Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    19/06/2017    1 recensioni
Sono tante le cose che si fanno per amore.
E Mycroft Holmes lo sa bene, anche se non riesce a comprendere cosa spinga le persone a gesti tanto estremi.
Ha visto suo fratello gettarsi da un tetto per proteggere i suoi amici da James Moriarty, rinunciare alla sua vita per due anni per proteggere John Watson, prendersi un proiettile per il suo migliore amico, morendo per mano di sua moglie, soltanto per saperlo al sicuro.
E tutto solo per amore. Quel sentimento che per Mycroft sembra così complicato da comprendere.
Tuttavia, quando Magnussen arriverà a minacciare Sherlock, sarà proprio l’amore a spingere Mycroft a offrirsi al suo posto, mettendo a rischio la propria vita e la propria libertà, per preservare quelle del suo fratellino. La persona che Mycroft Holmes ama più della sua stessa vita.
Perché l'amore ci spinge dove non ci saremo mai aspettati di poter arrivare.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Amore
 
 
Capitolo VIII
Per Sherlock e John

 
 
 Mycroft raggiunse la villa di Magnussen che era ormai quasi mezzanotte. Tuttavia sapeva che lo avrebbe trovato sveglio ad attenderlo.
 Infatti, non appena ebbe pagato il tassista ed ebbe chiuso la portiera dell’auto, il cancello automatico della villa si aprì, senza nemmeno bisogno di suonare il campanello.
 L’uomo prese un bel respiro ed entrò, percorrendo il vialetto con passo spedito.
 Una volta raggiunta la porta d’ingresso, questa si spalancò e uno degli uomini di Magnussen lo invitò ad entrare con un poco amichevole cenno del capo.
 Il politico varcò la soglia e senza nemmeno attendere le indicazioni dell’uomo, si avviò verso il salotto, dove sapeva avrebbe trovato Magnussen ad attenderlo.
 L’uomo era in piedi di fronte alla finestra, le mani giunte dietro la schiena, lo sguardo puntato verso l’esterno della villa, e non appena Mycroft varcò la soglia, sul suo viso si dipinse un sorriso, che si rifletté sul vetro della finestra.
 «Sapevo che sarebbe arrivato, signor Holmes.» esordì.
 Holmes strinse i pugni. «È stato lei.» disse. «Non è stato un incidente.»
 Magnussen si voltò e incrociò il suo sguardo. «Cosa glielo fa pensare?» domandò con un sorriso malizioso e aria di sfida.
 «Sarebbero potuti morire.» ringhiò Mycroft, muovendo un passo verso di lui, sentendo la rabbia divampare in lui. «Avrebbe potuto ucciderli entrambi!»
 L’altro assottigliò lo sguardo. «Ed eccolo qui il suo cuore che si mostra in tutta la sua pienezza.» replicò, poi si avvicinò, fermandosi a pochi passi da lui, puntando gli occhi in quelli del politico. «In ogni caso, vorrei ricordarle che se lei fosse venuto da me come avevamo stabilito, tutto questo non sarebbe mai accaduto.»
 Mycroft serrò la mascella.
 «Ma considerato che adesso è qui, devo presumere che abbia cambiato idea?»
 Holmes abbassò lo sguardo. Chiuse gli occhi.
 Per Sherlock, si disse. Per Sherlock e John.
 «Molto bene.» aggiunse Magnussen. «Mi segua.» e si avviò fuori dalla stanza, seguito da Mycroft.
 
 Il giorno seguente, Mycroft tornò a Baker Street per l’ora del tè.
 Trovò Sherlock e John in salotto, seduti sul divano, intenti a bere un tè e a parlottare fra loro. Erano seduti uno di fronte all’altro, così vicini da toccarsi, le gambe riparate da una coperta pesante, incrociate sul divano, le braccia distese sulla spalliera, dove le loro mani si stavano accarezzando e le loro dita si intrecciavano e giocherellavano distrattamente.
 Non appena John lo vide entrare, si bloccò, zittendosi e puntando lo sguardo sul suo viso.
 Mycroft pregò che nessuno dei lividi lasciati da Magnussen fosse visibile. Era riuscito a nasconderli tutti sotto gli abiti, ma sarebbe bastato un singolo movimento per rivelarli. E di certo non poteva permetterselo un’altra volta.
 Sherlock, che stava dando le spalle alla porta, accortosi della reazione improvvisa di John, si voltò. I suoi occhi si spalancarono per la sorpresa e Mycroft vi lesse allo stesso tempo sollievo nel saperlo lì. Probabilmente, la sera prima, quando aveva lasciato l’ospedale senza avvertirli lo aveva fatto preoccupare. E non poco.
 Osservandolo non poté fare a meno di notare i punti sul sopracciglio, le ferite sul volto e la fasciatura alla mano. E non riuscì a non pensare al fatto che tutto ciò fosse stato causato da Charles Augustus Magnussen. E dal suo rifiuto di tornare da lui. 
 «Mycroft» disse il minore, vedendolo fermo sulla porta. Scostò la coperta e si mise in piedi, forse troppo velocemente, dato che barcollò leggermente sulle gambe, portandosi una mano alla fronte e chiudendo gli occhi, improvvisamente pallido.
 John gli fu accanto in un attimo. «Ehi, piano.» disse, poggiandogli una mano sulla schiena e reggendolo per un braccio, cercando il suo sguardo. «Hai subito un trauma cranico, devi prestare più attenzione.»
 Il consulente investigativo fece un paio di respiri profondi, poi annuì, riaprendo gli occhi e incrociando per qualche secondo lo sguardo del suo migliore amico.
 «Sto bene.» assicurò.
 «John, ha ragione, mettiti seduto e riposati.» aggiunse Mycroft. Non aveva voglia di parlare o di essere sottoposto a un interrogatorio da parte del fratello, com’era successo quella mattina da parte della segretaria. Anthea era riuscito a gestirla sotto la minaccia di un licenziamento, ma con suo fratello non sarebbe stato altrettanto semplice.
 I due coinquilini si voltarono verso di lui.
 «Dove sei stato?» chiese Sherlock.
 «Al lavoro.» rispose il politico con ovvietà, sapendo tuttavia che suo fratello si stava riferendo alla sera precedente e non a quel giorno.
 Il fratello gli rivolse uno sguardo di rimprovero. «Intendo ieri sera.» replicò. «Sei sparito dall’ospedale e non hai risposto alle chiamate di John. Eravamo preoccupati.»
 Mycroft scosse il capo. «Ero stanco e sono tornato qui per riposare.» spiegò, tentando di suonare convincente. «Si era fatto tardi e ho pensato che volessi riposare anche tu dopo ciò che era successo. E in ogni caso c’era John a prendersi cura di te. E lui sa farlo in maniera egregia. Molto meglio di quanto farei io.»
 «Avrei voluto vederti comunque.» disse Sherlock, con grande sorpresa del fratello maggiore.
 «Sono qui, ora.» rispose Mycroft. Doveva andarsene di lì prima che trapelasse qualcosa o che suo fratello avesse il tempo di dedurre, e poi allontanarsi con una scusa per raggiungere Magnussen prima che avesse il tempo di mettere in atto qualche altro piano per fare del male a Sherlock o a John. «Adesso scusate, ma ho davvero bisogno di farmi una doccia. Mi aspettano per una cena di lavoro.» concluse e detto questo si voltò per avviarsi verso il bagno.
 «Myc?» lo chiamò il consulente investigativo. «C’è qualcosa che non va?»
 Il politico si bloccò. Dio, suo fratello non usava quel nomignolo da anni.
 «Dovrebbe esserci?» chiese di rimando, senza voltarsi.
 «Non lo so.» rispose il minore. «Ti comporti in modo strano. Sei sicuro che vada tutto bene?» chiese ancora. «Perché se non fosse così, potresti prenderti un periodo di ferie e potremmo, non lo so… lasciare Londra per un po’.» propose, esitante.
 Mycroft strinse i pugni.
 «Forse allontanarti da tutto questo potrebbe aiutare.» proseguì il consulente investigativo, avanzando verso di lui, parlando con calma, quasi avesse paura che quelle parole potessero spaventarlo. «Con gli incubi e tutto il resto.»
 Holmes si voltò di scatto. «Aiutare chi?» sbottò duramente, tornando sui suoi passi per fronteggiare sul fratello. «Me? O voi?» chiese. «Perché è questo il problema, vero? Che sto rendendo la vostra vita un inferno e che sono un peso.»
 «Non ho detto questo.»
 «Non l’avrai detto ma è proprio questo che intendi.» sibilò. «Altrimenti perché farmi questa strana richiesta proprio adesso?»
 Il volto di Sherlock venne attraversato dal dolore e dalla confusione. «Mycroft, io non volevo dire-»
 Il maggiore scosse il capo e sollevò una mano per bloccarlo prima che potesse aggiungere altro. «Non c’è bisogno che tu dica altro, fratellino.» aggiunse, una nota di disprezzo nella voce. «Posso fare le valigie stasera stessa. Torno a casa: in questo modo non dovrete più occuparvi di me come se fossi un animale ferito.»
 «Mycroft, noi non ti stiamo cacciando.» disse John, affiancando uno Sherlock senza parole. «E nessuno di noi ha mai pensato che fossi un peso. Altrimenti non ti avremmo mai chiesto di venire a stare da noi, non credi?»
 «Risparmia il fiato, John.» lo zittì Mycroft, rivolgendogli un’occhiataccia. «Le tue parole non significano nulla. Sherlock ha già espresso perfettamente il concetto. E in ogni caso ormai ho deciso: non resterò qui un secondo di più.» e detto questo si voltò e si avviò verso la stanza che condivideva con Sherlock da quasi un mese.
 «Perché ti comporti così?» esplose Sherlock.
 Quelle parole inchiodarono Mycroft a metà del corridoio.
 «Cosa ti abbiamo mai fatto, a parte prenderci cura di te e darti una mano quando ne hai avuto bisogno? Quale torto ti abbiamo fatto?» aggiunse, alzando la voce. «Come puoi dire una cosa del genere sapendo che sono tutte bugie, e che sia io che John teniamo a te?»
 «Sherlock, calmati» sussurrò John.
 «Avete davvero un bel modo di dimostrarlo.» replicò Mycroft con una risatina, imponendosi di mantenere un tono freddo e distaccato, volgendosi verso il fratello per rivolgergli un’occhiata priva di qualsiasi emozione.
 «Come puoi dire una cosa del genere, ingrato che non sei altro?!» ringhiò Sherlock, gli occhi lucidi e il volto sempre più pallido. Barcollò leggermente sulle gambe, ansimando, portandosi una mano alla fronte.
 John lo trattenne per un braccio. «Sherlock, basta. Tranquillizzati.» lo pregò. «Non ti fa bene agitarti in questo modo. Siediti, ti prego.»
 Sherlock risollevò il capo, puntando lo sguardo sul viso del maggiore e Mycroft capì che era deciso a non arrendersi.
 «Capisco quanto tu stia soffrendo, Mycroft.» aggiunse, liberandosi dalla presa del medico e avanzando, ignorando il tremore alle gambe. «Ma non lasciare che Magnussen distrugga quella parte di te che ti rende umano.»
 Mycroft lo raggiunse, fermandosi a pochi passi da lui. «L’idea che Moriarty potesse aver ragione non ti ha mai sfiorato?» chiese. «Forse io non ho una parte umana. Forse sono davvero l’uomo di ghiaccio che tutti credono io sia.»
 «No, non è vero.» replicò Sherlock. «Sei mio fratello, ti conosco. So come sei veramente. So che hai un cuore e so che Magnussen l’ha spezzato. E noi siamo qui per te. Per aiutarti a rimetterlo insieme.»
 Mycroft rise, senza tuttavia mostrare segni di divertimento. «Sono tutte idiozie, Sherlock, e lo sai.» sibilò. «Soltanto perché qualche sentimento diverso dall’adrenalina che provavi durante la caccia ai criminali ti ha scaldato il cuore, questo non significa che debba capitare a tutti.»
 Sherlock strinse i pugni, trattenendo a stento la rabbia. «Sei incredibile.» sbottò. «Solo qualche sera fa eri distrutto e in lacrime dopo l’ennesimo incubo riguardo ciò che Magnussen ti aveva fatto passare, e adesso vuoi negare che sia così?»
 «Non sto negando che sia così.» ringhiò Mycroft, sperando che almeno quelle parole potessero convincere il fratello a desistere dal perseguire in quella futile discussione. «Ma farsi consumare dai sentimenti è inutile. Per tutta la vita non ho fatto altro che ripeterti che i sentimenti sono il difetto chimico della parte che perde. E questa ne è la prova.» concluse. «Guardami. Tutto questo è il risultato di tutti i sentimenti che ho deciso di provare… se li avessi accantonati, niente di tutto questo sarebbe successo. Avrei potuto tranquillamente continuare con la mia vita, senza problemi, anche con Magnussen fra i piedi.»
 I due coinquilini vennero colpiti da quell’affermazione come da un pugno in pieno viso.
 «Mycroft, quello che è successo non è stata colpa tua o dei tuoi sentimenti.» disse John, incredulo. «È di Magnussen la colpa. Chiunque avrebbe reagito come hai fatto tu. È perfettamente normale.»
 «Forse per persone come te.» replicò il politico, freddamente. «Non per persone come me o Sherlock, il cui cervello dovrebbe guidare il proprio cuore e non vice versa.»
 Sherlock scosse il capo. «Smettila.»
 Mycroft tornò a voltarsi verso di lui. «Perché? La verità fa troppo male, forse, fratellino?» chiese. «Perché tu sai di essere come me, non è vero?» disse. «Soltanto perché il dottor Watson ti ha scaldato il cuore non significa che potrai essere una persona diversa da quella che sei sempre stata e che sempre sarai… un freddo calcolatore senza sentimenti.»
 Fu in quell’istante, dopo aver pronunciato quelle parole, che Mycroft poté udire perfettamente il cuore di suo fratello andare in frantumi.
 Gli occhi di Sherlock si colmarono di lacrime, che gli rigarono le guance tracciando solchi profondi sulla sua pelle pallida e martoriata da ferite. Il consulente investigativo indietreggiò, trattenendo a stento un singhiozzo strozzato, il corpo che tremava in preda allo shock.
 «Sherlock…» tentò di dire John, poggiandogli una mano sulla spalla.
 «Vattene» gemette. «Vai via, Mycroft. Vattene.»    
 Mycroft, non se lo fece ripetere due volte: si voltò e raggiunse la stanza di Sherlock, chiudendosi la porta alle spalle. Raccolse rapidamente la sua roba e, dopo averla infilata in un borsone, si avviò fuori dalla stanza, attraversando velocemente il corridoio.
 Non si fermò, né esitò prima di avviarsi giù per le scale, ma prima di lasciare l’appartamento ebbe il tempo di vedere che John aveva nuovamente preso posto accanto a Sherlock, sul divano, e che gli stava accarezzando la schiena per rassicurarlo, mentre suo fratello singhiozzava convulsamente, scosso dalle lacrime.
 Mycroft si impose di voltarsi e continuare a camminare. Scese velocemente le scale e uscì dalla palazzina, lasciandosi alle spalle Baker Street, suo fratello e il dottor Watson.
 L’autista, come d’accordo, lo stava aspettando di fronte a casa, dove aveva accostato poco prima per farlo scendere dall’automobile.
 Il politico salì in auto e si chiuse la portiera alle spalle, chiedendogli di portarlo alla sua villa, poi, senza aggiungere altro, chiuse il finestrino che univa i sedili posteriori a quelli anteriori e affondò la schiena nei sedili, chiudendo gli occhi ed esalando un lungo respiro.
 Fu in quel momento che le lacrime gli rigarono le guance.
 Al solo pensiero di aver spezzato il cuore di suo fratello e quello di John con ciò che aveva appena detto provò una fitta così potente al cuore che trattenne a stento un gemito di dolore.
 Inizialmente aveva pensato di comunicare ai due coinquilini che sarebbe semplicemente tornato a casa sua per restituire ad entrambi la loro privacy, dato che si sentiva meglio e avrebbe potuto cavarsela da solo, mettendo la casa sotto stretta sorveglianza.
 Poi quel pomeriggio aveva capito che non avrebbe mai convinto né Sherlock né John a lasciarlo andare. L’unico modo sarebbe stato fargli credere di volersene andare perché entrambi, con il loro comportamento e le loro parole, l’avevano ferito facendolo sentire inutile e che invece di aiutarlo non avevano fatto altro che peggiorare la situazione.
 Eppure, quando aveva visto le loro espressioni ferite e aveva sentito suo fratello singhiozzare dopo ciò che aveva detto, aveva sentito il suo cuore spezzarsi per l’ennesima volta in quelle settimane.
 Era stato crudele. Un vero mostro. Ma era stato necessario. L’aveva fatto per proteggere Sherlock e John dalla furia cieca di Magnussen.
 Doveva impedire che questa volta suo fratello si immischiasse fra lui e quel mostro. E se spezzargli il cuore fosse stato l’unico modo per impedire che suo fratello avesse a che fare con lui e si facesse del male, allora avrebbe dovuto accettarlo.
 Perché proteggere Sherlock e John era la sua priorità.
 
 John era seduto sul divano accanto a Sherlock e stava osservando l’amico, immobile accanto a lui, lo sguardo fisso sulle fiamme, le gambe strette al petto e il viso una maschera priva di emozioni.
 Il consulente investigativo era fermo in quella posizione da più di un’ora, ormai, da quando Mycroft aveva lasciato l’appartamento, probabilmente per non farvi più ritorno. Non aveva proferito parola per tutto il tempo, nemmeno dopo aver smesso di singhiozzare. Si era chiuso nel più completo silenzio e nell’immobilità, come se le parole di Mycroft lo avessero bloccato all’interno della sua mente.
 Non era strano che i due fratelli discutessero, certo, ma questa volta era stato diverso, anche John lo aveva percepito. Qualcosa fra loro si era spezzato, ed era accaduto quando Mycroft aveva rifiutato l’aiuto di Sherlock, accusandolo di essere un freddo calcolatore senza sentimenti, incapace di provare emozioni. 
 «Ehi, ragazzi, posso entrare?» la voce di Lestrade irruppe nell’appartamento all’improvviso, ridestando il medico dai suoi pensieri e riportandolo alla realtà.
 John sollevò il capo, volgendo lo sguardo verso la porta. Incontrò lo sguardo dell’Ispettore, fermo sulla soglia, in attesa.
 «Ciao, Greg.» disse. «Vieni, entra.»
 «Che succede?» domandò Greg, accorgendosi di quanto Sherlock fosse pallido e del fatto che non sembrasse essersi accorto della sua presenza. Varcò la soglia e si fermò al suo fianco, cercando il suo sguardo. «Sta male?»
 Watson si mise in piedi, cercando rapidamente una spiegazione credibile a quel comportamento. Non avevano raccontato la verità riguardo Mycroft e ciò che era accaduto con Magnussen, perciò non poteva certo dire a Lestrade tutta la verità riguardo ciò che era successo quel giorno.
 «Ehm…» esitò, tirando Greg da parte, verso la cucina. «Mycroft ha deciso di tornare a casa sua, e hanno litigato. Sherlock credeva che non fosse il caso dopo essere stato così male, ma Mycroft non ha voluto sentire ragioni.» spiegò, gettando uno sguardo alle spalle, verso il consulente investigativo. Avevano raccontato a tutti che Mycroft aveva avuto un malore e che i medici avevano consigliato di tenerlo sotto controllo almeno per le prime settimane dopo essere stato dimesso dall’ospedale. «E forse era ancora sotto shock dopo ciò che è successo ieri.» aggiunse, sperando che potesse essere una spiegazione abbastanza plausibile. Tornò a voltarsi verso il poliziotto, incrociando i suoi occhi color cioccolato.
 «Fortunatamente è andato tutto bene.» concluse Greg, poggiandogli una mano sulla spalla con fare rassicurante, dandogli una gentile pacca sulla nuca. «Tu sei sicuro di star bene, John?»
 John annuì. «Ed è solo grazie a Sherlock.» fece notare. «Se non fosse stato per lui-»
 Un gemito improvviso lo interruppe, facendolo voltare verso il salotto.
 Sherlock aveva poggiato i piedi sul pavimento e aveva il corpo chino il avanti, una mano poggiata sulla tempia e gli occhi serrati.
 «John…» singhiozzò con voce rotta.
 Il medico lo raggiunse in un attimo. «Che succede?» chiese inginocchiandosi di fronte a lui e poggiandogli le mani sui fianchi, accarezzandoli. «Senti dolore?»
 «La testa…» si lamentò e le lacrime gli rigarono le guance. Gemette dal dolore, stringendo i denti, singhiozzando convulsamente.
 «Dove ti fa male?» chiese John, accarezzandogli il viso. «Fammi vedere dove.»
 Sherlock si portò una mano alla fronte e alla nuca. Il suo viso venne attraversato da una smorfia di dolore. Gemette, sempre più pallido, chinandosi in avanti.
 «Fa male…» si lamentò con voce rotta.
 «So che fa male, Sherlock.» disse il medico, accarezzandogli la schiena. «È il trauma cranico. Hai sbattuto la testa molto forte. È normale. Il medico aveva detto che sarebbe potuto capitare.» spiegò, asciugandogli le guance con le dita. «Adesso ti prendo degli antidolorifici.»
 Prima che John potesse mettersi in piedi, Sherlock prese a respirare affannosamente, reggendosi lo stomaco e ansimando.
 «Cosa c’è?» domandò John.
 «Ho la nausea…» mormorò Holmes con voce impastata.
 «D’accordo, andiamo in bagno.» disse il dottore, poi si voltò verso Lestrade, ancora in piedi accanto a loro. «Greg, puoi darmi una mano?»
 «Certo.» rispose lui e si avvicinò, aiutando John a mettere Sherlock in piedi, reggendolo per i fianchi.
 I due lo guidarono fino in bagno, camminando lentamente per non fargli perdere l’equilibrio. Una volta dentro, lo aiutarono a inginocchiarsi sul pavimento accanto alla tazza. Greg si scostò, lasciando spazio a John, che si avvicinò all’amico, inginocchiandosi al suo fianco.
 Nello stesso istante, Sherlock si chinò sulla tazza e vomitò. Tossì convulsamente e a lungo, tremando, in preda alle lacrime e ai singhiozzi che avevano ripreso a scuoterlo.
 John rimase seduto accanto a lui, accarezzandogli la schiena e i capelli per lungo tempo, attendendo che i conati smettessero di scuoterlo violentemente, e quando cessarono gli porse un bicchiere d’acqua per sciacquarsi la bocca.
 Sherlock sputò e tirò lo sciacquone, poi prese posto sul pavimento, poggiando il capo contro la parete, esausto.
 John prese un asciugamano dall’armadietto sotto il lavandino e gli asciugò il viso, madido di sudore e lacrime. «Va meglio?» domandò, sedendosi accanto a lui e prendendogli la mano.
 Sherlock annuì, nonostante le lacrime che gli stavano rigando le guance e i leggeri tremori che stavano scuotendo il suo corpo.
 «Vuoi andare nella tua stanza?» chiese Watson. «Puoi metterti a letto se sei stanco.»
 Holmes scosse il capo, poi si lasciò scivolare in grembo all’amico, rannicchiandosi contro di lui per cercare calore, chiudendo gli occhi.
 Il dottore circondò il suo corpo con le braccia e lo strinse a sé, poi sollevò lo sguardo su Lestrade, sospirando. «Non sei costretto a rimanere, Greg.» sussurrò. 
 «Sei sicuro?» chiese lui, accovacciandosi di fronte a loro e accarezzando i capelli del consulente investigativo. «Se ti fa sentire più tranquillo posso dormire sul divano.»
 John scosse il capo, accarezzando il petto dell’amico. «Va tutto bene.» assicurò. «Non ce n’è bisogno. Ti chiamo se abbiamo bisogno di qualcosa.» concluse con un mezzo sorriso. «Grazie comunque. Sei molto gentile.»
 «D’accordo.» concesse Greg, mettendosi in piedi. «Fammi sapere.»
 Watson annuì. «Buonanotte, Greg.»
 Lestrade sorrise e uscì.
 
 Per lunghi minuti, John e Sherlock rimasero immersi nel più completo silenzio, rotto soltanto dal rumore dei loro respiri e dagli ansiti leggeri del consulente investigativo, ancora stretto fra le braccia del medico, che gli stava accarezzando i capelli e il petto, con il capo poggiato alla parete dietro di sé.
 A romperlo fu proprio Sherlock, che in lacrime, rivolse una domanda al dottore.
 «Credi che io sia un freddo calcolatore?» sbottò, rompendo la quiete calata sulla stanza.
 John sentì il cuore fermarsi nel petto. «Come?» chiese, spiazzato, chinandosi in avanti.
 «Credi che io non sappia provare sentimenti?» aggiunse Sherlock, tremando leggermente contro di lui, mentre le lacrime si facevano strada lungo le sue guance, infrangendosi sul pavimento. «Che non sia in grado di provare nulla?»
 «No, Sherlock, non lo penso.» rispose John, scuotendo il capo, aumentando inconsapevolmente la stretta di quell’abbraccio. Com’era possibile che le parole di Mycroft fossero riuscite ad attecchire nella mente di Sherlock? Erano talmente assurde… non credeva che l’amico potesse averci creduto davvero. Eppure… «Tu lo pensi? Credi di non essere in grado di provare sentimenti?» chiese, volendo capire il perché di quella domanda.
 «Io…» Sherlock esitò.
 John gli accarezzò il petto. «Sherlock…» disse. «Non crederai sul serio a ciò che ha detto Mycroft?» chiese. «Sai anche tu che non è così. Sai bene di essere umano anche tu.»
 Holmes non rispose.
 «Sherlock, guardami.» disse John, liberandolo dalla sua presa e aiutandolo a mettersi nuovamente seduto sul pavimento. Sollevò il suo volto con due dita, in modo da poterlo guardare negli occhi e quando i loro sguardi si incrociarono, John spostò la mano sulla sua guancia, sfiorandogli lo zigomo con il pollice, spazzando via le lacrime che gli avevano rigato il viso. Si mosse in avanti, avvicinandosi a lui, in modo che i loro corpi e i loro visi fossero a poca distanza l’uno dall’altro. «Cosa provi quando siamo insieme e quando siamo vicini?»
 Sherlock circondò il polso di John con le dita accarezzando la sua pelle, facendo saettare lo sguardo dai suoi occhi alle sue labbra per un lungo istante. «Io… non lo so. È difficile da spiegare.» esordì, agganciando i suoi occhi. Scosse il capo, abbassando lo sguardo. «Tu mi fai stare bene…» l’angolo delle sue labbra si sollevò, increspandole in un sorriso, come se un ricordo felice si fosse materializzato nella sua mente. «E quando ti vedo…»
 Il medico sorrise dolcemente, toccato da quelle parole. 
 «Quando ti vedo riesco a dimenticarmi per un momento di essere Sherlock Holmes, l’uomo che tutti disprezzano e divento... solo Sherlock. Lo Sherlock che vedi tu.» spiegò, incrociando nuovamente il suo sguardo. «Tu mi fai sentire l’uomo che ho sempre voluto essere.»
 John sentì il cuore accelerare.
 Sherlock sollevò una mano, sfiorando il viso dell’amico, percorrendolo con gli occhi, tracciandone ogni particolare con le dita e con lo sguardo. «Tu mi rendi felice.» sussurrò. «Mi fai battere il cuore come nessun altro era mai riuscito a fare. Cuore che neanche pensavo di non avere fino a poco tempo fa.» precisò ridendo sommessamente, scatenando la risata di John. «Mi fai sorridere soltanto guardandomi. Mi capisci senza bisogno di parole. E soprattutto mi ascolti. Mi ascolti davvero. Perché ti importa realmente di me e di ciò che penso.» 
 Il medico rimase in silenzio per qualche secondo, osservando il volto del suo migliore amico e i suoi occhi colmi di dolcezza e di sincerità. Alla fine sorrise teneramente, sfiorandogli il viso con una mano.
 «E questo secondo te sarebbe essere un freddo calcolatore?» chiese. «Credi veramente che qualcuno incapace di provare sentimenti sarebbe in grado di sentire tutto questo?»
 Holmes abbassò lo sguardo.
 John gli pose due dita sotto il mento e sollevò il suo viso in modo che i loro sguardi potessero incrociarsi. «Io non credo.» rispose per lui. «Per questo so per certo che Mycroft si sbaglia.» concluse. Poi gli sorrise dolcemente e lo tirò verso di sé, stringendolo fra le braccia e cullandolo.
 Sherlock si aggrappò alle sue spalle, affondando il viso nell’incavo del suo collo.
 Rimasero stretti a lungo in quell’abbraccio, beandosi della vicinanza fra i loro corpi e del silenzio che era tornato ad avvolgerli. Poi, senza bisogno di parole o spiegazioni, raggiunsero la stanza del consulente investigativo e si misero a letto, stretti uno fra le braccia dell’altro.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti :)
Rieccomi qui con l’ottavo capitolo, come vi avevo promesso! ;)
Non credo ci sia molto da dire, perciò non mi dilungherò oltre…
A mercoledì con il prossimo. ;)
Un bacio ;D
Eli♥
 
   
 
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