono a lamentarsi. Di tanto in tanto sobbalzava, spaventato dall’improvviso contatto delle mani di John sul proprio corpo, ma immediatamente veniva rassicurato da Sherlock, che aveva preso posto accanto a lui sul materasso e non aveva mai lasciato la sua mano, accarezzandogli i capelli quando notava che si stava agitando.
 Una volta finito, John chiuse la cassetta del pronto soccorso.
 «Ho finito.» annunciò. «Potrebbero servirti degli antidolorifici per un po’ di tempo, ma tutti i traumi e le ferite guariranno in poco tempo. Basterà pulirle e disinfettarle di tanto in tanto.»
 Mycroft annuì e, aiutato da Sherlock, si mise seduto sul materasso. Non appena lo fece, chiuse gli occhi e si portò una mano alla fronte, respirando affannosamente.
 «Che succede?» chiese Sherlock, accarezzandogli la schiena.
 «Ha la pressione bassa.» rispose per lui il medico. «Da quanto non mangi?» domandò poi, rivolto al maggiore degli Holmes.
 «Un po’.» rispose Mycroft, flebilmente. Riaprì gli occhi, avendo recuperato la lucidità, ed esalò un lungo respiro.
 John annuì. «Allora dovresti mangiare qualcosa.» spiegò. «E magari cercare di dormire, considerato che non lo fai da un po’.»
 Il politico si schiarì la voce. «Vorrei… vorrei fare una doccia, prima.» disse, parlando sommessamente. «Voglio…» indicò il suo corpo, ma non riuscì a concludere la frase, sentendo le lacrime pronte a rigargli nuovamente le guance.
 John annuì. «Certo.»
 Sherlock scese dal materasso e, insieme a John, aiutò Mycroft a mettersi in piedi, reggendolo per le braccia per assicurarsi che potesse stare in piedi da solo.
 «Ce la fai?» domandò.
 Mycroft annuì. «Sto bene.»
 Sherlock e John si scambiarono uno sguardo, poi lo osservarono uscire dalla stanza e dirigersi verso il bagno.
 
 Mycroft entrò in bagno e si chiuse la porta alle spalle, poggiando la schiena alla parete e inspirando profondamente un paio di volte, tenendo gli occhi serrati.
 Nonostante John si fosse premurato di somministrargli degli antidolorifici per farlo sentire meglio, Mycroft continuava a sentire dolore. Ogni singolo osso del suo corpo doleva terribilmente e ad ogni movimento i muscoli erano attraversati da potenti scosse elettriche, sempre più dolorose ad ogni secondo che passava.
 Per non parlare del vuoto che sentiva dentro di sé da due mesi a quella parte. Sembrava che una voragine si fosse aperta nel suo cuore, espandendosi per avvolgere tutto il resto, compresa la sua mente, ormai completamente vuota e inutile.
 Aprì gli occhi e si avvicinò allo specchio. Osservò la sua immagine riflessa nella liscia e scintillante superficie, ma non riuscì a riconoscersi.
 Da settimane in lui non c’era più alcuna traccia di Mycroft Holmes.
 Quel corpo non era nient’altro che un involucro vuoto.
 Magnussen lo aveva danneggiato, e niente e nessuno avrebbe potuto rimetterlo insieme. 
 Ormai era privo di ogni utilità.
 Debole.
 Fragile.
 Sul punto di rottura.
 Che senso aveva continuare a fingere che non fosse così?
 Le lacrime rigarono nuovamente le guance di Mycroft e il dolore esplose nel suo petto con una violenza inaudita, togliendogli il fiato.
 Il politico strinse i pugni, poi, colto da un moto di rabbia, sferrò un violento pugno allo specchio, mandandolo in frantumi.
 
 Sherlock era immobile di fronte alla finestra della cucina, lo sguardo puntato verso l’esterno, la mente distante.
 Ciò che era successo a suo fratello lo tormentava. I segni sul suo corpo, le ferite, le lacrime che gli avevano rigato il volto quando aveva raccontato ciò che era successo…
 Come aveva potuto permettere che accadesse una cosa del genere a Mycroft? Come aveva fatto a non notare che c’era qualcosa di strano nel suo comportamento? Era evidente che qualcosa fosse cambiato, eppure non aveva fatto niente, perché, come sempre, aveva dato per scontato che Mycroft non avesse bisogno di aiuto. E quelli erano i risultati.
 Avrebbe dovuto immaginare che le sue indagini su Magnussen non avrebbero portato a nulla di buono… ma perché non aveva dato ascolto a suo fratello fin dall’inizio?
 «Quello che hai fatto per Mycroft è stato molto bello.»
 La voce di John irruppe improvvisamente nella stanza, costringendo il consulente investigativo a tornare alla realtà.
 Sherlock si voltò e incontrò lo sguardo dell’amico, fermo a pochi passi da lui. Sospirò e poggiò la schiena alla parete, incrociando le braccia al petto, poi abbassò lo sguardo, evitando di incrociare quello dell’amico.
 «Non ho fatto niente.» affermò.
 «Hai fatto moltissimo, invece.» lo corresse il medico. «L’hai fatto sentire al sicuro. Protetto. E in situazioni del genere è importante.» spiegò. «Ti sei preso cura di lui e gli sei rimasto accanto tutto il tempo. Sei stato magnifico.»
 Holmes scosse il capo. «Tu ti sei preso cura di lui.» lo corresse. «Ma se io fossi stato più attento, avrei potuto prevenire tutto questo. Se mi fossi reso conto di ciò che stava succedendo, probabilmente Magnussen non gli avrebbe mai fatto del male e tutto questo non sarebbe mai stato necessario.»
 John aggrottò le sopracciglia. «Ciò che è successo non è stata colpa tua.»
 «E di chi è?» esclamò il consulente investigativo, risollevando lo sguardo, agganciando quello di Watson. «Chi ha indagato su Magnussen, ignorando i rischi che avrebbe comportato? Chi ha violato il suo domicilio per delle stupide lettere senza alcuna importanza?» una risata sarcastica gli sfuggì dalle labbra. «Se non fosse stato per me, Magnussen non avrebbe mai potuto ricattare Mycroft.»
 «Ricattarlo?» domandò John.
 «Altrimenti perché mio fratello si sarebbe sottoposto a una cosa del genere?» chiese Sherlock di rimando. Sospirò. «Magnussen deve aver detto a Mycroft che avrebbe dovuto sottomettersi a lui, o se la sarebbe presa con me.»
 «Denunciandoti alla polizia?»
 «Sfruttandomi esattamente come ha fatto con lui.» lo corresse.
 Gli occhi di Watson si spalancarono. «Quindi…» e poi realizzò. Sospirò mestamente, passandosi una mano sul viso. «Mycroft non aveva scelta. Si è dovuto sottoporre a questo per proteggerti.»
 Sherlock annuì. «All’inizio nessuno si è accorto di nulla perché Magnussen si era premurato di non lasciare segni visibili… infatti, se hai notato, quelli più vecchi erano tutti su petto, braccia e gambe, in luoghi poco visibili.» sospirò. «Ma io ho continuato ad indagare. Per questo Magnussen è diventato più violento. Ed è arrivato a questo.» scosse il capo, passandosi una mano sul viso. «Mycroft mi aveva chiesto più volte di rinunciare alle mie indagini su di lui, e questo perché sapeva che se avessi proseguito, le torture sarebbero peggiorate. Ma ovviamente io non gli ho dato ascolto.»
 «Forse Magnussen gli avrebbe fatto questo comunque, Sherlock, anche se tu avessi interrotto le indagini.» fece notare il dottore. «Non possiamo saperlo. Tu non potevi saperlo. Hai detto tu stesso che nonostante avessi notato quelle ferite, Mycroft non aveva voluto dirti nulla. Come potevi sapere cosa stava succedendo?»
 «Avrei potuto dedurlo!» esclamò, il volto pallido, gli occhi colmi di un dolore malcelato. «Dio… è mio fratello, e ho permesso che accadesse questo. Lui non ha mai smesso di proteggermi. Ha fatto questo per salvarmi da Magnussen e io non ho fatto nulla per impedire che gli facessero del male. E per colpa mia, mio fratello è stato torturato, pestato e stuprato da quel bastardo.» ringhiò Sherlock, il cuore che galoppava nel petto. «E tutto perché io non ho voluto dargli ascolto.» chiuse gli occhi, abbassando lo sguardo. «E adesso a pagarne le conseguenze sarà Mycroft.»
 John lo osservò per un lungo istante, poi sospirò e avanzò verso di lui. «Adesso è al sicuro. Non permetteremo a Magnussen di avvicinarsi ancora a lui.»
 «Il danno maggiore è già stato fatto.»
 «Non pensare a questo.» replicò il dottore, poggiandogli una mano sulla spalla e cercando il suo sguardo. «Pensa soltanto al fatto che tuo fratello ha bisogno di te e che dovrai essere lì per lui. Se rimarrai al suo fianco, lo supererà. Lui è forte, Sherlock, proprio come te.»
 Il consulente investigativo sollevò lo sguardo e incontrò gli occhi del medico, colmi di comprensione e affetto, perdendovisi per un lungo istante. Le dita del medico erano strette intorno alla sua spalla, salde e rassicuranti, proprio come John.
 «E sappi che io ti aiuterò.» aggiunse Watson, accennando un sorriso. «Non abbandonerò né te, né lui. Te lo prometto.»  
 Holmes esalò un lungo respiro, poi annuì.
 «Andrà tutto bene.» assicurò John, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
 I loro sguardi rimasero agganciati per un lungo istante. Gli occhi persi gli uni negli altri, ad avvolgerli solo il silenzio e la quiete.
 Poi Sherlock interruppe il contatto visivo, abbassando lo sguardo. «Grazie.» mormorò.
 «Per cosa?» domandò Watson, aggrottando le sopracciglia.
 Holmes risollevò lo sguardo, incontrando nuovamente quello dell’amico. «Per tutto ciò che hai fatto.» rispose. «Per esserti preso cura di Mycroft.»
 John sorrise dolcemente. «L’ho fatto volentieri.» affermò. «Lui è tuo fratello.»
 Il consulente investigativo annuì, poi si voltò verso l’orologio appeso in cucina e si schiarì la voce. «È in bagno di più di mezz’ora.» disse, aggrottando le sopracciglia. «Forse è meglio che vada a controllare se ha bisogno di una mano.»
 Watson annuì. «Io preparo un tè. Almeno Mycroft mangerà qualcosa prima di mettersi a letto.» concluse, avvicinandosi ai fornelli per mettere l’acqua nel bollitore.
 Holmes annuì e uscì dalla cucina, diretto verso il piano superiore.
 
 Sherlock salì le scale e imboccò il corridoio, raggiungendo la porta accanto a quella della stanza da letto di suo fratello. Dall’esterno del bagno poté udire lo scrosciare dell’acqua, ovattato dalle pareti della doccia, e percepire il calore emanato dall’acqua calda che si era lentamente tramutata in vapore.
 Possibile che Mycroft fosse ancora sotto la doccia dopo mezz’ora?
 «Mycroft?» lo chiamò, bussando alla porta. «Va tutto bene?»
 Attese qualche secondo nel più completo silenzio, ma non ottenne alcuna risposta.
 Aggrottò le sopracciglia.
 Non voleva entrare senza il suo permesso, considerato ciò che aveva passato: aveva opposto resistenza alla visita medica, e forse se lui fosse entrato non avrebbe fatto altro che metterlo a disagio. Ma era strano che dopo trenta minuti non fosse ancora uscito dal bagno. Dopotutto doveva soltanto fare una doccia.
 «Mycroft» lo chiamò ancora.
 Ancora nulla.
 C’era decisamente qualcosa di strano.
 Sherlock, a quel punto, infischiandosene della privacy del fratello, aprì la porta.
 Quando l’aria fresca del corridoio entrò in contatto con quella soffocante all’interno del bagno, il vapore si dipanò.
 E il consulente investigativo lo vide.
 Mycroft era seduto a terra, la schiena poggiata contro il mobiletto del bagno, il capo inclinato verso destra e gli occhi chiusi.
 Accanto a lui, due enormi pozze di sangue si stavano allargando sul pavimento.
 Il cuore di Sherlock mancò un battito. Sui polsi del fratello correvano due profondi tagli orizzontali che stavano sanguinando copiosamente.
 «No…» ansimò, il cuore fermo nel petto. «No, Mycroft!»
 Corse accanto a lui, inginocchiandosi a terra, prendendogli il volto fra le mani e dandogli leggeri colpi sulle guance, sperando di fargli riprendere i sensi.
 «Mycroft…» disse, scuotendolo. «Mycroft, apri gli occhi!»
 Vedendo che non accennava a svegliarsi, Sherlock fece l’unica cosa sensata che gli venne in mente: lo tirò verso di sé, in modo che il suo corpo fosse poggiato contro il suo petto, poi premette le mani sulle ferite. Chiuse con forza le dita intorno ai polsi del fratello, sperando di arrestare l’emorragia, già fin troppo estesa, considerato quanto sangue c’era sul pavimento.
 «John!» gridò poi, non sapendo cos’altro fare. «John!»
 Abbassò lo sguardo e inorridì di fronte all’enorme quantità di sangue che si stava allargando accanto a loro. E solo allora notò i frammenti dello specchio, intuendo che Mycroft dovesse aver utilizzato uno di quelli per tagliarsi i polsi.
 «No… no, Mycroft…» mormorò, gli occhi colmi di lacrime. «Perché l’hai fatto?»
 In quel momento, John comparve sulla soglia e i suoi occhi si spalancarono per l’orrore. «Oh, mio Dio…» gli sfuggì, vedendo il sangue e Mycroft privo di sensi.
 «Ti prego, chiama un’ambulanza…» disse Sherlock, con voce rotta, sollevando lo sguardo sul suo volto. «Sta morendo…»
 John, senza esitazioni, prese il cellulare e compose il 999. Dopo aver spiegato la situazione ai paramedici e averli implorati di fare presto, rientrò in bagno, inginocchiandosi accanto a Sherlock e Mycroft.
 «Dobbiamo bloccare l’emorragia.» disse con urgenza e aprì tutte le ante del mobiletto.
 Quando trovò gli asciugamani, ne prese uno e lo strappò. Prese una delle metà e quando Sherlock scostò la mano dal polso di suo fratello, la legò intorno alla ferita, stingendo il nodo in modo da bloccare almeno in parte la fuoriuscita di sangue. Poi fece lo stesso con l’altro. Alla fine sollevò lo sguardo sul volto del consulente investigativo, incrociando i suoi occhi.
 «Fa troppo caldo qui.» affermò. «Il calore aumenta la perdita di sangue. Dobbiamo portarlo fuori dal bagno.» concluse. Si mise in piedi e indicò Mycroft. «Prendilo per le spalle, io lo prendo per le gambe.»
 Holmes annuì e, sollevando il politico, lo trascinarono fuori dal bagno, facendolo sedere sul pavimento del corridoio.
 Il minore si posizionò accanto a lui, tenendolo stretto fra le braccia, e gli accarezzò il capo.
 «Mycroft, resisti…» disse, con voce tremante, il cuore a pezzi. «Ti prego… ti prego, resisti…» lo implorò e le lacrime gli rigarono le guance. «Non puoi morire… non puoi…» singhiozzò e prese a cullarlo fra le braccia, poggiando la fronte contro la sua. «Non puoi farmi questo… ho bisogno di te… non puoi lasciarmi, Myc…»
 Com’era possibile che suo fratello avesse deciso di uccidersi?
 Il dolore era davvero così insopportabile da averlo spinto a fare una cosa del genere?
 
 Poco dopo il rumore di passi invase l’ambiente, e i paramedici comparvero nel corridoio. Si avvicinarono di corsa, poggiando a terra la barella e inginocchiandosi sul pavimento per studiare la situazione.
 Dopo qualche rapida occhiata e uno scambio di sguardi, il più anziano parlò.
 «Dobbiamo portarlo subito in ospedale.» affermò. «Ha perso troppo sangue. Servono trasfusioni.»
 John raggiunse Sherlock e gli poggiò le mani sulle spalle. «Sherlock, lascialo andare.» disse. «Adesso se ne occupano i paramedici. Lascialo.» lo prese per le spalle e lo tirò verso di sé, inginocchiandosi al suo fianco.
 Sherlock lasciò andare il fratello, adagiando il suo corpo tra le braccia degli infermieri.
 I paramedici spostarono Mycroft sulla barella e, dopo avergli posto una mascherina per l’ossigeno sul volto e averlo assicurato con le cinghie, la sollevarono e si allontanarono lungo il corridoio e giù per le scale, partendo poi a sirene spiegate alla volta dell’ospedale.
 Sherlock li osservò andarsene, il viso rigato dalle lacrime, il respiro accelerato e rotto; abbassò lo sguardo sulle sue mani macchiate del sangue di suo fratello e un singhiozzo eruppe violentemente sulle sue labbra, facendo tremare il suo corpo.
 «Oh, mio…» balbettò e scosse il capo, tremando violentemente. «Mycroft… lui morirà, John…» singhiozzò, sentendo il suo cuore andare in frantumi. Ansimò, sconvolto, sentendo la sua mente tremare sotto il peso di tutto il dolore che stava provando.
 «No.» disse John, scuotendo il capo e sollevandogli il viso in modo da guardarlo negli occhi. «Non è vero.»
 Holmes gemette. «Sì, invece…»
 «Andrà tutto bene.» assicurò John, poi lo tirò a sé, stringendolo tra le braccia e lasciando che poggiasse il capo sul suo petto. «Andrà tutto bene, Sherlock.»
 «Ha perso troppo sangue…» ansimò il consulente investigativo, il respiro sempre più rotto e convulso. «Non riusciranno a salvarlo…»
 «No.» replicò John e gli accarezzò il viso e i capelli, cullandolo fra le braccia. «Non accadrà, Sherlock. I medici lo salveranno e Mycroft starà bene di nuovo, te lo assicuro.»
 Sherlock scosse il capo, singhiozzando. «Voleva uccidersi…» pianse. «Lui… voleva uccidersi… voleva morire…» scosse il capo. «Prima non l’avrebbe mai fatto, ma adesso, dopo tutto quello che è successo… Magnussen l’ha distrutto… non è più lo stesso…»
 Watson lo strinse maggiormente a sé. «Shh… tutto si sistemerà. Mycroft starà bene di nuovo. Ha solo bisogno di tempo.» assicurò. «Adesso calmati. Respira.»
 Holmes gemette e affondò il viso nel petto dell’amico, aggrappandosi alla sua giacca e singhiozzando convulsamente. «John…» ansimò.
 «Shh… sono qui.» sussurrò John, accarezzandogli teneramente il capo. «Sono qui, Sherlock.»
 
 Poco dopo, Sherlock si calmò. I singhiozzi lasciarono posto ad ansiti sommessi e il suo respiro rallentò fino a tornare regolare e lento.
 John lo allontanò da sé e gli accarezzò il viso con le dita, spazzando via le ultime lacrime che stavano bagnando la sua pelle. Poi sospirò, vedendo che i suoi occhi si erano fatti vuoti e spenti.
 Sfiorò le sue guance con le dita, accorgendosi di quanto fredda fosse la sua pelle in quel momento. A giudicare dalla sua temperatura e dal suo colorito pallido, era decisamente sotto shock.
 Non l’aveva mai visto tanto spaventato e sconvolto.
 Trovare Mycroft in un lago di sangue l’aveva spaventato a tal punto da abbassare tutte le sue difese, mandandolo in pezzi. E anche il grande Sherlock Holmes era crollato sotto la morsa della paura di perdere una persona casa.
 John doveva ammettere che vedere così il suo migliore amico, gli aveva fatto provare una stretta al cuore e un dolore nuovo e profondo, qualcosa che non aveva mai provato prima di allora. Un sentimento così doloroso da impedirgli di pensare con lucidità. Un misto tra dolore per ciò che i fratelli Holmes stavano passando e rabbia per ciò a cui Magnussen li aveva condannati.
 Si riscosse, abbandonando quei pensieri e tornando alla realtà. Doveva rimanere ancorato alla realtà e pensare con lucidità per poter aiutare Sherlock a superare quel momento: il suo amico aveva bisogno di lui e John non poteva certo permettersi di crollare a sua volta.
 «Vieni, Sherlock» disse. «Ti aiuto a lavare via il sangue e poi cerchiamo dei vestiti puliti.» concluse, considerando che l’amico aveva mani, viso e abiti imbrattati di sangue.
 Si mise in piedi, gli circondò i fianchi con un braccio e lo aiutò a mettersi in piedi, sorreggendolo, dato che stava ancora tremando in preda allo shock.
 Sherlock, malfermo sulle gambe, si lasciò aiutare senza opporre resistenza. 
 «Andiamo in cucina.» affermò il dottore. Non ottenendo risposta, prese la mano di Sherlock, fredda e tremante, e la strinse delicatamente. «Vieni.»
 Lo guidò fino al piano inferiore e, una volta in cucina, raggiunse il lavandino.
 Watson aprì l’acqua e prendendo le mani di Sherlock fra le proprie, le accompagnò sotto il getto caldo, prendendo a sfregarle delicatamente, ripulendole dal sangue che le aveva macchiate, rivolgendo, di tanto in tanto, occhiate in tralice all’amico, per controllare che stesse bene.
 Una volta finito con le mani, prese un asciugamano, lo inumidì e, poggiando una mano sul viso di Sherlock per tenerlo fermo, lo accarezzò con la stoffa bagnata, eliminando le ultime macchie di sangue.
 Sherlock non aprì bocca, né si lamentò: rimase immobile e impassibile per tutto il tempo, lasciando che John si prendesse cura di lui.
 Poi, improvvisamente, le lacrime ripresero a rigargli le guance.
 John provò nuovamente quella stretta al cuore.
 Perciò poggiò l’asciugamano accanto al lavello, e fece l’unica cosa che gli venne in mente. Sollevò una mano, accarezzò il viso di Sherlock con dolcezza, poi lo tirò verso di sé e lo abbracciò.
 Dopo un iniziale momento di immobilità, Sherlock circondò il petto di John con le braccia e ricambiò la stretta, affondando il viso nell’incavo del suo collo, lasciandosi andare a quella stretta rassicurante e dolce.
 John intrecciò le dita nei suoi capelli e gli accarezzò la schiena, cullandolo fra le sue braccia, sperando di alleviare, almeno per un momento, il tormento e il dolore che affliggevano il suo migliore amico.
 
 Rimasero stretti l’uno all’altro per lungo tempo, immersi nel silenzio, beandosi di quella vicinanza intima e dolce, e abbandonandosi alle braccia dell’altro, sapendo che era l’unica cosa di cui entrambi avevano bisogno in quel momento.
 Il primo a rompere il silenzio fu Sherlock.
 «Scusa» mormorò contro il collo di John, le labbra che accarezzavano la sua pelle.
 «Per cosa?» domandò John, percorrendo la schiena di Holmes con le mani, regalandogli delicate carezze, senza preoccuparsi del fatto che potesse essere sconveniente o sbagliato.
 «Per questo.» replicò l’altro. «Io… io ho…» si bloccò, incerto sulle parole da utilizzare.
 «Va tutto bene.» assicurò Watson. «Non c’è nulla per cui tu debba scusarti, Sherlock.» spiegò, poi si allontanò da lui e puntò gli occhi nei suoi. «È normale avere paura. Ma tutto si sistemerà.» concluse con un mezzo sorriso. Allungò una mano arrivando a toccare quella dell’amico, e intrecciò le loro dita. «Adesso andiamo a cercare dei vestiti puliti, ok?»
 Holmes annuì e si lasciò guidare al piano superiore.
 Insieme raggiunsero la camera di Mycroft, dove John sperava di trovare qualcosa che Sherlock potesse indossare per togliersi di dosso gli abiti imbrattati del sangue di suo fratello.
 Il medico si avvicinò all’armadio e lo aprì, passando in rassegna i capi che vi erano all’interno. Tutto era perfettamente organizzato e in ordine, perciò riuscì a individuare immediatamente ciò che stava cercando. Prese una camicia bianca, una giacca e dei pantaloni neri, poi si avvicinò a Sherlock, che stava attendendo seduto sul materasso, con lo sguardo puntato sul pavimento.
 «Tieni.» disse John, porgendogli gli indumenti puliti.
 Sherlock sollevò il capo e allungò le braccia, prendendo gli abiti fra le mani.
 Per un momento le loro dita si sfiorarono e i loro sguardi si agganciarono.
 Dopo un momento di completa immobilità, il consulente investigativo lo distolse, voltandosi per poggiare gli abiti sul materasso.
 «Ti aspetto qui fuori.» disse John e poi lasciò la stanza per lasciare all’amico la sua privacy. 
 Una volta fuori poggiò la schiena e il capo alla parete, chiudendo gli occhi.
 Ciò che era successo quel giorno l’aveva sconvolto, e non poco. Non avrebbe mai creduto possibile che Mycroft sarebbe potuto arrivare a tanto, nonostante la disperazione che stava provando in quel momento.
 E ciò che più gli aveva fatto male era stato vedere Sherlock col cuore spezzato e così spaventato da perdere il controllo. Era stato terribile e doloroso vedere il suo migliore amico crollare sotto la morsa del dolore e il senso di colpa che stava provando per ciò che era accaduto a suo fratello.
 Avrebbe tanto voluto portagli via quel dolore. Farsene carico e allontanarlo da lui per vederlo tornare quello di sempre. Il sorridente e bizzarro Sherlock Holmes.
 John venne riportato alla realtà da Sherlock, che comparve sulla porta con indosso gli abiti puliti e quelli sporchi di sangue tra le mani.
 Watson si riscosse e si voltò verso di lui. «Dalli a me.» disse, prendendoli fra le mani.
 «Potresti…» Sherlock esitò. «Potresti buttarli? Non voglio vedere…»
 «Certo.» disse John, senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
 Non voleva vedere il sangue. Non voleva ricordare cos’era successo quel giorno. 
 Sherlock lo osservò per qualche istante, poi annuì in segno di ringraziamento. Abbassò lo sguardo, poi lo risollevò. «Puoi portarmi da lui?» mormorò con voce tremante.
 John annuì. «Sì.» disse. «Andiamo.»
 E, dopo aver gettato via gli abiti sporchi, insieme salirono sull’auto di John e si avviarono verso l’ospedale.
 
 
   
 
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