CAPITOLO
2
Passai
il resto della notte nel salotto,
dormendo sulla poltrona di fronte al camino. Immaginavo che il padrone
fosse
rimasto nella stanza dove conobbi Courtney Wellington, e non sapevo
dove
cercare altre stanze senza sembrare inopportuno. Inoltre, non avevo
intenzione
di cercare e svegliare la serva, LeShawna: non volevo scomodarla
ulteriormente.
Per
mia fortuna, la donna fantasma non invase
nuovamente i miei sogni, e dormì le ore restanti in pace. Il
mio risveglio non
fu, però, altrettanto pacifico.
Quando
aprì gli occhi, alle prime luci
dell’alba, comparve di fronte a me una donna molto giovane,
dalla pelle bianca
come la neve, capelli neri e occhi del medesimo colore. Indossava un
abito che
toccava il pavimento, con le maniche lunghe, senza nessun tipo di
decorazione o
ricamo, color blu notte. Ammisi di non aver fatto una bella figura con
lei:
pensando di essere ancora in sogno e di trovarmi davanti un altro dei
fantasmi
della stanza di Courtney Wellington, scattai in piedi, allontanandomi.
Lei, dal
canto suo, non smetteva di guardarmi in modo truce e spregevole, anche
se
notavo nella sua espressione qualcosa che avevo già visto in
occhi altrui.
La
corvina sbuffò e roteò gli occhi.
“È
ospite di Duncan?” disse annoiata, poi si
girò verso il camino e prese dei contenitori in ceramica che
si trovavano sopra
una mensola “È
stato invitato per il
the?”
Aveva
un portamento molto aggraziato e
elegante, con quel tono che si sforzava di apparire educato, cosa che
avevo
notato spesso nel comportamento di giovani ragazze nobili. Quelle
nobili che
avevano passato la loro vita convinte di aver fatto e visto ogni cosa
possibile
a loro, per poi essersi accorte che le contadine avevano più
libertà. Il suo
vestito troppo semplice per un’aristocratica e
l’irritazione con cui aveva
pronunciato il nome del padrone, senza chiamarlo nemmeno
“Signore”, mi facevano
pensare che fosse una cameriera. Rimasi un po’ di tempo in
silenzio, ragionando
su chi fosse e, di conseguenza, su come trattarla.
Mi
accorsi di non avere ancora risposto
quando la vidi prendere un respiro profondo e appoggiare i contenitori,
per poi
ripetermi con tono sottile e irritato la stessa domanda.
Intuì che non avesse
molta pazienza.
“In
realtà non sono stato invitato per il the
o per il pranzo. Venni a trovare il signore ieri e rimasi qui una
notte, dato
che il percorso di ritorno è molto innevato e io non conosco
ancora bene la
strada. Un the sarebbe comunque gradito, se non le è di
disturbo” mi spiegai
invano, dato che dopo la prima frase la giovane aveva già
riposto i recipienti
sul ripiano, preso un libro da esso e si era seduta sulla poltrona dove
poco
prima dormivo io, per leggere.
La
osservai incuriosito per un po’,
constatando che un ragazza che si prendeva tutte le sue
comodità senza
preoccuparsi di un ospite non potesse essere una cameriera o una cuoca.
Mi
girai con l’intento di uscire nel giardino
e nella stalla per trovare il mio cavallo e un ragazzo che mi aiutasse
a
tornare alla mia villa, ma venni bloccato dalla cuoca che mi aveva
soccorso la
notte prima.
“Mi
spiace, ma mi rifiuto di farla uscire.
Ieri non ha cenato e insisto che rimanga a pranzo qua, non vorrei che
rischiasse di arrivare a casa sua e non trovare il pranzo
pronto” disse facendomi
accomodare su una sedia. Guardò la giovane ragazza pallida,
come se volesse
rimproverarla per la sua scortesia nel non cedermi il suo posto, ma
ella la
ignorò.
Appena
LeShawna sparì in cucina, dalle scale
scese il signor Duncan. La testa china e i capelli lunghi
più spettinati del
giorno prima mi impedivano di vedergli l’espressione, di
conseguenza non sapevo
se potevo rivolgergli la parola senza farlo innervosire. Mi limitai ad
alzarmi,
nel caso volesse sedersi.
“Alzati,
e torna in cucina a preparare il
the” disse alla
ragazza sulla poltrona,
che non alzò nemmeno lo sguardo.
“Non
sono una serva, tanto meno la tua” disse
con tono apatico, girando una pagina del suo libro. Lui non
sembrò gradire
questa risposta.
Appoggiò
una mano allo schienale della poltrona,
mentre si avvicinava a lei.
“Cos’hai
detto?” disse lentamente,
guardandola negli occhi con odio e rabbia. Con mia sorpresa, lei
sostenne il
suo sguardo, fissandolo con lo stesso astio.
“Non
sono la tua schiava, Duncan”
sussurrò
con fare provocatorio.
L’uomo
perse la pazienza, e la afferrò per i
capelli, facendola urlare di sorpresa. La fece alzare dalla sedia e
avvicinare
al suo volto, mentre lei provava a graffiargli con le unghie la mano
che la
teneva. L’urlo richiamò la cuoca, che strinse
adirata il mestolo che aveva in
mano, Chris, che guardava con soddisfazione la scena, e il ragazzo con
gli
occhi verdi della notte prima, che guardava la ragazza con
preoccupazione.
“Finché
tu abiterai a casa mia e io sarò in
vita, sì, sei la mia schiava” le disse con tono
minaccioso. Lasciò la presa sui
suoi capelli, spingendola a terra, per poi andarsene.
Appena
non fu più in vista, il ragazzo dagli
occhi verdi si precipitò al suo fianco. Come con la la
ragazza, guardandolo non
capivo se fosse un ragazzo di rilievo o un semplice contadino.
“Gwen…
Gwendoline… Stai bene?” disse
inchinandosi al suo fianco e offrendole una mano. La signorina
Gwendoline si
era messa seduta, alzandosi con l’aiuto di un braccio, mentre
la mano
dell’altra era tra i suoi capelli, nel punto in cui
l’uomo l’aveva presa.
I
suoi occhi mostravano la tristezza e la
rabbia che quella imposizione su di lei le aveva causato, ma quando
guardò il
giovane cambiarono: vidi riflesso nel suo volto delusione e
disperazione.
“Mi
chiedo perché dovrebbe interessarti,
Trent” sussurrò a bassa voce, alzandosi
“Tu, dopotutto, sei dalla sua parte,
no?” aggiunse, per poi guardarlo con la stessa espressione, e
andarsene.
LeShawna
osservava il tutto con disappunto.
“Mi
spiace che lei debba continuare ad
assistere a scene del genere” mi disse, mentre Trent se ne
andava “Questa non è
una casa molto tranquilla, come ha notato”
“Non
si preoccupi” risposi con un sorriso, ma
pensavo di dovermene andare dalla loro casa il prima possibile.
Riuscì
a convincere la donna a lasciarmi
andare dopo una buona mezz’ora, assicurandole che le mie
cameriere avevano
sicuramente preparato ogni cosa. Quando le dissi il nome di una di
loro, la
donna che si occupava esclusivamente di me mentre dava ordini alle
altre
ragazze affinché ordinassero la villa come si deve, si
convinse a lasciarmi
nelle sue mani. Dedussi che le due si conoscessero già.
Arrivai
con meno fatica e in meno tempo del
pomeriggio prima. Entrai dal cancello, nel mio vasto giardino: era
completamente coperto dalla neve, e vi si trovavano numerosi alberi
ormai
spogli. Immaginai che d’estate e in primavera fosse una
meraviglia, con i fiori
che fiorivano tra le aiuole e i frutti che pendevano dagli alberi.
Mentre
percorrevo il sentiero ghiaioso che
conduceva alla mia entrata, non potevo fare a meno di pensare alla
giovane
Gwendoline. Non doveva avere più di venti anni, anzi,
sospettavo ne avesse
ancora diciassette o diciotto. Aveva una bellezza particolare, che mi
ricordava
vagamente quella del fantasma, ma che allo stesso tempo era
completamente
diversa. Immaginai che fosse la “Gwen” che avevo
trovato nei libri, e, forse,
anche “Gwen Tremblay”. Nei suoi libri non
c’erano scritte a mano, come in
quello dell’altra: i bordi delle pagine erano stati,
però, strappati. Mi chiesi
come mai avesse rovinato i libri in quel modo. Magari per noia, o forse
per
usarli come biglietti. Che avesse, o avesse avuto, un corrispondente
segreto?
Pensai che fosse il ragazzo dagli occhi verdi, Trent. Chissà
invece qual era la
sua storia. Potrebbe essere il figlio del signor Duncan, se fosse un
nobile. O
magari un semplice cameriere o contadino. Sarebbe stata una storia
d’amore
struggente, se il giovane non fosse ricco e fosse il corrispondente
segreto
della donna.
Arrivai
alle porte della mia villa e scesi da
cavallo, che il mio stalliere prese, mentre un altro ragazzo avvertiva
una
delle cameriere del mio arrivo. Appena entrai, lei, che non doveva
avere più di
tredici anni, e sua madre mi vennero incontro, prendendo la mia giacca
bagnata
per la neve e offrendomi una coperta, mentre vedevo una terza donna
attizzare
il fuoco nel camino.
“Signor
Anderson! Pensavamo fosse disperso,
eravamo preoccupati per lei” disse ella, con un tono di voce
molto calmo e
venendomi incontro. Era molto minuta, aveva la pelle bianca, capelli
biondo
chiaro e occhi color cobalto. La sua espressione era molto dolce e
tranquilla,
anche se si notava un accenno di preoccupazione nei suoi occhi.
Indossava un
abito lungo, molto simile a quello di Gwendoline, ma il suo era di un
colore
azzurro-grigio, sporco di cenere e rattoppato in alcuni punti.
“Dovete
scusarmi, Dawn” dissi sorridendole
“Ieri pomeriggio decisi di andare a vedere chi abitava quella
casa di cui tutti
parlano, l’Imperfait, e dove abita il proprietario di casa
mia, ma non
conoscevo bene la strada, perciò quando arrivai era ormai
notte e rimasi a
dormire lì.”
Lei
sembrò stupita dalla mia affermazione, e
aggrottò la fronte.
“Lei
ha incontrato il signor Duncan?”
domandò, avviandosi verso la cucina, supposi per riscaldarmi
il pranzo.
“Sì,
lei lo conosce?” chiesi a mia volta.
“Signor
Anderson, insisto perché lei mi dia
del ‘tu’” mi ammonì
“E, sì, conosco il padrone. In realtà,
io ho vissuto con
lui e la famiglia Wellington: mia madre, a quei tempi, era la loro
cameriera e
noi abitavamo con loro. All’età di otto anni
cominciai a lavorare anch’io,
anche se mi era permesso molta libertà, visto che ero
piccola, e perché il
signor Wellington insisteva perché io giocassi con i suoi
figli. Lavorai per
loro per tutta la mia vita, fino a poco tempo fa. Così,
posso dire di essere
tra le poche persone che conoscono la famiglia Wellington
così come si mostrava
all’interno delle mura di casa.” Rispose con
semplicità e un po’ di orgoglio.
La
guardai mentre accendeva il fuoco dei fornelli.
Doveva avere la stessa età del padrone di casa, ma non li
dimostrava affatto.
“Potrei
chiederti un favore, cara Dawn?”
dissi sedendomi alla tavola, mentre lei versava in un piatto la
minestra calda
da lei preparata. Mi guardò accigliata ed annuì.
“Vorrei
che lei mi raccontasse di loro:
vorrei sapere del signor Duncan, di quella donna, Courtney, che la
notte
precedente cercava di richiamare dall’aldilà e
della giovane Gwendoline, che
sembra così infelice in quella casa.”
La
bionda si sedette di fronte a me, appoggiò
il mento al palmo della mano e guardò il soffitto pensierosa.
“Padrone,
io posso dirle tutto quello che
vuole sapere del signor Duncan tranne da chi è nato e come
ha guadagnato i
primi soldi” rispose con voce sommessa “sarebbe un
piacere raccontarle questa
bella, seppur drammatica, storia. Ma mi permetto di rimandare a questa
sera,
dato che dovrò comunque svolgere i miei abituali lavori. Le
porterò la cena in
camera sua, e, se vorrà ancora sentirmi, sarò a
vostra disposizione”
Detto
questo, si alzò con un inchino e se
andò al piano di sopra, seguita dalla bambina che prima mi
aveva portato una
coperta.
Passai
le seguenti ore leggendo vari
contratti commerciali che mi ero portato dalla mia casa a Toronto.
Erano una
delle poche cose che avevo portato con me, mentre il resto delle mie
ricchezze
venivano portati a me da alcuni fidati lavoratori. Non potevo aspettare
il loro
arrivo per rimettermi a lavoro.
Nonostante
cercassi con tutta la mia volontà
di concentrarmi su quei fogli, la mia mente era altrove, trasportata
dalla
curiosità per il sentire la storia, e mi rendeva difficile
capire certe frasi.
Ci misi parecchie ore prima di finire
di
leggere e scrivere delle lettere in cui spiegavo ciò che
andava cambiato nei
contratti, e con mio grande piacere era ormai sera. Non sarei comunque
riuscito
a lavorare di più, con il pensiero della storia di Courtney
che mi perseguitava.
Appena
scoccarono le sette, mi recai in
camera mia, dove trovai un vassoio con la cena di quel giorno sopra un
comodino.
Mi sedetti sul morbido letto, cominciando a mangiare e aspettando Dawn.
Arrivò
poco dopo, con sé una sedia.
“Mi
chiedevo quando saresti arrivata. La
curiosità mi consuma e non riesco a pensare ad
altro” le dissi, mentre si
sedeva. Lei sorrise.
“Non
so se la storia sarebbe di vostro
gradimento, ma se insistete cercherò di ricordare quanti
più particolari
possibili”
Mi
misi comodo e le sorrisi dicendole di
cominciare. Lei prese la tazza di the in più che aveva
appoggiato insieme alla
mia cena, e cominciò.
“Come
le ho già detto, ho vissuto con la
famiglia Wellington per quasi tutta la mia vita.
Il
padrone di casa, a quei tempi, era il
Signor Wellington, l’ultimo della sua famiglia che nacque in
Inghilterra. Devon
Joseph Wellington era uno degli uomini più magnanimi e
giusti che io abbia mai
avuto l’onore di conoscere: era un importante uomo
d’affari, ma nonostante
questo non si comportava come un uomo superiore, ed era solito aiutare
le
persone meno fortunate di lui. Mi ritengo molto fortunata ad essere
cresciuta
con il Signor Wellington, che mi trattava come se fossi sua nipote.
Un’altra
caratteristica importante del padrone era che amava i suoi figli come
amò la
sua defunta moglie, e questo affetto non cambiò mai nel
tempo.
Egli
aveva due figli: Courtney e Alejandro
Wellington.
Alejandro
aveva due anni in più di me e sua
sorella, e si comportava già come un principe. Aveva una
bella carnagione
abbronzata, occhi scuri e teneva i capelli mori più lunghi
di quanto fossero
soliti fare i suoi coetanei. Si era sempre comportato in modo piuttosto
egocentrico, elegante e superiore, come vedeva fare dagli amici del
padre che
venivano spesso a trovarlo. Era un ragazzo orgoglioso e consapevole del
potere
che la sua famiglia aveva. Si sentiva in diritto di poter fare ogni
cosa, ma lo
faceva con cautela. Una sua caratteristica che sfruttava sin da bambino
era la
furbizia: riusciva a fare ogni cosa volesse di nascosto, riusciva a
convincere
e ricattare chiunque in poco tempo. Era un ragazzo molto persuasivo, e
sapeva
di certo giocare le sue carte.
Courtney,
da bambina, non era così. Il suo
aspetto ricordava molto quello del fratello, se non per alcune
lentiggini e i
capelli un po’ più chiari. Lei, al contrario suo,
preferiva tenerli corti,
anche se non è una capigliatura usata dalle ragazze di un
certo rilievo. Possiamo
dire che non c’era cattiveria nel suo cuore. Mi permetto di
dire che era
semplicemente stata viziata, ma all’inizio, Anderson, la
piccola Courtney
sembrava tutto tranne che una piccola nobile. Si divertiva a giocare
con me nei
giardini, non preoccupandosi della fine che facevano i suoi abiti,
imparò in
poco tempo a scavalcare le mura e se gliel’avesse chiesto
qualcuno, lei avrebbe
offerto volentieri il suo aiuto.
Un
giorno, quando la moglie era ormai defunta
da tempo, il signor Wellington tornò da un viaggio di due
settimane nella
capitale.
Io
e i due bambini lo aspettavamo al
cancello, ansiosi, e quando scese dalla sua carrozza, con il suo solito
sorriso
bonario in volto, i due bambini gli corsero incontro, abbracciandolo e
frugando
nelle sue tasche sperando di trovare qualche giocattolo.
Loro
padre si inchinò al loro livello e diede
loro i loro regali per calmarli, per poi dire a qualcuno che era nella
carrozza
di scendere.
Si
affiancò a lui un bambino che avrà avuto
l’età di Alejandro, con la pelle pallida, gli
occhi verdi e i capelli neri. Non
apriva bocca e teneva lo sguardo puntato a terra.
“L’ho
trovato durante il viaggio di ritorno.
È orfano ed è senza nome. D’ora in poi
lui resterà con noi ed esigo che voi lo
trattiate come un fratello.” Ci disse lui.
Courtney
fu la prima ad avvicinarsi. Lo
salutò allegramente, ottenendo che lui alzasse lo sguardo
verso di lei.
“Si
chiamerà Duncan” aggiunse il Signor
Wellington. Courtney sorrise nuovamente, mentre io e Alejandro
restavamo in
disparte, lui guardandolo in modo truce.
Wellington
tornò in casa accompagnato da due
cameriere, mentre uno stalliere si occupava del cavallo che trainava la
carrozza, e noi rimanemmo soli con Duncan.
ANGOLO
ME
E
niente, torno a
caso dopo 5 mesi.
Spero
vi piaccia.
-Akai
Hasu