Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    17/06/2017    2 recensioni
Sono tante le cose che si fanno per amore.
E Mycroft Holmes lo sa bene, anche se non riesce a comprendere cosa spinga le persone a gesti tanto estremi.
Ha visto suo fratello gettarsi da un tetto per proteggere i suoi amici da James Moriarty, rinunciare alla sua vita per due anni per proteggere John Watson, prendersi un proiettile per il suo migliore amico, morendo per mano di sua moglie, soltanto per saperlo al sicuro.
E tutto solo per amore. Quel sentimento che per Mycroft sembra così complicato da comprendere.
Tuttavia, quando Magnussen arriverà a minacciare Sherlock, sarà proprio l’amore a spingere Mycroft a offrirsi al suo posto, mettendo a rischio la propria vita e la propria libertà, per preservare quelle del suo fratellino. La persona che Mycroft Holmes ama più della sua stessa vita.
Perché l'amore ci spinge dove non ci saremo mai aspettati di poter arrivare.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Amore
  
Capitolo VII
Scelte e conseguenze
 
 
 Finalmente, dopo due settimane passate a Baker Street, per riprendersi completamente e guarire, Mycroft riuscì a tornare al lavoro.
 Non appena rimise piede nel suo ufficio, al contrario di quanto aveva pensato, sentì il cuore alleggerirsi. Aveva agognato tanto quel momento, e anche se era stato complicato tornare, alla fine ci era riuscito e tutto era tornato alla normalità in meno di qualche minuto, soprattutto con la consapevolezza che il lavoro sarebbe riuscito a distrarlo da tutto ciò che era successo.
 Inoltre, il politico sapeva che lì, all’interno del palazzo sarebbe stato completamente al sicuro: i suoi uomini lo stavano presidiando e non avrebbero permesso a Magnussen di varcare la porta d’ingresso, perciò quell’uomo non avrebbe più potuto avvicinarsi a lui senza essere intercettato e fermato.
 Anthea lo aggiornò su tutto ciò che era successo nel periodo che aveva trascorso in ospedale e al 221B, e subito Mycroft si mise al lavoro analizzando documenti e firmando permessi per missioni in tutte le parti del mondo per i suoi agenti più fidati, tornando ad essere, finalmente, il Mycroft che ricordava.
 Per un momento, immerso nel suo lavoro, dimenticò tutto ciò che era successo nei passati mesi, allontanando i ricordi e i pensieri terribili che ormai da settimane lo tormentavano giorno e notte.
 
 Tuttavia, la quiete durò poco.
 Tre giorni dopo il suo ritorno, nonostante l’alto livello di sorveglianza intorno a Buckingham Palace, Magnussen varcò la soglia del suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.
 Mycroft, intento ad analizzare dei documenti riguardanti una missione nel sud dell’Inghilterra, sollevò lo sguardo, stupito che chiunque fosse entrato non avesse bussato prima di farlo.
 Non appena lo vide, fermo di fronte alla scrivania – il volto privo di espressione, gli occhi freddi e inespressivi – sentì il cuore fermarsi nel petto.
 I suoi occhi si spalancarono e la mascella si contrasse. Chi diavolo lo aveva fatto entrare?
 Magnussen sorrise freddamente. «È un piacere rivederla, signor Holmes.» esordì, avanzando e andando a sedersi sulla sedia di fronte alla scrivania, senza attendere un invito. «Vedo che si è ripreso completamente.»
 Mycroft non rispose. Tenne semplicemente lo sguardo fisso sul suo volto, le mani intrecciate in grembo, le dita contratte in una stretta d’acciaio sotto la scrivania, nascoste alla vista dell’uomo che nelle passate settimane lo aveva torturato in tutti i modi possibili.
 «E, mi dica: come sta il suo fratellino?» domandò l’uomo, sporgendosi in avanti, rivolgendogli uno sguardo malizioso. «Si è ripreso dopo il duro colpo inferto dalla verità?»
 Mycroft si impose di rimanere impassibile di fronte a quella provocazione.
 «Oh, su via, non faccia così.» proseguì l’altro. «Credevo che ormai l’avesse superato… non è lei ad avere un cuore di ghiaccio? O forse questa volta il suo cervello non riesce a primeggiare sui suoi sentimenti?»
 «Se ne vada.» sibilò il politico.
 Magnussen sollevò un sopracciglio. «Andarmene? È perché dovrei? È stato lei ad invitarmi qui.»
 A Holmes sfuggì una risata priva di ogni traccia di divertimento. «Tutto questo è ridicolo.» ringhiò e scattò in piedi, dirigendosi verso la porta, pronto a chiamare la sicurezza per avvertirli della presenza di Magnussen all’interno dell’edificio.
 Tuttavia le parole dell’uomo lo bloccarono prima che potesse aprire la porta. Il politico rimase immobile con la mano poggiata sulla maniglia, i muscoli delle spalle contratti, lo stomaco stretto in una morsa.
 «Ci pensi bene, Mycroft.» lo avvertì. «Sappia che qualsiasi cosa sceglierà di fare e qualsiasi scelta prenderà da adesso in poi avrà conseguenze che si ripercuoteranno sulle persone che più le stanno a cuore.»
 Mycroft sentì il suo cuore accelerare. Le immagini di suo fratello e di John gli balenarono immediatamente nella mente, soppiantando ogni altra.
 Come se gli avesse letto nel pensiero, Magnussen si mise in piedi e si avvicinò, fermandosi a meno di un metro da lui. Sorrise freddamente e riprese a parlare. «Pensi a Sherlock e a John.» sussurrò. «Ho notato che ha sviluppato un particolare attaccamento anche nei suoi confronti, ultimamente.»
 Il politico rimase immobile, deciso a non tradire alcuna emozione.
 Magnussen rise. Una risata priva di calore e divertimento. «E così, dopotutto, l’uomo di ghiaccio ha un cuore.» lo derise. «È quasi commovente, devo dire.» concluse, sfiorandogli una guancia con il dorso della mano.
 Mycroft, a quel gesto, trasalì. Si scostò, indietreggiando per allontanarsi da Magnussen. «Se ne vada.» ripeté, ma questa volta più che un ordine era suonata come una preghiera. Gli angoli dei suoi occhi presero a pizzicare pericolosamente. «Ha ottenuto ciò che voleva. Ha vinto. Mi ha sconfitto… perché non può lasciarmi in pace?»
 L’uomo sorrise. «Io non ho neanche lontanamente ottenuto ciò che volevo, signor Holmes. Per questo sono qui.» replicò. Fece una pausa in cui osservò per lunghi istanti il politico. Poi riprese. «Da stasera riprenderemo i nostri incontri. E le regole saranno sempre le stesse.» concluse, poi aprì la porta per andarsene.
 «E se io rifiutassi?» chiese Mycroft.
 Magnussen rimase immobile per qualche secondo, dandogli le spalle, poi si voltò nuovamente verso di lui, rivolgendogli un mezzo sorriso. «Come le ho già detto: non sarà lei a dover convivere con le conseguenze delle sue scelte.» replicò, poi, senza aggiungere altro, lasciò l’ufficio richiudendosi la porta alle spalle.
 
 Quella sera, Mycroft, non si mosse dal suo ufficio.
 Se Anthea o i suoi uomini avessero permesso a Magnussen di entrare a Buckingham Palace e di arrivare fino al suo ufficio non ne fecero parola, e il politico li congedò senza fare domande o chiedere spiegazioni, volendo evitare domande scomode, soprattutto da parte della sua segretaria.
 Quando tutti i suoi colleghi ebbero lasciato i loro uffici, e Mycroft fu certo di essere rimasto solo, si chiuse a chiave all’interno del proprio ufficio, deciso a rimanere lì tutta la notte, se necessario.
 Sapeva che probabilmente Sherlock e John lo stavano aspettando a Baker Street per la cena, ma non era la prima volta che tornava tardi dal lavoro e probabilmente non si sarebbero fatti troppe domande nemmeno quella sera.
 Dopo l’incontro con Magnussen non aveva la forza di affrontarli entrambi. Non poteva affrontare lo sguardo indagatore del fratello, né le sue deduzioni, sapendo che avrebbe capito che qualcosa era andato storto, né tantomeno la preoccupazione e lo sguardo dolce di John, che alla fine lo avrebbero fatto confessare, spingendolo a chiede aiuto alla polizia dopo l’ennesima minaccia ricevuta da Magnussen.
 L’unica cosa di cui aveva bisogno in quel momento era rimanere solo, lontano da tutti, nel silenzio e nell’oscurità del suo ufficio che da sempre lo avevano aiutato a riflettere e a calmarsi quando nient’altro sembrava permetterglielo. Perciò poggiò le braccia sulla scrivania, affondando il viso negli avambracci e chiudendo gli occhi per riposare la sua mente, in subbuglio da quel pomeriggio.
 
 Mycroft venne svegliato dall’insistente squillare del suo cellulare.
 Sollevò il capo di scatto, impiegando qualche secondo per capire che si trovava ancora nel suo ufficio, dove si era addormentato quasi un’ora prima.
 L’orologio, appeso alla parete di fronte a lui, segnava le 21.30, ticchettando lo scorrere dei secondi con insistenza, quasi volesse spingerlo a rispondere a quella chiamata più velocemente.
 Mycroft inspirò profondamente, sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco la scrivania e tentando di ricomporsi. Prese il cellulare, poggiato accanto alla tastiera del computer, osservando lo schermo per capire chi lo stesse chiamando a quell’ora della sera, sul suo numero privato.
 Quando sullo schermo vide il nome di John, non esitò nemmeno un secondo a rispondere.
 «John» disse, ogni traccia di sonno scomparsa sia dal suo viso che dalla voce.
 «Mycroft?» chiese il medico, dall’altro capo, con urgenza. «Dove sei?»
 «In ufficio. Avevo del lavoro da sbrigare e mi sono trattenuto più a lungo.» rispose lui, sentendo un brivido corrergli lungo la schiena. Aveva una bruttissima sensazione. C’era qualcosa di strano nella voce di Watson, di solito sempre calda e ferma, qualcosa che non lasciava presagire nulla di buono. «Cosa succede, John? È tutto ok? Stai bene?» domandò, mettendosi in piedi.
 «Sì, io sto bene.» assicurò lui. Esitò per qualche secondo, poi riprese. «Sono al pronto soccorso. Sherlock ha avuto un incidente-»
 «Oh, mio Dio…» ansimò Mycroft, interrompendolo, e il suo cuore mancò un battito, mozzandogli il respiro. Le gambe traballarono sotto il suo peso e lui ansimò.
 «No, ehi, ehi, Mycroft, rimani con me.» disse il medico, probabilmente avendo capito quanto fosse sconvolto da quella notizia. «Non è niente di grave. Ha solo qualche graffio. Sta bene. Lo terranno in osservazione per una notte.» fece una pausa. «Vuoi che venga a prenderti, così puoi venire qui? Siamo al Bart’s.»
 «No.» rispose lui, muovendosi verso la porta. «Chiamo il mio autista. Tu rimani con Sherlock.»
 «D’accordo.» concluse John.
 «Sarò lì fra poco.»
 «Va bene.» replicò l’altro. Poi aggiunse, più dolcemente. «Ehi?»
 Mycroft si bloccò. «Sì?»
 «Stai tranquillo.» disse. «Va tutto bene, ok?»
 «Ok.» rispose, poi chiuse la chiamata.
 
 L’autista rispose immediatamente alla chiamata e quando Mycroft uscì da Buckingham Palace trovò la famigliare auto nera ad attenderlo accanto al marciapiede. Aprì la portiera e salì velocemente sul sedile posteriore, posizionandosi, come al solito, a sinistra, dietro al sedile del guidatore.
 «Dove posso scortarla, signore?» chiese l’altro cordialmente, porgendosi per incrociare il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
 «Al Bart’s.» rispose Mycroft. «E faccia in fretta.»
 «Certo.» rispose l’uomo, annuendo, poi mise in moto e partì.
 In meno di dieci minuti giunsero a destinazione.
 L’autista lo scortò fino all’entrata del pronto soccorso, dove Mycroft scese, dicendogli che avrebbe potuto tornare a casa senza attendere il suo ritorno, poi si avviò verso l’interno dell’ospedale.
 Una volta dentro il pronto soccorso non ci mise molto ad individuare John: era seduto sulle seggiole in sala d’aspetto, il capo poggiato alla parete, il volto pallido e segnato dalla stanchezza, gli occhi serrati.
 Mycroft si avvicinò camminando velocemente. «John» lo chiamò.
 Il medico si voltò e quando lo individuò, si mise in piedi e lo raggiunse. 
 «Sherlock?» chiese Holmes.
 «È in ambulatorio.» rispose lui. «Lo stavano ricucendo.»
 Il politico annuì, ma quando vide che Watson aveva abiti e mani imbrattati di sangue, esitò. «Stai bene?» chiese, sentendo il cuore accelerare. Al telefono aveva detto di stare bene, eppure era coperto di sangue. Forse era ferito anche lui.
 John abbassò lo sguardo. «Sì. Il sangue non è mio.» assicurò. «È che Sherlock ha sbattuto la testa e…» si bloccò, scuotendo il capo, come se avesse le idee confuse e non riuscisse ad estrarre pensieri chiari dalla propria mente.
 «Com’è successo?» chiese quindi Mycroft.
 «Non lo so… È successo tutto molto in fretta…» ammise John. «Stavamo camminando lungo il marciapiede per tornare a Baker Street e un’auto è uscita improvvisamente di strada. Sherlock mi ha spinto via, ed è stato investito al posto mio. È rotolato sul cofano e poi a terra. E quando l’ho raggiunto era privo di sensi.» sospirò, scuotendo il capo con vigore, abbassando sulle mani ancora macchiate del sangue dell’amico. «Mi dispiace, l’auto si è allontanata prima che potessi prenderle la targa. Spero che Greg riesca a ricavare qualcosa dai video della sorveglianza del quartiere.»
 Mycroft sentì un’improvvisa stratta al cuore man mano che i pezzi del puzzle andavano al loro posto, incastrandosi fra loro, dando forma ad un’immagine nitida e chiara nella sua mente.
 Sollevò lo sguardo sull’orologio appeso alla parete al fondo del corridoio, che adesso segnava le 21.40.
 Mesi addietro era solito incontrare Magnussen alla sua villa alle 20.30, poco dopo aver lasciato il lavoro. Non poteva essere una coincidenza che quella sera, dopo aver rifiutato la proposta di Magnussen – che aveva minacciato non soltanto lui, ma anche Sherlock e John – suo fratello fosse stato accidentalmente investito sulla via di casa.
 Dio, come aveva potuto sottovalutare Magnussen e le sue minacce?
 Abbassò lo sguardo, chiudendo gli occhi.
 «Mycroft?» lo chiamò John. «Ci sei?»
 «Sì, scusa.» disse, tornando bruscamente alla realtà. Risollevò lo sguardo, incrociando lo sguardo. «Sei sicuro di star bene?»
 «Sì, è solo…» abbassò lo sguardo e sospirò. «Quando ho raggiunto Sherlock, steso a terra sul marciapiede, con una ferita alla testa, e ho visto tutto quel sangue, mi ha ricordato-» si interruppe, premendosi i palmi delle mani sugli occhi.
 Mycroft capì senza bisogno di udire altro: gli aveva ricordato il giorno in cui suo fratello si era gettato dal tetto del Bart’s, tre anni prima. Sospirò e poggiandogli una mano sulla spalla, indicò la fine del corridoio.
 «Andiamo in bagno.» disse. «Così puoi darti una ripulita.»
 John annuì, senza protestare, seguendolo fino al bagno degli uomini.
 
 John lavò via il sangue dalle mani, poi si tolse il maglione – ormai inutilizzabile dato che era completamente impregnato di sangue – e lo gettò nell’immondizia rimanendo con indosso soltanto la camicia.
 Una volta finito tornò in corridoio, dove Mycroft lo stava aspettando, la schiena poggiata alla parete, lo sguardo fisso sul pavimento, la giacca del medico stretta fra le mani.
 Quando il politico lo vide, sollevò il capo. «Ti senti meglio?» chiese immediatamente.
 John annuì. «Sì, molto meglio, grazie.» rispose, stringendosi nelle spalle, sentendo un’improvvisa sensazione di freddo pervadergli le ossa.
 Mycroft gli porse la sua giacca, e John la indossò poi affiancandolo si avviarono nuovamente verso la sala d’aspetto, dove presero posto sulle seggiole in attesa che gli infermieri permettessero loro di vedere Sherlock.
 
 «Dottor Watson?»
 John sollevò il capo, richiamato dalla voce di un infermiere. L’uomo, che indossava ancora il camice che aveva utilizzato in ambulatorio e portava ancora la mascherina appesa al collo, insieme allo stetoscopio, e che non doveva avere più di quarant’anni, si era avvicinato a loro dopo quasi un’ora passata in sala d’aspetto ad attendere notizie.
 «Sì.» rispose prontamente John, mettendosi in piedi. Poi, quando Mycroft lo ebbe affiancato, si voltò e lo indicò, presentandolo al collega. «Lui è Mycroft Holmes, il fratello di Sherlock.»
 «Ah, bene. È riuscito a rintracciarlo.» disse l’infermiere con un sorriso amichevole. Poi si tolse i guanti e li gettò nel cestino dell’immondizia lì accanto. «Sherlock sta bene.» aggiunse, prima che i due potessero fare domande. «Ha una leggera distorsione al polso destro, ma l’abbiamo fasciato in modo da limitarne i movimenti per un po’, in modo che possa ristabilirsi. Per fermare il sanguinamento alla testa abbiamo dovuto dare alcuni punti. Tre alla fronte e sette alla testa.» spiegò, indicando la parte posteriore del capo. «La botta in testa è stata notevole, quindi abbiamo deciso di tenerlo sotto osservazione per una notte, ma domattina potrà tornare a casa.»
 Mycroft e John annuirono.
 «Grazie.» disse Watson.
 «Potete andare da lui, se volete.» disse, indicando il corridoio. «Terza stanza a sinistra.»
 I due annuirono, lo ringraziarono nuovamente e si avviarono verso la stanza. Una volta arrivati di fronte alla porta, si fermarono e John si volse verso il politico.
 «Entra prima tu.» disse.
 Mycroft esitò. «No, dovresti entrare tu.»
 «Mycroft, è tuo fratello, forse dovresti-»
 «Sì, ma tu eri con lui quando è successo.» lo interruppe. «Vorrà sicuramente sapere se stai bene.» fece notare Holmes. «Posso aspettare qui fuori. Vai.»
 John esitò, ma alla fine annuì. «Non ci metterò molto.»
 «Prendetevi il tempo che vi serve.» replicò Mycroft. «Io intanto faccio qualche telefonata per vedere se riesco a scoprire qualcosa su quei video della sorveglianza.» concluse, estraendo il cellulare dalla tasca della giacca e allontanandosi lungo il corridoio.
 John lo osservò ancora per qualche istante, poi entrò. Quando varcò la soglia della stanza e si richiuse la porta alle spalle ci mise qualche secondo ad abituarsi alla semioscurità, ma dopo aver sbattuto più volte le palpebre, ci mise meno di un secondo a individuare il suo migliore amico, seduto sul letto al centro della stanza.
 Non appena aveva udito la porta aprirsi, il consulente investigativo si era voltato verso di lui, incrociando il suo sguardo. Il suo viso, pallido e ferito, si era aperto in un leggero sorriso, esattamente come ogni volta che i suoi occhi si posavano su di lui.
 «John» disse flebilmente e con voce tremante.
 «Sherlock» mormorò John e non appena pronunciò il suo nome, le lacrime gli rigarono le guance. Il suo cuore sembrò divenire più leggero al pensiero che il suo migliore amico stava bene e che si sarebbe ripreso.
 Sherlock allungò un braccio verso di lui e il medico lo raggiunse. Si sedette sul materasso, al suo fianco e si abbracciarono, abbandonandosi per un lungo istante uno alle braccia dell’altro e a quella stretta così famigliare.    
 «Stai bene?» chiese Sherlock, accarezzandogli i capelli.
 «Sì, ed è solo grazie a te.» rispose lui, sussurrando quelle parole sul suo collo. Poi si allontano da lui per incrociare i suoi occhi. «Saresti potuto morire, Sherlock. Come ti è saltato in mente di-?»
 «Quell’auto avrebbe potuto ucciderti.» lo interruppe Holmes.
 «Sì, e ha quasi ucciso te.» replicò John, prendendo il suo volto fra le mani e accarezzandogli gli zigomi. «Se penso che avrei potuto perderti ancora…» scosse il capo e altre lacrime gli solcarono le guance. «Quando ti ho visto sull’asfalto, privo di sensi e ferito, non ho potuto fare a meno di pensare…» abbassò lo sguardo.
 Sherlock, avendo intuito a cosa l’amico stesse pensando, poggiò le mani sopra quelle di lui, ancora poggiate sul proprio viso e sorrise, cercando il suo sguardo. «Ma è andato tutto per il meglio.» assicurò «Me la sono cavata con qualche graffio. E ciò che più importa è che anche tu stia bene. Ok?»
 John sollevò il capo e i suoi occhi agganciarono quelli di Sherlock. «Ok.» rispose.
 Le dita del consulente investigativo accarezzarono quelle del dottore. «Hai le mani gelate, John.» affermò, stringendole leggermente. «Hai freddo? Dov’è il tuo maglione?» domandò poi, avendo notato che indossava solamente la sua camicia e la giacca.
 «Era sporco di sangue.» spiegò. «Ho dovuto buttarlo via. Era davvero irrecuperabile.»
 «Prendi il mio cappotto.» disse quindi Sherlock, indicando l’appendiabiti accanto alla porta, dopo aver accarezzato le guance dell’amico e aver spazzato via le lacrime che le avevano rigate. «Devi riscaldarti.»
 «Sto bene.» assicurò il medico con un mezzo sorriso.
 «John, prendi il mio cappotto.» ripeté Holmes, con tono che non ammetteva repliche.
 John rise sommessamente. «D’accordo.» cedette e si mise in piedi. Raggiunse l’attaccapanni, prese il cappotto e lo indossò, poi tornò a voltarsi verso Sherlock.
 Il consulente investigativo gli sorrise dolcemente. «Ti sta bene.»
 «Smettila.» lo rimbeccò il medico. Tirò i lembi, stringendosi nelle spalle. Poi ebbe un lampo, ricordandosi che Mycroft stava ancora attendendo fuori dalla stanza. «Tuo fratello è qui fuori. Vuoi che lo faccia entrare?»
 Il consulente investigativo annuì, non mostrandosi stupito nel saperlo lì.
 John accennò un sorriso, poi aprì la porta e si sporse nel corridoio, cercando Mycroft con lo sguardo per invitarlo ad entrare. Avrebbe concesso ai due fratello un po’ di privacy, magari andando a prendersi un caffè in previsione della nottata che avrebbe dovuto passare accanto a Sherlock.
 Tuttavia, una volta fuori dalla stanza, vide, con grande stupore, che il corridoio era completamente vuoto. Aggrottò le sopracciglia e dopo qualche secondo rientrò nella stanza, voltandosi verso Sherlock.
 «Se n’è andato.» affermò, chiudendosi la porta alle spalle. «Eppure aveva detto che avrebbe aspettato qui fuori.»
 Sherlock aggrottò le sopracciglia. «Forse è tornato a Baker Street.» ipotizzò.
 «Provo a chiamarlo.» disse John, prendendo il cellulare dalla tasca del pantaloni. Fece scorrere i numeri in rubrica fino a quello del fratello di Sherlock e premette il tasto di chiamata, portandosi poi il telefono all’orecchio.
 Dopo un paio di squilli, però, partì la segreteria.
 John scosse il capo. «C’è la segreteria.» disse. Chiuse la chiamata. «Non capisco. Dove può essere andato? Aveva detto che sarebbe rimasto e che avrebbe voluto vederti. Perché andarsene senza avvertire?»
 «Sicuramente è andato a riposare.» asserì il consulente investigativo. «Dove altro potrebbe essere andato se non a Baker Street?» chiese poi. «Non preoccuparti, John. Sono sicuro che sta bene.»
 John sospirò e alla fine annuì, lasciandosi convincere dalla sicurezza nella voce di Sherlock, riponendo il cellulare in tasca.
 «Dai, vieni qui.» lo esortò Sherlock, allungando una mano verso di lui.
 Watson non poté nascondere un sorriso; si avvicinò all’amico e prese nuovamente posto sul materasso di fronte a lui. Sherlock sollevò una mano e John poggiò la propria contro quella di lui, intrecciando le loro dita, e accarezzando dolcemente quelle dell’amico, osservandone i movimenti lenti e dolci.
 «Resti con me stanotte?» mormorò Holmes.
 John spostò lo sguardo sul viso dell’amico, agganciando i suoi occhi. «Certo che resto.» rispose, accarezzandogli una gamba. «Dove altro potrei andare? Tu sei qui, Sherlock. E io resto con te. Sempre.»
 Sherlock sfiorò la mano che John teneva poggiata sulla sua gamba con la propria. Poi sorrise. «Dove sono io sei tu?» sussurrò teneramente.
 E John la strinse delicatamente ricambiando il sorriso. «Dove sono io sei tu.»
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao ;) come state? Immagino che con questo caldo, proprio come me, vi stiate sciogliendo, perciò ho deciso di allietare la vostra giornata con un po’ di angst e fluff!
No, non ringraziatemi! xD
Non credo ci sia molto da dire su questo capitolo, se non che è di passaggio e che il nostro caro e dolce Charles Augustus Magnussen è tornato alla carica dopo svariati capitoli di assenza… che gioia immensa! ^.^”
Grazie a chi continua a seguire la mia storia, a chi l’ha inserita fra le preferite/seguite/ricordate e a chi trova sempre il tempo di lasciarmi una recensione… non avete idea di quanto sia importante e di quanto mi facciano piacere ♥.♥
Grazie di cuore! ♥ Siete fantastici :)
A lunedì con il prossimo capitolo ;)
Un abbraccio :) Eli♥
 
   
 
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