Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    15/06/2017    2 recensioni
Sono tante le cose che si fanno per amore.
E Mycroft Holmes lo sa bene, anche se non riesce a comprendere cosa spinga le persone a gesti tanto estremi.
Ha visto suo fratello gettarsi da un tetto per proteggere i suoi amici da James Moriarty, rinunciare alla sua vita per due anni per proteggere John Watson, prendersi un proiettile per il suo migliore amico, morendo per mano di sua moglie, soltanto per saperlo al sicuro.
E tutto solo per amore. Quel sentimento che per Mycroft sembra così complicato da comprendere.
Tuttavia, quando Magnussen arriverà a minacciare Sherlock, sarà proprio l’amore a spingere Mycroft a offrirsi al suo posto, mettendo a rischio la propria vita e la propria libertà, per preservare quelle del suo fratellino. La persona che Mycroft Holmes ama più della sua stessa vita.
Perché l'amore ci spinge dove non ci saremo mai aspettati di poter arrivare.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Amore
 

Capitolo VI
Frammenti

 
 
 
 Una volta arrivati a casa, dopo aver fatto una doccia e aver cenato con gli avanzi trovati in frigo, John annunciò che sarebbe andato a letto per riposare. Lui e Sherlock erano rimasti in piedi due giorni per poter rimanere accanto a Mycroft e il medico stava cominciando a risentire di quella veglia che si era ormai prolungata anche troppo.
 Sherlock, che era seduto sulla sua poltrona da quando avevano finito di cenare, annuì senza incrociare lo sguardo dell’amico. Aveva gli occhi puntati sulle fiamme che stavano scoppiettando nel camino, le braccia rigidamente stese sui braccioli e il volto contratto in un’espressione severa.
 «Sicuro di non aver bisogno di nulla?» chiese ancora John, avvicinandosi. «Posso prepararti un tè, se vuoi. O tenerti compagnia.»
 Sherlock scosse il capo. «Sto bene. Vai a dormire.»
 Il medico sospirò. «Anche tu dovresti riposare.»
 Holmes non tradì alcuna emozione. «Non ho sonno.»
 «Posso darti dei tranquillanti se non riesci a dormire.» replicò Watson. «So che dopo ciò che è successo sei turbato, ma non gioverà a nessuno rimanere sveglio per giorni e giorni. Hai bisogno di qualche ora di sonno.»
 «Sto bene.»
 «Continui a ripeterlo, ma è evidente che non è così.»
 Sherlock a quel punto si voltò verso John. «D’accordo, mi metterò a letto se ti farà sentire più tranquillo.» promise. «Rimango ancora un momento qui a scaldarmi, poi vado a dormire. Ok?»
 John annuì. «Ok.»
 «Buonanotte, John.» disse Sherlock, per convincerlo.
 «Buonanotte, Sherlock.» ricambiò il medico e lasciò la stanza.
 
 John venne svegliato da un incubo.
 Aprì gli occhi di scatto, ansimando pesantemente, il viso madido di sudore e il corpo che tremava, percorso dalla paura. Le immagini dell’incubo erano ancora scolpite nella sua mente, impresse a fuoco, indelebili e così reali da fargli provare un brivido di terrore.
 Si mise a sedere sul materasso e si portò una mano alla fronte, tentando di controllare i propri respiri. Inspirò ed espirò svariate volte, poi deglutì, imponendosi di allontanare le immagini dell’incubo dalla sua mente.
 Com’era possibile che non appena chiudeva gli occhi, si materializzassero per tormentarlo?
 Sospirò. Sarebbe mai riuscito a trovare un po’ di pace?
 Stava per rimettersi a letto, rassegnatosi al fatto che probabilmente quella notte non avrebbe più chiuso occhio, quando notò la luce che proveniva dal piano inferiore.
 Aggrottò le sopracciglia, confuso, poi intuì che dovesse trattarsi di Sherlock.
 Si voltò verso la sveglia e notò che era l’una del mattino.
 Cosa diavolo ci faceva Sherlock ancora in piedi?
 Sospirò e scostò le coperte, poggiando i piedi sul freddo pavimento in legno. Si avviò lungo il corridoio e giù per le scale, pronto a fare una ramanzina a Sherlock, che come sempre non gli aveva dato ascolto, ma, quando arrivò sulla soglia del salotto, si bloccò.
 Sherlock era in piedi di fronte al camino ancora acceso. Aveva le mani chiuse intorno alla mensola in legno, lo sguardo basso a fissare le fiamme e i muscoli delle spalle contratti sotto la camicia leggera che stava indossando.
 Il medico sospirò. Aveva sospettato che nonostante l’amico gli avesse detto che si sentiva bene e che sarebbe andato a letto per riposare, in realtà non ci sarebbe riuscito. Ciò che era successo a Mycroft continuava a tormentarlo e John non poteva biasimarlo. Poteva solo immaginare quanto Sherlock si sentisse responsabile per ciò che era accaduto a suo fratello, e quanto gli facesse male vederlo così.
 Gli era capitata la stessa cosa con Harry, durante la loro giovinezza. Vederla autodistruggersi, rifugiandosi nell’alcool, e non poter fare nulla per aiutarla era stato terribile. Ma ancor peggio era stato che nessuno fosse stato lì per lui, per aiutarlo a superare quel momento, che oltre ad essere stato terribile per sua sorella, era stato tremendo anche per lui.
 John sospirò, poi avanzò e quando fu alle spalle dell’amico, fece scorrere le mani sulla sua schiena, risalendo fino alle spalle e scendendo sul petto. Lo accarezzò, poi lo circondò con le braccia, poggiando la fronte contro il collo di Sherlock.
 Sherlock esalò un lungo respiro, rilassandosi sotto il tocco dolce e rassicurante del medico; poi abbassò le mani e le poggiò su quelle di John, accarezzandole delicatamente. E quando Watson allentò la presa sul suo corpo, Holmes si voltò verso di lui, in modo da poterlo guardare negli occhi.
 John accarezzò la schiena dell’amico risalendo fino alle spalle e scendendo lungo le braccia. Quando raggiunse le sue mani, poggiò i palmi contro quelli dell’amico e intrecciò le loro dita.
 Sherlock abbassò lo sguardo sulle loro mani, poi lo risollevò sul viso del dottore, percorrendone ogni centimetro con gli occhi.
 John sentì un brivido percorrergli la schiena. Gli occhi di Sherlock erano così profondi da riuscire a scrutare nel profondo della sua anima, mettendo a nudo ogni parte di lui, anche la più nascosta. Bastava un singolo sguardo e quell’uomo riusciva a distruggere ogni sua difesa e ogni sua convinzione, mettendo in discussione tutto.
 Sherlock prese il suo volto fra le mani e lo accarezzò con dolcezza. Sospirò, poi chiuse gli occhi e poggiò la fronte contro quella del dottore, esalando un lungo respiro.
 John chiuse gli occhi e accarezzò la base della sua schiena, tirandolo maggiormente verso di sé per avvicinare i loro corpi e approfondire quel contatto; poi le sue mani risalirono lungo le braccia dell’amico e si chiusero intorno ai suoi polsi.
 Sherlock accarezzò il naso di John con il proprio e le loro labbra si sfiorarono.
 Fu un contatto delicato e rapido. Silenzioso e dolce. Una carezza fra labbra così semplice e casta da togliere il fiato entrambi.
 John sentì il cuore accelerare bruscamente e un ansito leggero lasciò involontariamente le sue labbra e Sherlock, spaventato da quella reazione, arretrò, allontanando le mani dal corpo dell’amico, gli occhi spalancati.
 Il medico, non appena il contatto fra i loro corpi si interruppe, sentì un improvviso freddo penetrargli nelle ossa, facendosi strada fino al suo cuore.
 Non sapeva perché, ma il suo migliore amico era stato l’unico in tutta la sua vita a riuscire a trasmettergli quella sensazione di calore e sicurezza. La dolcezza che Sherlock sapeva mostrare nei momenti in cui erano soli lo faceva sentire a casa come nient’altro al mondo era mai riuscito a fare. Nemmeno Mary.
 Perciò prima che Sherlock potesse allontanarsi ancora, John gli prese la mano e lo bloccò. Incrociò il suo sguardo, implorandolo di non allontanarsi, di non lasciarlo solo di nuovo.
 Ma gli occhi del suo migliore amico erano colmi di paura e gli stavano dicendo – gridando che quello era uno sbaglio.
 John, in risposta, aumentò la presa sulla sua mano e si avvicinò nuovamente a lui. Con l’altra mano gli accarezzò il viso, avvicinandolo nuovamente al proprio, rimanendo però abbastanza distante da permettergli di tirarsi indietro, se lo avesse voluto.
 Ma Sherlock non lo fece. Sollevò una mano e la poggiò sul volto dell’amico e gli sfiorò lo zigomo con il pollice, sospirando. «Cosa ci sta succedendo, John?» sussurrò, abbassando lo sguardo sulle sue labbra sottili e incorniciate da un leggero strato di barba.
 Il dottore scosse il capo. «Non lo so.» rispose, il cuore che batteva a mille rimbombando in ogni fibra del suo corpo. «Ma possiamo smettere. Non dobbiamo continuare se non lo vuoi.»
 Sherlock sollevò lo sguardo, incontrando i suoi occhi. «Tu che cosa vuoi?» soffiò sulla sua bocca, continuando ad accarezzargli il viso.
 «Te.» mormorò John in risposta, senza esitazioni o ripensamenti. «Voglio te.» le sue mani salirono fino al volto di Sherlock, sfiorandolo con dolcezza. «E tu cosa vuoi, Sherlock?»
 Il consulente investigativo rimase immobile per qualche secondo, poi circondò il petto di John con le braccia e poggiò il capo sulla sua spalla, affondandolo il viso nell’incavo del suo collo.
 «Voglio che resti con me.» rispose Holmes, sussurrando quelle parole sulla pelle dell’amico.
 E John lo strinse a sé.
 
 Quando Mycroft tornò a casa, lo fece insieme a Sherlock e John.
 I due si offrirono di ospitarlo a Baker Street in modo che non rimanesse solo e che Magnussen non potesse tornare a cercarlo; Anthea mise sei uomini a guardia dell’isolato e promise al suo capo che nessuno sarebbe riuscito ad avvicinarsi a lui senza che loro potessero accorgersene e che, perciò, avrebbe potuto stare tranquillo.
 Mycroft, inizialmente restio a rimanere a Baker Street, alla fine si ritrovò ad accettare la proposta del fratello, dato che l’ultima cosa che avrebbe voluto sarebbe stata alla solitudine di casa sua, che ormai si era fatta troppo opprimente e soffocante per lui.
 Perciò quando il consulente investigativo era andato a prenderlo insieme al dottor Watson, Mycroft li aveva seguiti a Baker Street, dove parte della sua roba lo stava già aspettando.
 
 Mycroft si svegliò gridando.
 L’ultima cosa che ricordava dell’incubo era Magnussen. Il suo volto privo di espressione, i suoi occhi spenti e freddi, le sue mani, il suo corpo premuto contro il suo.
 Non appena aprì gli occhi, capì che si era trattato di un incubo.
 Non si trovava ad Appledore e Magnussen non era lì con lui.
 Era stato solo un incubo. Un orribile, tremendo incubo.
 Non sapeva per quanto avesse gridato, ma a giudicare da quanto doleva la sua gola, doveva averlo fatto a lungo.
 Si mise a sedere, poi sollevò una mano e la passò sul viso, sentendo che era bagnato dalle lacrime. Lacrime con cui ormai aveva dovuto imparare a convivere. Lacrime che sfuggivano al suo controllo, proprio come le emozioni che provava.
 La porta si spalancò di scatto e Sherlock varcò la soglia della sua stanza, che ormai, da qualche giorno condividevano, dato che non c’erano altri letti utilizzabili al 221B.
 Sherlock non ebbe bisogno di fare domande per capire che la causa di quelle grida era stato l’ennesimo incubo. Ormai erano giorni che le grida e i singhiozzi di Mycroft svegliavano Sherlock e John nel bel mezzo della notte.
 Non c’era nemmeno stato bisogno di spiegazioni.
 I due coinquilini avevano capito senza chiedere, e non si erano aspettati spiegazioni o scuse da parte sua, sapendo quanto per lui fosse difficile quel momento.
 Sherlock, dopo un momento di assoluta immobilità, si richiuse la porta alle spalle e si avvicinò al materasso. Vi si inginocchiò e raggiunse suo fratello, poi lo strinse tra le braccia, prendendo a cullarlo dolcemente.
 Solo in quel momento, quando le braccia di suo fratello circondarono il suo corpo, Mycroft si rese conto che stava tremando e singhiozzando.
 Si aggrappò alle spalle del fratello, affondando il viso nella sua spalla, lasciandosi andare alle lacrime, e lasciando che il dolore che aveva provato e che stava provando esplodesse.
  
 Il mattino seguente, quando Sherlock si svegliò e raggiunse la cucina, vide che John era già in piedi ed era intento a preparare il caffè.
 Non appena udì il rumore dei suoi passi alle sue spalle, il medico si voltò.
 «Ehi» salutò, mettendo la caffettiera sul fuoco.
 Sherlock, il volto pallido e tirato a causa della stanchezza, accennò un sorriso e prese posto al tavolo, poggiandovi sopra i gomiti e prendendosi il capo tra le mani.
 «Un altro incubo?» domandò il medico, notando quanto l’amico fosse distrutto.
 Sherlock annuì.
 «Sei rimasto con lui?» fece notare John, prendendo posto al suo fianco.
 Il consulente investigativo poggiò la schiena alla sedia e si voltò verso l’amico. Annuì ancora. «Ma non è bastato.» replicò mestamente. «Ha pianto tutta la notte. Si è addormentato mezz’ora fa. Era distrutto.» concluse con un sospiro.
 «Anche tu lo sei.» fece notare il medico, poggiando una mano su quelle di lui. «Perché non ti metti a letto e non provi a dormire un po’?»
 Sherlock abbassò lo sguardo e scosse il capo. «Sto bene.» affermò, poi si mise in piedi, pronto a raggiungere il salotto per trovare qualcosa – qualsiasi cosa da fare.
 Non voleva dormire.
 Non voleva fermarsi.
 Perché dormire avrebbe significato incubi.
 E fermarsi avrebbe significato pensare. E quindi soffrire.
 E lui non poteva permettersi di soffrire. Non in quel momento, quando suo fratello aveva più bisogno di lui e del suo sostegno.
 John scattò in piedi e lo prese per un braccio prima che potesse allontanarsi, facendolo voltare verso di sé.
 Il consulente investigativo si voltò, abbassando lo sguardo sulla mano dell’amico, stretta intorno al suo braccio. Quando risollevò lo sguardo sul volto del medico e i loro occhi si incontrarono, intuì che John avesse capito. Sapeva che ciò che era successo a Mycroft lo stava tormentando a tal punto da impedirgli di chiudere occhio e riposare. E da settimane ormai.
 John, come sempre, era riuscito a leggerlo perfettamente.
 «Incubi?» domandò infatti.
 Lui, dopo un momento di esitazione, annuì.
 Il medico sospirò. «Da quanto non dormi?»
 «Un po’.» ammise Holmes flebilmente, abbassando lo sguardo.
 «Hai bisogno di riposare.» fece notare John. «Non puoi continuare così. Ne va della tua salute. Devi dormire almeno per qualche ora.»
 Sherlock scosse il capo. «Non ci riuscirei. Gli incubi…» spiegò, scuotendo il capo. «Appena chiudo gli occhi vedo-»
 «Se rimanessi con te accetteresti di riposarti per qualche ora?» sussurrò il dottore, interrompendolo prima che potesse continuare.
 Sherlock sollevò lo sguardo di scatto, sorpreso. I suoi occhi incontrarono quelli del medico e si incatenarono ad essi per un lungo istante, valutando le sue parole e la sua proposta, indeciso sul da farsi.
 Forse non era una buona idea. Non sapendo come stavano andando le cose fra loro e con la questione di Mary ancora in sospeso. Ma era anche vero che Sherlock aveva davvero bisogno di riposare e che l’unico modo per allontanare i demoni che lo tormentavano, sarebbe stato rimanere accanto a John. L’unico che era sempre stato in grado di allontanarli da lui, alleviando il suo dolore.
 «Non ti lascerò solo. Te lo prometto.» assicurò John, vedendolo esitare. «Rimarrò con te per tutto il tempo, se ti farà sentire più tranquillo.»
 E Sherlock annuì.
 A quel punto Watson – dopo aver spento il gas e la luce in cucina – gli prese la mano e lo condusse fino alla sua stanza.
 Una volta dentro si diressero verso il materasso e scostarono le coperte, senza preoccuparsi dell’oscurità che li avvolgeva. Quando Sherlock si fu sdraiato, John prese posto al suo fianco, coprendoli entrambi con le lenzuola e allargò le braccia in un tacito invito. Il consulente investigativo, scivolando sul materasso, si rifugiò tra le braccia dell’amico, affondando il viso nell’incavo del suo collo e aggrappandosi alle sue spalle, inspirando il suo profumo forte e intenso. Le loro gambe si intrecciarono sotto le coperte e i due si strinsero maggiormente l’uno all’altro, scivolando lentamente nel sonno.
 
 «Che succede?»
 La voce di John scosse le pareti del palazzo mentale di Sherlock, riportandolo bruscamente alla realtà. Il consulente investigativo aprì gli occhi e vide John in piedi accanto al divano, intento ad osservarlo con sguardo preoccupato.
 Holmes aggrottò le sopracciglia. «Cosa vuoi dire?» domandò di rimando, mettendosi seduto e sollevando lo sguardo sul volto dell’amico.
 «Sai bene cosa voglio dire.» fece notare John, rivolgendogli uno sguardo eloquente.
 «No.» replicò il moro, sperando di suonare convincente. «Altrimenti non ti avrei chiesto spiegazioni.»
 Watson sospirò. «Sono giorni che non parli e che ti rintani nel tuo palazzo mentale appena ne hai l’occasione.» spiegò. «Stai chiaramente evitando tuo fratello e me. E voglio sapere il perché.»
 Sherlock sospirò e abbassò lo sguardo.
 Chiuse gli occhi, sentendo lo stomaco contorcersi dentro di lui.
 Percepì il divano abbassarsi sotto il peso di John, che aveva preso posto al suo fianco, e dovette resistere all’impulso di sollevare lo sguardo sul volto del medico, a cui sarebbe bastato un solo sguardo per comprendere.
 «Parlami.» lo incalzò il medico, cercando il suo sguardo.
 Il consulente investigativo si voltò verso di lui, incrociando finalmente il suo sguardo. Per un istante ponderò la possibilità di mentire a John riguardo a ciò che lo turbava da giorni. Ma non poteva farlo. Non con lui. Non dopo ciò che avevano passato insieme.
 «Mi sento perso.» ammise alla fine, in un sussurro.
 John aggrottò le sopracciglia. «Cosa?» domandò.
 Sherlock scosse il capo, abbassando nuovamente lo sguardo. «Non so cosa fare.» spiegò. «Avevo promesso a Mycroft che avrei impedito a Magnussen di fargli ancora del male e che l’avrei fermato, ma non… non so come.» sospirò mestamente. «E a tutto questo si aggiunge che Mycroft sta vivendo un inferno. Non mangia, non dorme senza essere svegliato dagli incubi, è tormentato da flashback e attacchi di panico… e io non so cosa fare.» affermò. «Non so cosa fare, John. Per la prima volta nella mia vita, non riesco a… non so come aiutare mio fratello.»
 John rimase in silenzio.
 «Lui ha rinunciato alla sua vita per me.» proseguì Holmes. «Ha rinunciato a tutto per proteggermi. E io lo sto ricambiando così.» poi si portò le mani al viso e lo coprì, sentendo gli occhi pizzicare pericolosamente. «Sono un pessimo fratello. Lo sono sempre stato e questa ne è la conferma.»
 Quasi sobbalzò, sentendo la mano di John poggiarsi sulla sua spalla. Si voltò e incontrò i suoi occhi, perdendovisi per alcuni istanti.
 «Sentirsi perso non significa essere un pessimo fratello.» assicurò il medico. «Ascolta, so che per te questa è una sensazione nuova, ma considera quello che è successo.» fece notare. «Tuo fratello ha vissuto cose terribili, e, anche se ti costa ammetterlo, questo ha distrutto anche te.»
 Sherlock volse lo sguardo.
 «È normale essere spaventati e disorientati.» proseguì John, ponendo due dita sotto il mento di Sherlock per farlo voltare verso di sé. Quando i loro occhi si incrociarono, il dottore accennò un sorriso. «Questo non ti rende una cattiva persona o un cattivo fratello, Sherlock. Ti rende umano.»
 «Sì, ma come posso aiutarlo? Come posso salvarlo da Magnussen e da se stesso?» domandò, la voce tremante, gli occhi colmi di lacrime. Vedendo quanto quell’affermazione avesse confuso John, riprese. «Tutto questo non durerà. Lui non sopravvivrà. Non così.»
 «Sì, se tu continuerai a stargli accanto.» replicò John.
 «No, John. Questo non basta. Non potrà mai bastare.» disse, scattando in piedi. «Credi davvero che solo perché ha accettato di rimanere con noi e ha promesso di non fare nulla di stupido, non proverà nuovamente a uccidersi?»
 John lo osservò senza parlare.
 «Ciò che è successo lo tormenta ogni giorno e ben presto esploderà ancora. E nessuno potrà salvarlo.» spiegò, le lacrime che gli rigavano le guance. «Ma io non sono pronto ad assistere alla sua morte. Non posso, John, capisci? Non posso perdere anche mio fratello. Lui è tutto ciò che mi resta…» un singhiozzo eruppe improvvisamente dalle sue labbra e scosse violentemente il suo corpo. Sherlock scosse il capo, portandosi le mani alle tempie. «Non posso, John… non posso guardarlo morire… ma non so cosa fare… non…»
 John a quel punto si mise in piedi e lo raggiunse, circondandogli i polsi con le dita. «Ehi… Sherlock, guardami.» disse, cercando il suo sguardo. Poi, vedendo che aveva preso ad ansimare pesantemente, aumentò la presa intorno ai suoi polsi e aggiunse: «Respira.»
 Sherlock singhiozzò e scosse il capo, barcollando pericolosamente sulle gambe e, nonostante Watson avesse tentato di sorreggerlo, si accasciò a terra. «Non so cosa fare…» singhiozzò. «Rovinerò tutto, proprio come ho rovinato la vita di Mycroft in tutti questi anni… Non riuscirò a salvarlo e a proteggerlo… non ne sono capace…»
 Il medico scivolò al suo fianco, inginocchiandosi a terra a sua volta, e gli accarezzò la schiena. «Non è vero, Sherlock. Non hai rovinato nulla, né tantomeno lo farai adesso.» disse. «Andrà tutto bene.»
 Holmes scosse il capo, portandosi le mani al petto e stringendole intorno alla camicia, sentendo un dolore pungente all’altezza del cuore. Gemette, mentre le lacrime gli rigavano le guance con violenza, togliendogli il fiato.
 «Sì, Sherlock, tutto si sistemerà.» concluse il medico, poi lo tirò a sé e lo strinse fra le braccia, lasciando che poggiasse il capo sul suo petto. «Affronteremo questa cosa insieme e tutto tornerà alla normalità. Te lo prometto.»
 
 Mycroft, aldilà della porta, udendo le parole pronunciate dal fratello e sentendo quanto stesse soffrendo, sentì una fitta potente trafiggergli il cuore.
 Chiuse gli occhi, poggiando la schiena alla parete accanto alla porta e lasciò cadere la testa indietro, contro il muro. Le lacrime gli rigarono le guance, perdendosi nella sua barba rossiccia, tracciando solchi profondi sulla sua pelle.
 Era tutta colpa sua. Tutta quella sofferenza e quel dolore erano colpa sua e della sua stupidità. Si era fatto ingannare da Magnussen, si era fatto scoprire da Sherlock e non era nemmeno riuscito ad uccidersi per evitare a suo fratello di soffrire per le scelte che aveva scelto di compiere.
 Provava così tanto odio per se stesso, che si chiese come fosse possibile che suo fratello avesse deciso di aiutarlo. Come poteva non odiarlo a sua volta, dopo tutto ciò che gli aveva fatto passare? Come poteva non disprezzarlo per ciò a cui aveva scelto di sottoporsi? Come poteva volerlo aiutare nonostante tutta la sofferenza che gli stava procurando?
 Si portò una mano alla bocca, bloccando un singhiozzo prima che potesse lasciare le sue labbra rivelando la sua presenza all’interno dell’appartamento, dato che in quel momento avrebbe dovuto trovarsi al Diogene’s Club per questioni di lavoro.
 La verità era che non era riuscito nemmeno a varcare la soglia del Club. La vergogna e la paura che Magnussen potesse arrivare nuovamente a lui e fargli del male erano così forti da impedirgli persino di riprendere con le sue normali attività.
 Com’era possibile che dopo settimane passate lontano da quell’uomo, non riuscisse a dimenticare tutto ciò che aveva subito? Perché incubi e flashback continuavano a tormentarlo notte e giorno senza tregua?
 Avrebbe soltanto voluto un po’ di pace…
 Le gambe cedettero improvvisamente sotto il suo peso, trascinandolo a terra.
 Mycroft scivolò lungo la parete, ritrovandosi seduto a terra; si portò le ginocchia la petto, prendendosi il capo fra le mani, singhiozzando sommessamente sotto il peso di tutto quel dolore, così potente e soffocante. Tutto intorno a lui scomparve, cadendo nell’oblio. L’unica cosa che riusciva a percepire era la sofferenza, così amplificata e profonda da impedirgli quasi di respirare.
 Un lieve rumore accanto a lui lo fece trasalire. Sollevò il capo e si voltò.
 La porta della cucina si era aperta con un leggero cigolo e John era comparso sulla soglia. 
 Il politico abbassò lo sguardo, non volendo incrociare quello del dottore. Non voleva che John lo vedesse così. Distrutto, vulnerabile. Era già successo troppe volte e non poteva permettere che accedesse ancora.
 Tuttavia, come impedirlo?
 Watson avanzò e si chiuse la porta alle spalle; poi sospirò e si inginocchiò accanto a lui, poggiandogli delicatamente una mano sulla spalla.
 A quel contatto, Mycroft esplose in singhiozzi convulsi e incontrollati, non riuscendo a trattenersi oltre. Tutto il dolore che stava provando e la sofferenza che sentiva si riversarono fuori dalla sua mente e dal suo corpo con violenza, ormai inarrestabili.
 John lo tirò verso di sé, lasciando che Mycroft poggiasse il capo contro il suo petto e piangesse. Poggiò il mento sul suo capo, accarezzandogli il volto e cullandolo fra le sue braccia.
 E Mycroft si lasciò stringere, sentendo che John, in quel momento, era l’unica cosa in grado di impedirgli di cadere a pezzi per l’ennesima volta. 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao! ;)
Rieccomi qui con il sesto capitolo della mia long. Capitolo interamente dedicato ai nostri Sherlock, John e Mycroft e alle conseguenze di tutto ciò che è accaduto nei capitoli precedenti. Anche qui, come avete potuto leggere, l’angst regna sovrano. Come sempre xD D’altronde non posso certo smentirmi!
A sabato con il prossimo capitolo ;)
Un bacio, e un enorme grazie a tutti coloro che leggono e soprattutto recensiscono! ♥
Eli♥
 
   
 
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