L’errore
Lena
lasciò che l’alcool scendesse nel suo stomaco bruciando. Quello, almeno, lo
sentiva ancora. Si rialzò posò il
bicchiere e tornò alla sua scrivania. Il lavoro non riempiva il vuoto dentro di
lei, ma lo rendeva sopportabile. La L-Corp, perché
finalmente aveva potuto cambiare nome alla Luthor
Corporation, era reale, tangibile, i problemi erano risolvibili con la giusta
dedizione e il necessario tempo.
Il
sole tramontò e Jess fu sostituita da Alana, ma Lena
se ne accorse appena. Gli occhi le bruciavano, ma vi erano rapporti da leggere,
bilanci da approvare e decisioni da prendere.
“C’è
una chiamata per lei, miss Luthor.” Lena sbatté gli
occhi e sollevò lo sguardo osservando la segretaria che indicava il telefono
che squillò ancora. Non si era resa conto che stava suonando, era davvero
stanca.
Sollevò
la cornetta e per un folle istante pensò che avrebbe potuto essere lei.
“Buonasera,
mi fa piacere trovarti in ufficio.” Il tono arrogante e saccente di sua madre
la colpì quasi fisicamente.
“Cosa
vuoi, madre? Forse desideri consegnarti, finalmente?” Alex… l’agente Danvers, si corresse mentalmente, l’aveva tenuta aggiornata
sugli sviluppi della sua indagine che era diventata l’indagine su sua madre. Avrebbe
dovuto capire che sua madre era il leader di Cadmus,
chi meglio di lei aveva libero accesso alla tecnologia delle Luthor Corporation? Lo avrebbe intuito subito nel vedere la
bomba se non fosse stato che… si interruppe perché quel filo di pensieri
l’avrebbe attirata, come un vortice a lei.
Kara.
Lena
chiuse gli occhi cercando di concentrarsi sulla telefonata e non sul vuoto
abisso in cui le sembrava di precipitare.
“Non
dire sciocchezze. Ho saputo che quei barbari ti hanno trattenuto per giorni e
volevo assicurarmi sul tuo stato di salute, perché so che sei stata male.” Lena
sbatté le palpebre, sorpresa. Vi era davvero della preoccupazione nel tono di
sua madre o era solo frutto della sua immaginazione?
“Sto
bene.” Affermò, lo aveva detto talmente tante volte ormai, guardandosi allo
specchio, mentendosi persino quando era sola, che suonò quasi convincente.
“Vedrai
che tutto andrà meglio, mi occuperò io di ogni cosa.”
“Cosa
stai progettando?” Domandò, un brivido di paura che le irrigidiva i muscoli.
“Il
cugino si è preso la sanità mentale di mio figlio, non permetterò che quella
sciocchina si porti via la tua.”
“Madre,
di cosa stai parlando?” Lena si aggrappò alla cornetta del telefono, il panico
che le si attorcigliava nel ventre.
“Non
ti preoccupare.” Asserì ancora la donna e poi la chiamata fu interrotta.
“Alana!” Chiamò, alzandosi in piedi.
“Sì,
miss Luthor?” La ragazza entrò, guardandola con aria
preoccupata.
“Rintraccia
il numero che ha appena chiamato, subito.” La donna annuì e tornò al suo
computer mettendosi all’opera.
Intanto
Lena digitò il numero personale di Alex Danvers, lo
aveva appreso a memoria proprio per usarlo in una situazione simile.
“Pronto?”
La voce di Alex conteneva della perplessità. Forse l’aveva svegliata, dopo
tutto erano le tre di notte.
“Sono
Lena, Lena Luthor.” Finì per dire ricordando che tra
loro due non vi era il rapporto che sentiva, quello falso che le aveva dato lei.
“Sì, cosa succede?”
Ora il suo tono era allarmato. Era folle quanto conoscesse la donna senza
conoscerla davvero… avrebbe dovuto capire che… si morse il labbro,
concentrandosi.
“Mi
ha chiamato mia madre. Deve avere un piano, sapeva quello che mi è successo e…
vuole farle del male.” Non disse il suo nome, non riusciva neppure a pensarlo
senza affogare tra i ricordi e il bisogno di averla vicino, figurarsi
pronunciarlo ad alta voce.
“Sai che non posso parlare delle
indagini, ma posso assicurarti che le stiamo con il fiato sul collo, non
riuscirà a scapparci ancora a lungo e dubito che possa organizzare qualcosa
contro…” Si fermò a sua volta.
“Chi è?”
Chiese una voce addormentata e Lena sentì un piccolo tuffo al cuore nell’immaginare
Maggie e Alex assieme, addormentate, il suo letto era così vuoto e freddo…
“Lena.”
Sentì borbottare. In quel momento Alana entrò nel suo
ufficio e le consegnò un foglio con delle coordinate.
“Alex.”
La chiamò lei, in un sussulto di fastidio, dimenticando la decisione di
riferirsi a lei sempre e solo come agente Danvers.
“Sì.”
“Ho
le coordinate del luogo da cui proveniva la chiamata. Se non ci vai tu sarò io
a farlo.”
“No, dammi le coordinate.”
Ordinò decisa e Lena percepì fastidio e al contempo sollievo, non era sicura di
essere nello stato emotivo adatto ad affrontare sua madre.
Le
diede le indicazioni e poi le augurò buona fortuna. Per un istante fu sul punto
di dirle di fare attenzione, ma era lei
a farlo e così tacque e riattaccò.
Kara
si rigirò nel letto con uno sbuffo. Le avevano detto che per lei sarebbe stato
più facile il distacco, perché il suo corpo era più forte e stava eliminando l’XV-439
molto lentamente e solo grazie alle inalazioni che Eliza
le aveva preparato. Ma non avevano nessuna idea del dolore che provava, non
avevano idea di quanto Lena le mancasse. Forse non era fisico il suo bisogno,
come lo era per Lena, ma era, di certo, dannatamente intenso.
Avrebbe
voluto urlare, perché la città non faceva silenzio? Perché il mondo continuava
a vivere quando lei soffriva così tanto? Perché il sole sorgeva?
Strinse
gli occhi e i pugni, frustrata. Quando il telefono suonò fu una specie di
liberazione. Lo afferrò e per un istante sperò che fosse lei, che l’avesse perdonata, che la chiamasse per dirle che le
mancava. Ma era il numero di Alex.
“Cosa
succede?” Chiese di getto, erano le tre di notte e Alex aveva avuto la serata
libera assieme a Maggie, se la chiamava era per un’emergenza.
“Abbiamo avuto una soffiata, forse
sappiamo dove si nasconde Lillian Luthor.”
“Dimmi.”
Saltò su dal letto e indossò il costume di Supergirl
prima ancora che Alex avesse il tempo di risponderle.
“Si tratta di capannoni
abbandonati, vicino al porto. Sto andando al DEO, preparo una squadra e
interveniamo.”
“Non
serve una squadra, vado io.” Affermò lei, decisa.
“Kara…”
Iniziò la sorella.
“No,
sto bene e questa storia deve finire. Sono settimane che la inseguite di
laboratorio in laboratorio, capannone abbandonato dopo capannone abbandonato.
Adesso basta. Lena ha bisogno…” Si bloccò. Dire il suo nome le aveva provocato
un’acuta fitta di nostalgia. Assaporò quel dolore perché era l’unica cosa che
le rimaneva di lei, l’unica cosa che le era concessa. “Lena merita che la vera
colpevole venga messa in carcere.” Riuscì a dire. “Solo così il suo nome sarà
completamente ripulito dal sospetto.” Sapeva che non era del tutto vero, ma
aveva bisogno di crederci. Voleva che Lena avesse la possibilità di
ricominciare per davvero.
“Va bene.”
Accettò la sorella e le diede l’indirizzo. Kara annuì soddisfatta e si spinse
fuori dalla finestra, dirigendosi verso il porto.
Malgrado
l’ora tarda l’aria era tiepida, come sempre a National City. Kara volò rapida
sopra la città percorsa da un perenne brusio, anche in quel momento, quando la
maggior parte dei suoi abitanti dormiva.
I
suoi occhi corsero traditori al palazzo della L-Corp,
aveva osservato da lontano mentre le gru montavano la nuova insegna e aveva
sorvegliato la cerimonia di cambio del nome. Lontana dagli occhi di Lena, ma
pronta ad intervenire se fosse successo qualcosa. Era stato difficile vederla
lì, bella come non mai, gli occhi fieri e la voce piena di sincerità e di forza,
e non poterla raggiungere, non poterle dire quanto fosse orgogliosa di lei.
Malgrado
fosse lontana, ora, poteva vederla, seduta alla sua scrivania, intenta, ancora
una volta, a lavorare fino a tardi. Sentì una fitta di vergogna nel pensare a
come l’aveva obbligata ad andarsene a casa. A lasciare il suo lavoro per fare
altro. Ora che era libera di agire e di pensare era evidentemente diverso il
suo impiego del tempo, un’altra prova di come si era imposta a lei.
Scosse
la testa e tornò a concentrarsi sulla sua meta, spinse i pugni in avanti e
rapidamente si ritrovò sul porto, non le fu difficile orientarsi e scendere veloce
attraversando il leggero tetto in lamiere, fino ad atterrare tra un gruppo di
uomini in nero.
Kara
fu investita da un fiotto di proiettili che non le fecero nulla, si mosse
veloce e i soldati di Cadmus si ritrovarono legati,
mentre lei piegava le loro armi come se fossero state di gomma.
“Dov’è
Lillian Luthor?” Chiese con
voce decisa.
Un
uomo si diresse verso di lei, uscendo dall’ombra e Kara lo riconobbe subito.
“J’onn? Sei venuto anche tu? Potevo gestire la cosa da…” Il
pugno la raggiunge in pieno petto e la scaraventò lontano. Kara sbatté contro
il muro di cemento e cadde a terra con un gemito di dolore. Rialzò la testa e
osservò l’uomo sconvolta. “Hank Henshaw.” Comprese,
ma l’uomo scosse la testa.
“Non
sono più quell’uomo, ora sono Cyborg Superman.” La afferrò e le diede un pugno,
lei questa volta parò il colpo, cercando di sottrarsi alla sua presa, ma si
ritrovò di nuovo scagliata a terra. La forza di quell’essere era, di certo,
sovraumana. Strinse i denti e si scagliò in avanti. Colpì Henshaw
al viso e sentì del dolore riverberare tra le sue dita, lo colpì ancora, ma
l’uomo catturò il suo pugno e strinse facendola urlare.
“Non
sei abbastanza forte, ragazza.” Le disse e poi la colpì con violenza facendola
stramazzare al suolo.
“Supergirl, mi fa piacere vedere che sei venuta.” Kara alzò
il viso con sofferenza e incrociò lo sguardo divertito di Lillian
Luthor. “Mia figlia ha fatto esattamente quello che
mi aspettavo da lei.” Kara strinse i denti e cercò di alzarsi in piedi, ma la
colpirono dietro alla testa e la sua coscienza scivolò nel buio.
“Il
trasmettitore di posizione è appena stato spento.” Comunicò Winn
con agitazione.
“Cosa?”
Chiese Alex tirandosi avanti e osservando lei stessa lo schermo.
Winn digitava rapido, ma il risultato
era sempre una scritta rossa che diceva ‘perso’.
“Prepara
una squadra, subito.” Ordinò J’onn e lei annuì
scattando verso l’armeria.
Una
decina di minuti dopo faceva irruzione nel capannone verso il quale si era
diretta Kara, il posto era vuoto.
“Agente
Danvers, venga a vedere.” La chiamò un agente DEO,
per terra vi erano numerosi bossoli, ma, più tipico ancora, vi erano le punte
dei proiettili, schiacciati.
“Supergirl ha affrontato uno scontro a fuoco.” Comunicò alla
base. Alex si guardò attorno con ansia crescente, aveva forse lanciato sua
sorella in una trappola?
Lena
guardò il telefono con aria tesa, poi controllò il suo cellulare. Perché non
erano ancora arrivate notizie? Alex doveva sapere che era in attesa!
Si
alzò e si versò altro whiskey ambrato nel bicchiere. Guardando la città e si
chiese dove fosse lei. Stava volando libera nel vento oppure dormiva? Stava
salvando qualcuno, con il suo sorriso soddisfatto e fiero?
Scosse
la testa e bevve un lungo sorso, reagendo appena al bruciore. Si voltò e
afferrò il telefono, avrebbe chiamato solo per essere sicura che avessero preso
sua madre, dopo tutto meritava di sapere, no? Era lei che aveva avuto
l’informazione vincente, dopo settimane di caccia sua madre aveva fatto un
errore… Lena corrugò la fronte osservando il proprio cellulare e il telefono
dell’ufficio.
Perché
sua madre aveva chiamato lì? Conosceva benissimo il suo numero privato. Sentì
una stretta al ventre quando intuì che l’errore lo aveva fatto lei.
Questa
volta non esitò nel comporre il numero di Alex Danvers.
Il telefono ebbe il tempo di fare un solo squillo, poi la donna rispose.
“È
una trappola!” Quasi le urlò, il cuore che batteva veloce.
“Lo sappiamo.”
L’istante di sollievo fu subito sostituito da un altro brivido, nel tono di
Alex c’era qualcosa che non andava.
“Come
fate a saperlo?” Chiese, mentre chiudeva gli occhi in attesa della risposta,
sperando con tutta se stessa di essere in errore.
“Vai a dormire, Lena. Ci pensiamo
noi.” Riaprì gli occhi e li fissò verso il panorama, il sole
stava sorgendo e i palazzi assumevano colori rosa e gialli.
“Dimmelo.”
Ordinò, con tono duro. “Dimmi cos’è successo a…” Strinse i denti. “Dimmi cos’è
successo a Kara.” Con rabbia scacciò la lacrima che traditrice le era sfuggita
dagli occhi, non sapeva quando quel dolore sarebbe scomparso, ma di certo non
sarebbe stato a breve.
“Presumiamo che tua madre l’abbia
presa.”
“Ha
preparato ogni cosa: la telefonata sul numero dell’ufficio proprio perché
abbiamo un modo per tracciare tutte le chiamate che arrivano così e poi mi ha
detto quelle precise parole perché sapeva che avrei agito d’impulso senza
riflettere, solo perché era coinvolta lei.
Mia madre sa. Sa quello che ci ha legate e ha saputo sfruttarlo, mi ha usata,
come sempre, e io, scioccamente, ci sono cascata, ancora una volta.”
“Non biasimarti. Io ho dato
l’indirizzo a mia sorella, io l’ho mandata lì, da sola.”
Nella voce di Alex ora non era più nascosta la paura e la preoccupazione.
“Cosa…”
Si interruppe. Cosa poteva fare? Non aveva già fatto sufficiente danno?
“La troveremo. Lei… Kara se la
cava sempre, vedrai.”
“Sì.”
Cercò di convincersi. “Lei è Supergirl, dopo tutto.”
Annuì cercando di soffocare i sentimenti di paura per la ragazza, quello che
sentiva non era vero!
Afferrò
il bicchiere e lo gettò a schiantarsi lontano.
Lena osservò il cielo infuocato.
Rosso, lo stesso rosso che si rifletteva sugli alti palazzi.
“Casa…” Mormorò una voce accanto a
lei. Lena si voltò a guardarla e vide il suo viso rigato dalle lacrime, non
guardava la città, non guardava il pianeta morente, guardava lei. “Non pensavo
di rivederti.” Disse ancora la giovane donna, i capelli biondi che ondeggiavano
sulle sue spalle, morbidi nel leggero vento.
“Dove sei?” Le domandò. Perché sentiva
che quella domanda era importante, la più importante di tutte, il resto poteva
aspettare.
“Con te.” Affermò però lei e
sorrise, senza smettere di piangere.
Lena sbatté le palpebre. Qualcosa
non andava, quel sogno era sbagliato o…
“Siamo già state qui…” Mormorò.
“Sì. Assieme.” Confermò la ragazza
voltandosi verso la città. “Krypton.”
“Perché è importante?” Domandò,
confusa. Perché quel sogno era così importante? Sogno?
Lena
aprì gli occhi sobbalzando, una mano delicata si era posata su di lei.
“Scusi,
miss, ma c’è un agente della polizia che ha chiesto di vederla. Ha detto che se
non la svegliavo io sarebbe venuta lei.”
“Catherine?”
Domandò lei, confusa nel vedere l’anziana domestica.
“Sì,
miss. Mi dispiace, aveva così tanto bisogno di dormire… non dovrebbe fare così
tardi, miss.” Per una volta Lena sorrise nel sentire il tono materno che la
donna aveva assunto spesso quando lei era più piccola.
“Hai
ragione, Catherine.” Ammise, alzandosi.
“Dirò
all’agente Sawyer di aspettare che…” Lena era
sobbalzata.
“Maggie
Sawyer?” Domandò, scendendo dal letto in fretta.
“Sì,
miss.” La giovane Luthor afferrò la vestaglia e la
infilò in fretta, uscendo dalla stanza a piedi nudi e scendendo le scale quasi
correndo.
“Maggie.”
Chiamò e la detective si voltò sorpresa nel sentirsi apostrofare in modo tanto
famigliare.
“Oh…
giusto, immagino che tu mi conosca.” La donna abbozzò un sorriso, ma si vedeva
che era tesa.
“Kara?”
Domandò lei, il cuore che batteva veloce.
“Non
abbiamo ancora novità su di lei, ma… sì, sono qua per questo.” Prese un
profondo respiro e la guardò dritta negli occhi. “Io e te dobbiamo parlare.”
Note: Ed eccoci passati all’azione! Mamma Luthor è, effettivamente, a capo di Cadmus e ha un piano preciso di cui non sappiamo molto, se non che le serve Kara. Lillian, come al solito, ha usato la figlia per giungere ai suoi fini e, al suo fianco, ha un alleato tanto forte da stendere Supergirl, il cyborg.
Maggie, però, il nostro allegro jolly, salta di nuovo fuori. Vuole parlare con Lena, per dirle cosa? E come reagirà Lena alla conversazione?
Idee?
Ultimo, ma non ultimo… il sogno… vi ricorda qualcosa? ;-)
Fatemi sapere!