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Autore: Civaghina    14/06/2017    1 recensioni
Com'era la vita di Leo, prima della terribile scoperta della Bestia?
Com'è cambiata la sua vita quando si è trovato davanti ad una verità così devastante?
La storia di Leo prima di Braccialetti Rossi, ma anche durante e dopo: gioie, dolori, amori, amicizie, passioni, raccontate per lo più in prima persona, sotto forma di diario.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leo, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Martedì, 10 luglio 2012

La notte è trascorsa serena, sono riuscito a dormire ininterrottamente fino alle 7:30, quando Ester è entrata e ha tirato su la veneziana della finestra.

"Buongiorno re Leone! Hai dormito bene?"

"Sì" rispondo stiracchiandomi.

"Per cominciare proviamo la febbre" dice passandomi il termometro. "Io intanto sostituisco la flebo."

"Dovrò tenerla ancora per molto?" chiedo mentre lei toglie la sacca vuota e ne mette una piena.

"Almeno mezza giornata, di sicuro. Dopo provo a farti bere un po' e vediamo come va."

"Qua va male..." dico guardando il termometro. "38,4..."

Lei guarda il termometro e poi prende nota sulla cartella clinica, restando in silenzio.

"Che c'è?" le chiedo notando la sua aria molto seria.

"Niente Leo, sto solo trascrivendo tutto per la dottoressa Lisandri, stai tranquillo. Adesso facciamo il prelievo, ok?"

"Ok".

L'odore dell'alcool.

Il cotone freddo strofinato sulla pelle.

Le dita che cercano la vena.

La puntura.

L'ago che penetra.

La sensazione di risucchio.

L'ago che esce.

Il cerotto.

Ormai sta diventando una routine familiare e ancora una volta è una familiarità che non mi piace.

"Ti ho fatto male?" mi chiede Ester interpretando la mia espressione di disappunto come dolore.

"No, no. Ormai ci ho fatto l'abitudine" rispondo stringendomi nelle spalle. "E poi tu sei bravissima. Perchè non diventi la mia infermiera personale?!"

Ester sorride, un po' imbarazzata: "Prova a farne richiesta scritta alla dottoressa Lisandri, magari ti dice di sì!" esclama mentre scrive il mio nome e cognome su un'etichetta che appone alla provetta con dentro il mio sangue.

"Eh, magari!"

"Adesso mi serve la tua pipì" dice passandomi il contenitore trasparente che comincia anche lui a diventare troppo familiare.

"Posso andare, in bagno, vero?"

"Sì" risponde lei ridendo. "Però se preferisci posso chiamare Ulisse!"

Io scuoto la testa sgranando gli occhi e afferro il contenitore.

"Alzati lentamente, non si sa mai che ti giri la testa".

La testa non gira e anche la nausea oggi sembra notevolmente diminuita, così cammino verso il bagno trascinandomi dietro la flebo.

"Porto tutto in laboratorio e poi torno da te, così proviamo a bere, va bene?" mi dice Ester mentre se ne va.

Io annuisco. Una parte di me non vede l'ora di bere: non ricordo di aver mai avuto la bocca così secca; ma un'altra parte di me è terrorizzata dall'idea di vomitare ancora.


Il sollievo dell'acqua fresca in bocca e lungo la gola dura solo pochi secondi, perché una volta raggiunto lo stomaco l'acqua non vuole saperne di restare lì e torna subito indietro insieme a un'ingente quantità di succhi gastrici.

Ester si era premunita di bacinella e quindi siamo riusciti ad evitare il disastro sul letto e sui miei vestiti.

Il disastro in me, quello però, non siamo riusciti ad evitarlo, né lei, né io.

Dopo ventiquattro ore chiuso qua dentro sto peggio di quando sono arrivato e adesso mi girano veramente le palle.

Vorrei essere lontano da qui.

A casa mia, nel mio letto, a dormire fino a tardi.

Con Giulia, a baciarla e a bearmi del suo seno e magari a convincerla a fare l'amore con me.

Al bar a bere il caffellatte freddo e a mangiare due cornetti alla crema senza vomitare tutto.

Da qualche parte con i miei amici a ridere fino a farci venire le lacrime agli occhi.

In giro con la mia Vespa.

Vorrei essere ovunque tranne che qui.

A scuola, durante un'interrogazione di matematica.

In coda alle Poste.

Al corso per il patentino.

Dal dentista.

Beccato dal padre di Giulia mentre facciamo robe che non approverebbe.

Ovunque, purché lontano da qui.

Vorrei essere sano.

Senza osteosarcoma, senza analisi, senza chemio, senza intossicazione al fegato, senza ospedale.

Vorrei indietro la mia vita normale.

La mia vita prima.


Verso le 10 arriva la Lisandri, con al seguito un dottore giovane e spilungone che non ho mai visto.

"Buongiorno Leo" mi saluta la Lisandri. "Ti presento il dottor Carlo La Gioia, oggi comincia la specializzazione. Lo vedrai quasi sempre in giro con me."

"Buongiorno" le fa eco lo spilungone; ha gli occhi cerchiati, una pettinatura improbabile e sembra piuttosto intimidito.

"Buongiorno mica tanto" rispondo io.

"E perché? Cosa succede?" mi domanda lei aprendo la mia cartella clinica.

"A parte l'essere bloccato qua col fegato ko e lo stomaco che non trattiene neanche mezzo bicchiere d'acqua?!"

"Il tuo fegato non è ko, sta già dando segnali di ripresa."

"Davvero?"

"Sì, i valori degli esami sono migliorati."

"E perché continuo a vomitare, allora?!"

"Perché dobbiamo dargli il tempo di riprendersi. Non ho detto che è tutto nella norma, ho detto che rispetto a ieri va già meglio. Dovremo ripetere gli esami domattina."

"Ancora?!"

"Sì Leo, tutte le mattine finché i valori non rientrano."

"E quindi quand'è che potrò andarmene a casa?!"

"Non lo so ancora. Di sicuro finché i valori non si normalizzano e non riesci a bere e mangiare senza rimettere è impossibile".

Fantastico.

Abbasso lo sguardo.

Troppo sconfitto per ribattere.

Per protestare.

Per lamentarmi.

Per inveire.

"Non possiamo rischiare. Lunedì devi fare il secondo ciclo di chemio, anche se probabilmente dovremo rimandarlo di qualche giorno. Leggo anche che hai la febbre..."

"Sì..." dico io sospirando.

"Dottor La Gioia, il paziente presenta temperatura corporea sopra i 38 gradi da circa diciotto ore. Ho aspettato per vedere se la febbre passava da sola, ma adesso ritengo opportuno intervenire. Mi dica come".

Lo spilungone è colto alla sprovvista e arrossisce imbarazzato: "Paracetamolo?" domanda con voce incerta.

"Certamente, se vuole ucciderlo è la scelta ideale" risponde la Lisandri senza alcuna ironia nel tono della voce ed io comincio a provare pena per questo povero specializzando spilungone, che se possibile diventa ancora più rosso.

"Mi scusi... è vero... , ha il fegato ko, giusto?" domanda mentre io gli faccio segno di ok per incoraggiarlo. "Il paracetamolo, quindi, peggiorerebbe la situazione."

"Non ha il fegato ko, ha un'intossicazione epatica dovuta a chemioterapia e sì, il paracetemolo peggiorerebbe di gran lunga la situazione. Quindi? Gli lasciamo la febbre col rischio che il fisico si debiliti ancora di più e ci costringa a rimandare la chemioterapia oltre il dovuto?"

"No..."

"E quindi?" lo incalza, togliendosi gli occhiali.

Mamma mia, mi sembra di rivedere me alle interrogazioni di matematica. Solo che, per fortuna sua, a un certo punto, lo spilungone pare illuminarsi ed esclama: "Aspirina!"

"Lo stomaco del paziente non riesce a trattenere nulla al momento. Rimetterebbe subito l'aspirina. Però c'è andato vicino, un ultimo sforzo, su dottore!".

Credo proprio che la Lisandri si stia divertendo a fare la sadica col suo povero specializzando. Di sicuro non avrà vita facile con lei.

Lui alza gli occhi al cielo, come per cercare di recuperare tutte le sue conoscenze mediche, mentre io spero per lui che stavolta becchi la risposta giusta.

"Acido acetilsalicilico per via endovenosa!" afferma con sicurezza.

"Per questa volta è salvo, dottore" gli dice la Lisandri, rimettendosi gli occhiali.

Sì, per questa volta lui è salvo, ma io no, se mi tocca pure sorbirmi quest'altra roba.

"Ancora flebo?!" esclamo esasperato guardando la Lisandri. "Tra un po' non saprete più dove bucarmi!"

"Cosa può dire al paziente per rassicurarlo?" domanda la Lisandri allo spilungone.

Lui mi osserva attentamente, poi si volta verso la Lisandri che lo incita a parlare, poi di nuovo verso di me: "Useremo l'ago cannula che hai già nella mano, quindi non sarà necessario bucarti ulteriormente, stai tranquillo, Teo" mi dice sorridendo.

"Leo" puntualizzo. "Comunque, grazie per la rassicurazione".


"Ciao amore!" la voce squillante di Giulia irrompe all'improvviso nella stanza e Leo apre gli occhi sorridendo e si tira su a sedere.

"Ciao!" esclama togliendosi le cuffie dell'i-pod.

"Ti ho svegliato?" gli chiede lei mentre si siede sul letto e lo bacia sulle labbra.

"No, no, mi stavo solo rilassando con la musica..."

"Come stai?".

Domanda di riserva?
"Bene direi… " risponde Leo sfregandosi un occhio.

"Mh... sicuro?"

"Ma sì, voglio solo tornare a casa..."

E alla vita di prima.

"Non ti hanno ancora detto quando potrai farlo?"

"No...".

Leo dice di stare bene ma Giulia non ci crede poi tanto; per quanto lui si sforzi di sorriderle, è evidente quanto sia abbattuto. Detesta questi momenti, in cui Leo è giù e lei è lì, accanto a lui, ma non può fare nulla per confortarlo.

Vorrebbe che tutto tornasse come prima.

Vorrebbe le domeniche mattina al parco.

Le giornate al mare.

I sabati sera a fare tardi.

Le sfide alla Play, che lei puntualmente perde.

I pomeriggi passati sul letto tra baci sempre più profondi e mani sempre più audaci.

Vorrebbe tutte queste cose senza quell'enorme parola che grava su di loro.

A minacciare.

A distruggere.

A devastare.

"Mi dispiace…" mormora con le lacrime agli occhi, mentre trattiene i singhiozzi. "Mi sento così inutile!" esclama scoppiando in lacrime, gettandogli le braccia al collo.

"Ehi! Guarda che non sto così male… davvero!" le dice Leo stringendola forte a sé; poi si sposta un po' per farle posto accanto a lui: "Vieni qui".
Giulia si perde in quell'abbraccio, sentendosi al sicuro, ma non riuscendo ad allontanare quella sgradevolissima sensazione di inutilità.

Le lacrime, inevitabilmente, continuano a scorrerle lungo le guance, senza che lei possa fare niente per frenarle, mentre sfoga i singhiozzi contro il petto di Leo.

"Ehi..." la richiama lui a bassa voce dopo un po', scostandola piano da sé.

Giulia non ha il coraggio di guardarlo negli occhi e rimane a fissare il leone stampato sulla sua maglietta rossa, accorgendosi di avergliela sporcata di mascara.

"Ti ho sporcato la maglietta" gli dice con voce nasale mentre si affretta ad asciugarsi le guance e a togliere i residui di mascara da sotto gli occhi con le dita.

"Chi se ne frega della maglietta! Guardami".

Giulia continua a tenere lo sguardo basso.

Non ha il coraggio di guardarlo negli occhi.

"Giulia, guardami" ripete Leo con voce dolce ma ferma.

Lei alza leggermente la testa e finalmente lo guarda; Leo le sposta dietro l'orecchio una ciocca di capelli che le ricopre il viso e le sorride: "Stai tranquilla, andrà tutto bene".

Giulia è consapevole che, probabilmente, nemmeno lui crede fino in fondo alle parole che le ha appena detto ma, nonostante tutto, vuole sforzarsi di credergli.

Si asciuga le lacrime e ripunta lo sguardo sul suo, cercando di sorridergli ma, a giudicare dalla faccia di Leo, non deve risultare molto convincente.

Dopo alcuni istanti di silenzio, lui le prende il viso tra le mani e la fissa negli occhi: "Puoi fare una cosa per me?"

"Subito!" esclama Giulia alzandosi dal letto. "Dimmi di cosa hai bisogno! Sono qui apposta!'.

Tutto, pur di lenire quel senso di inutilità che la attanaglia.

"Non adesso... Venerdì..."

"Venerdì? Ok, dimmi pure..." dice lei sorridendo, ma all'improvviso il suo sorriso si spegne, perché capisce a cosa lui si stia riferendo. "Se è quello che penso la mia risposta è no!" afferma con decisione mentre gli occhi le si riempiono di nuovo di lacrime. Si porta una mano davanti alla bocca, cercando di trattenere i singhiozzi, mentre Leo si allunga verso di lei e le prende l'altra mano.

"Per favore. Hai detto che non puoi fare nulla per me, ma non è vero. Vai a Londra, fallo per me. Fallo per... noi. Ti prego. Ti prego".

La voce di Leo trema e lei non gli dà il tempo di dire altro: si siede sulle sue gambe e lo abbraccia forte. Lui rimane fermo, in silenzio, in preda a una morsa dolorosa, da qualche parte tra la gola e lo stomaco, mentre lei continua a stringerlo e i suoi singhiozzi non hanno alcuna intenzione di cessare. Dopo alcuni istanti, Giulia percepisce le sue braccia ricambiare la stretta e si lascia completamente andare in un pianto a dirotto, un pianto liberatorio, in cui sembrano riversarsi tutte le cose che a voce non riuscirebbe mai a dirgli.

Ho paura di andare a Londra senza di te.

Ho paura di come potrei ritrovarti al mio ritorno.

Ho paura di non ritrovarti, di non riuscire a riconoscerti.

Non posso stare tre settimane senza di te.

Non posso stare tre settimane senza i tuoi sorrisi, senza i tuoi occhi, senza i tuoi baci, senza le tue mani, senza i tuoi abbracci, senza il tuo calore, senza il tuo odore.

Ho troppa paura che un giorno tutto questo possa non esistere più.

E non potrei mai perdonarmi di essermi persa tre settimane di te.

Sai quant'è difficile per me temere che tu possa star male, soffrire, morire?

Sapere di non poter fare niente, se non starti accanto?

Non faccio altro che chiedermi perché.

Perché proprio a te.

Perché proprio a noi.

Non posso perdermi tre settimane di te.

Ho paura.

Ho paura del tuo dolore.

Ho paura di non riuscire ad asciugare le tue lacrime.

Ho paura di non avere abbastanza forza per quando a te mancherà.

Non voglio fare a meno della tua risata, che è la fine del mondo.

Non voglio fare a meno del tuo sorriso, che è il sorriso più micidiale, luminoso e bello che abbia mai visto.

Non voglio fare a meno della tua voce, delle tue parole, di sentirti cantare.

Non voglio fare a meno del tuo corpo, di stringerlo, di annusarlo, di baciarlo, di guardarlo abbandonato, di guardarlo mentre si muove.

Non voglio fare a meno delle tue mani che gesticolano, che ti passi tra i capelli, che stringono le mie, che pizzicano le corde della chitarra, che mi accarezzano, che mi spogliano, che mi afferrano il viso per baciarmi.

Non voglio fare a meno dei tuoi baci teneri, dei tuoi baci appassionati, dei tuoi baci rassicuranti, dei tuoi baci impazienti.

Non voglio fare a meno dei tuoi sguardi, dei tuoi occhi che ridono, dei tuoi occhi lucidi, dei tuoi occhi irriverenti, dei tuoi occhi dolci, dei tuoi occhi che sfidano, dei tuoi occhi incazzati, dei tuoi occhi sorpresi.

E' troppo doloroso.

E' dannatamente ingiusto.

Leo le accarezza a lungo la schiena e finalmente lei riesce a rilassarsi un po', smettendo dì singhiozzare, pur rimanendo avvinghiata a lui, senza la minima intenzione di staccarsi.

E' Leo a rompere il silenzio, dopo parecchi minuti: "Vai a Londra, Giulia. Davvero, per favore”.

Giulia trova finalmente il coraggio di allontanarsi da lui, scendendo dalle sue gambe e tornando a sedere sul letto; si asciuga le lacrime con una mano, mentre cerca la forza per riuscire a guardarlo negli occhi. Alza lo sguardo a cercare il suo. "No” gli dice tirando su col naso.

Leo si abbandona contro lo schienale del letto.

Preoccupazione, paura e rabbia si agitano dentro di lui.

Vorrebbe afferrare Giulia per le spalle e urlarle in faccia tutto quello che sente.

I loro occhi si incrociano e Giulia impallidisce, non scorgendo in quelli di Leo l'abituale lucentezza: per la prima volta, da quando l'ha guardato negli occhi quel giorno sull'autobus, adesso non riesce a scorgervi la solita beffarda ironia, la solita vitalità.

Leo è pallido.

La sua bocca trema leggermente.

"Ieri sono stato malissimo" ammette appoggiando la testa contro il muro. "Diciamo pure che è stata una giornata di merda".

Giulia aveva immaginato che la serenità e l'allegria che lui ieri sera ha ostentato al telefono fossero solo una copertura, ma sentirglielo ammettere, mentre trema come un bambino spaventato, è mille volte peggio.

"Ed era solo il primo giorno. Hai idea di che inferno saranno le prossime tre settimane?! No, non ce la puoi avere! Io sì. Rivoglio la mia vita prima di tutta questa merda!".

Quegli occhi.

Quelle parole.

Quella mano sbattuta con forza sul materasso.

"Ma non è possibile, non ora, non chissà per quanto tempo! Ed io non so se ce la faccio, mi sento già stanco. E non so se mio padre e mia sorella ce la fanno. E non so se tu ce la fai, e non so se la nostra storia ce la fa!".

Tutta la forza e la sicurezza di Leo sembrano soccombere sotto quell'angoscia troppo grande.

"Si che ce la fai!" esclama Giulia prendendogli la mano e stringendola forte, rivolgendogli un sorriso che lui si sforza di ricambiare, ma che subito si spegne.

"Io ho bisogno di pensare a me. Non riesco ad essere forte per tutti. Non ci riesco! Sembra che tutti non vi aspettiate altro da me, ma io ho a malapena le forze per me stesso! Io ho bisogno che tu vada a Londra! Ho bisogno di queste tre settimane per accettare quello che mi sta capitando".

Giulia fissa il braccialetto rosso che Leo ha al polso dal giorno dell'intervento e che non si è più tolto; legge il suo nome, la sua data di nascita, il suo gruppo sanguigno.

Concentra lo sguardo su quel B Rh +.

Lo legge e lo rilegge.

Se lo ripete in testa come una litania.

Perché non sa più cosa pensare.

A dire il vero vorrebbe non pensare più a niente, ma non le riesce.

Seguono minuti interminabili dove ognuno rimane chiuso nel proprio silenzio.

Giulia vorrebbe parlare.

Vorrebbe tirar fuori tutte quelle parole che ha dentro.

Dirgli che ha paura di partire senza di lui.

Dirgli che non può perdersi tre settimane della sua vita e di tutto quello che di lui ama.

Dirgli che ha paura di come potrebbe trovarlo al ritorno.

E finalmente trova la forza per farlo: "Leo...", ma viene subito interrotta dallo bussare alla porta e dall'ingresso di Laura con in mano una sacca piena per la flebo.

"Oh, non sapevo che fossi in compagnia. Ciao!" dice Laura avvicinandosi a loro.

Giulia arrossisce e scende in fretta dal letto: "Salve..." saluta imbarazzata.

"Mi dispiace disturbarvi ragazzi, ma l'orario di visite è terminato già da un quarto d'ora..."

"Ci dai altri dieci minuti?" le domanda Leo provando a corromperla con uno dei suoi sorrisi.

Laura scuote la testa: "Devo provarti la febbre e sostituire la flebo. E poi devo andare dagli altri pazienti. Non ci sei mica solo tu in questo ospedale, eh re Leone?!"

"Eddai Lauretta! Cinque minuti, almeno!"

"Non insistere Leo, oggi non posso proprio accontentarti".

Giulia rivolge a Leo uno sguardo rassegnato, per poi raccogliere la borsa e dargli un bacio veloce sulla guancia. Prima di uscire, si ferma sulla porta per poterlo guardare ancora: "Ciao..." dice a bassa voce, ingoiando tutte quelle parole che non è riuscita a dirgli.

Lui le fa un cenno con la mano e poi, sospirando, prende il termometro che Laura gli sta porgendo.


Anche stasera il sonno tarda ad arrivare, nonostante stamattina mi sia svegliato presto e nonostante so che dovrò svegliarmi presto anche domani per la solita trafila: termometro, cambio flebo, prelievo del sangue, pipì nel contenitore, visita della Lisandri, probabilmente con lo spilungone al seguito; ma abituarmi a dormire qui è proprio una cosa che non mi va di fare.

Mi inquieta.

Guardo il cellulare e mi accorgo che ci sono tre chiamate perse di Giulia e un messaggio su WhatsApp di Mattia: domani pomeriggio lui e gli altri vorrebbero venire a trovarmi, dato che venerdì partono per Londra, ma a me non va proprio che vengano a trovarmi qui; magari domani o dopodomani la Lisandri mi dimette, così potranno venire a trovarmi a casa, oppure potremo vederci da qualche parte.

Decido di prendere tempo e rimandare la risposta a domani.

Non mi va neanche di richiamare Giulia: basta angosce altrui per oggi.

Ne ho già abbastanza delle mie.

Fisicamente sto meglio: le flebo di nutrienti artificiali mi hanno ridato energia, quelle di acido acetilqualcosa stanno tenendo a bada la febbre, la nausea è passata da sola, il fegato non mi fa quasi più male e il dolore alla gamba oggi è sopportabile (sarà sempre grazie all'acido acetilqualcosa?).

Però mi girano le palle.

Stare chiuso qui non mi fa bene.

Nel tardo pomeriggio è arrivata Asia, con altri cambi di vestiario, qualche fumetto, il mio pc portatile, l'accappatoio, il phon, lo shampoo, la spazzola, il gel per capelli e un flacone di Felce Azzurra, il mio bagnoschiuma preferito.

Il fatto che le mie cose in questa stanza aumentino esponenzialmente non mi piace.

E' come prendere in seria considerazione l'idea che dovrò passare qui più giorni del dovuto.

Per quanto mi riguarda, due sono già più che sufficienti.

Mio padre oggi è stato impegnato con il lavoro e non è riuscito a venire, ma non mi è dispiaciuto poi tanto: è stato un sollievo non vedere il suo sguardo spaventato e impotente, almeno per oggi.

   
 
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