Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    21/06/2017    1 recensioni
Sono tante le cose che si fanno per amore.
E Mycroft Holmes lo sa bene, anche se non riesce a comprendere cosa spinga le persone a gesti tanto estremi.
Ha visto suo fratello gettarsi da un tetto per proteggere i suoi amici da James Moriarty, rinunciare alla sua vita per due anni per proteggere John Watson, prendersi un proiettile per il suo migliore amico, morendo per mano di sua moglie, soltanto per saperlo al sicuro.
E tutto solo per amore. Quel sentimento che per Mycroft sembra così complicato da comprendere.
Tuttavia, quando Magnussen arriverà a minacciare Sherlock, sarà proprio l’amore a spingere Mycroft a offrirsi al suo posto, mettendo a rischio la propria vita e la propria libertà, per preservare quelle del suo fratellino. La persona che Mycroft Holmes ama più della sua stessa vita.
Perché l'amore ci spinge dove non ci saremo mai aspettati di poter arrivare.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Amore
 
 
Capitolo IX
Spirale di violenze
 
 
 Mycroft non ebbe il tempo di varcare la soglia di casa propria, che le gambe cedettero sotto il suo peso, trascinandolo a terra. L’uomo cadde in ginocchio sul pavimento, ansimando per il contraccolpo ricevuto alle anche doloranti; si resse sulle braccia, ancora sanguinanti a causa dei tagli e delle ferite che Magnussen gli aveva inflitto, stringendo i denti per resistere al dolore.
 Il suo corpo era arrivato, dopo altre due settimane di torture ininterrotte, al punto di rottura. Aveva ferite e lividi ovunque, su ogni parte del corpo, dalle braccia alle gambe, dal petto al viso… e niente sembrava riuscire ad alleviare il dolore che provava ogni volta che lasciava quella maledetta villa.
 Il dolore non lo lasciava dormire la notte – unito al senso di colpa per la sofferenza causata a Sherlock e John, dei quali non aveva più notizie da settimane – troppo, ormai, per essere sopportato.
 Gemette, portandosi una mano al petto, dove una fitta lo aveva colpito togliendogli il fiato per qualche secondo, costringendolo a chinarsi in avanti. Doveva avere qualche costola incrinata a giudicare dalle fitte che quei movimenti gli provocavano, ma non poteva permettersi di andare in ospedale. Non sapendo di essere strettamente controllato da Magnussen e dai suoi uomini, che lo seguivano ovunque, ormai. Al lavoro, a casa, in ogni suo spostamento.
 «Capo?»
 La voce di Anthea irruppe nell’ingresso.
 Maledizione, pensò Mycroft. Credeva che la segretaria se ne fosse andata da qualche ora.
 Perché era ancora lì? Perché diavolo l’aveva aspettato, invece di tornarsene a casa?
 La donna uscì dalla cucina, entrando nell’ingresso, e quando sollevò lo sguardo dal cellulare e vide che il politico si era accasciato sul pavimento, lo raggiunse, gli occhi spalancati per la prima volta per il terrore.
 «Capo, si sente bene?» chiese, chinandosi accanto a lui, senza però toccarlo o avvicinarsi troppo. Per un momento sembrò disorientata, non sapendo come comportarsi. «Devo chiamare un medico?»
 Mycroft scosse il capo. «No.» rispose con voce spezzata, tentando di mettersi in piedi, facendo leva sulle braccia. «Puoi tornare a casa, il tuo turno è finito.»
 «Ma signore-» protestò lei.
 «Ho detto che puoi andare, Anthea. Sono stato chiaro?» ringhiò Mycroft, ma un attacco di tosse lo scosse improvvisamente, interrompendolo. Si portò una mano alla bocca, tossendo convulsamente, sentendo il petto dolere terribilmente agli spasmi che quell’attacco di tosse stava causando.
 Quando allontanò la mano dal viso e abbassò lo sguardo sulla mano, sentì il cuore fermarsi nel petto. Le dita erano macchiate di sangue scuro e denso, che lentamente stava colando sul palmo e sul polsino della camicia.
 Le lacrime rigarono le guance di Mycroft. Cosa gli aveva fatto quel mostro?
 «Signore, dobbiamo andare in ospedale.» disse Anthea con più urgenza, prendendo il cellulare, probabilmente per chiamare l’autista.
 «No…» insistette Mycroft, con voce rotta.
 «Deve farsi visitare.» replicò lei. «La prego. Sia ragionevole.»
 Il politico scosse il capo. «Lui mi controlla…» ansimò. «Non posso…»
 «Potrebbe avere una lesione polmonare o un’emorragia interna. Deve farsi visitare.» aggiunse la donna in tono perentorio. «Possiamo andare in un ospedale fuori Londra.» propose.
 Dopo un istante di silenzio e immobilità, Mycroft annuì. «D’accordo.» concesse, con voce roca. «D’accordo…»
 La donna annuì a sua volta, decisamente più sollevata.
 «Ma tu non vieni.» aggiunse Holmes.
 Anthea si bloccò. «Perché non dovrei?» domandò, aiutandolo a mettersi in piedi, circondandogli il petto con un braccio.
 «Magnussen ci controlla tutti da vicino…» spiegò lui, il respiro accelerato, tenendo una mano poggiata sul petto. «Non posso coinvolgerti in tutto questo. Se lo facessi non farei altro che mettere in pericolo anche te. Quindi tu tornerai a casa. Andrò in ospedale da solo…»
 «È fuori discussione.» protestò lei. «Non la lascerò andare da solo.»
 Mycroft si liberò dalla sua presa il più gentilmente possibile. «Non metterò in pericolo anche te, Anthea.» disse, tentando di ignorare le lacrime che gli avevano rigato le guance quando si era messo in piedi e il dolore alle gambe era tornato. «Lui potrebbe farti del male se scoprisse che conosci la verità riguardo ciò che sta succedendo.»
 «Correrò il rischio.»
 «Anthea-»
 «Se non mi permetterà di venire, domani mattina rassegnerò le mie dimissioni.» sbottò la donna, interrompendolo e puntando gli occhi marroni e brillanti di indignazione nei suoi.
 Mycroft rimase interdetto. «Non lo faresti.»
 «Davvero? Cosa glielo fa pensare?» chiese. «Potrei trovare lavoro senza problemi. Ovunque. E se lei non mi permetterà di aiutarla e di venire con lei in ospedale, entro domani mattina me ne sarò andata e dovrà cercarsi una nuova segretaria, signor Holmes.» proseguì. «E non credo che sarà così fortunato.»
 Mycroft abbassò lo sguardo e sospirò, scuotendo il capo. Poi sollevò il capo. «Da questo momento in poi non potrò proteggerti, lo capisci?» disse flebilmente, incrociando gli occhi della donna, a pochi centimetri dai propri.
 Lei lo prese per un braccio, aiutandolo a raggiungere la soglia, avendolo preso come un assenso. «Non ho bisogno di protezione, capo.» affermò, aprendo la porta. «So difendermi perfettamente.» concluse.
 Uscirono di casa, chiudendosi la porta alle spalle, poi salirono sull’auto, che li stava aspettando di fronte all’ingresso.
 Anthea diede indicazioni all’autista, spiegandogli che avrebbe dovuto raggiungere l’ingresso sul retro dell’ospedale fuori Londra più vicino, tentando di essere più discreto possibile, poi lo zittì quando tentò di fare domande.
 L’uomo partì e Anthea e Mycroft si chiusero nel silenzio.
 
 Anthea raggiunse Baker Street il pomeriggio seguente.
 
 Era una giornata uggiosa, fredda e scura, che aveva portato solamente pioggia e vento su tutta Londra. Sherlock e John erano rimasti rintanati in casa tutto il giorno: il consulente investigativo aveva svariati casi da analizzare per conto di Lestrade e John aveva approfittato del suo unico giorno di ferie per dargli una mano. Dopo aver passato il pomeriggio a lavorare, si erano poi concessi un momento di riposo e Sherlock aveva deciso di cominciare a suonare per John – sapendo che le sue melodie lo avevano sempre rilassato nelle giornate più stressanti – mentre il medico si destreggiava ai fornelli per preparare il tè delle cinque.
 A metà della melodia, Sherlock si accorse dell’arrivo di Anthea.
 Percepì i suoi passi spediti su per le scale, il rumore inconfondibile dei tacchi – troppo sottili e alti per essere quelli della signora Hudson – che cozzavano sul legno dei gradini, e il leggero tintinnio dell’anello che portava alla mano destra sulla ringhiera.
 Per questo quando comparve sulla soglia non ebbe bisogno di parlare o di annunciarsi: Sherlock smise di muovere l’archetto, interrompendo la melodia all’istante, percependo la sua presenza alle sue spalle.
 Tuttavia, non si voltò. Rimase in attesa per qualche secondo, poi raddrizzò le spalle.
 «Ti manda Mycroft?» chiese con voce atona e piatta.
 I rumori provenienti dalla cucina si interruppero, segno che anche John si era accorto dell’arrivo di un visitatore. Però rimase immobile, in attesa della prossima mossa di Sherlock, sapendo che se si trattava di Anthea e di Mycroft, sarebbe stato lui a dover trattare con loro prima di intromettersi.
 E il consulente investigativo lo apprezzò.
 «No, signore.» rispose lei.
 Voce flebile, esitante. Quasi impaurita.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia.
 Anthea non era mai impaurita, non si poteva avere paura se si lavorava per il Governo Inglese ventiquattro ore al giorno. Da quando l’aveva conosciuta, non si era accorto di una singola volta in cui la segretaria di suo fratello avesse mostrato una singola emozione o un’esitazione. Mai una crepa nel suo comportamento posato e fermo. Mai un sentimento diverso dall’indifferenza o dalla malizia nella sua maschera di ghiaccio, così simile a quella del fratello, quasi fossero stati plasmati per lavorare insieme.  
 «Allora non capisco cosa ci fai qui.» aggiunse il consulente investigativo, voltandosi per riporre il violino nella custodia insieme all’archetto. Chiuse la custodia, poggiandola sul pavimento accanto al leggio, poi si voltò.
 Quando sollevò lo sguardo, studiò il volto della donna.
 E ciò che vide lo sconvolse.
 Il volto, il collo e le braccia di Anthea erano coperti di lividi violacei, lividi recenti che qualcuno le aveva inferto di proposito, afferrandola e strattonandola, tentando di farle del male, e forse riuscendoci a giudicare dall’occhio nero e dal labbro spaccato. I suoi abiti erano sporchi e laceri in più punti, le calze strappate e le gambe ferite, come se avessero tentato di trascinarla sull’asfalto.
 «Chi è stato?» chiese, avvicinandosi. Solo in quel momento notò il segno lasciato dal coltello che dovevano averle puntato alla gola e il rivolo di sangue che le aveva macchiato il collo e il colletto della camicetta.
 La donna abbassò lo sguardo e indietreggiò impercettibilmente. Alcune ciocche di capelli le ricaddero sul viso, nascondendo lo zigomo livido. Scosse il capo, chiudendo gli occhi, quasi quel ricordo facesse ancora male.
 Doveva essere successo da poco.
 Ma perché andare Baker Street subito dopo?
 Perché era il luogo più vicino, si disse immediatamente Sherlock. Ma allora doveva trovarsi nelle vicinanze anche prima di essere aggredita.
 E cosa ci faceva lì Anthea?
 Se era arrivata fino a lì, sicuramente era per parlare con loro.
 In quel momento John comparve sulla soglia della cucina. Quando vide Anthea, ferita e impaurita, i suoi occhi si spalancarono, saettando immediatamente sul viso dell’amico.
 Sherlock gli rivolse uno sguardo fugace, poi sospirò e si avvicinò nuovamente e lei. Cautamente allungò una mano verso il suo viso e delicatamente lo sollevò con due dita, in modo che i loro occhi potessero incontrarsi.
 Un gesto gentile e inaspettato, che stupì la donna, ma non John, che osservò quella scena intenerito, sorridendo debolmente.
 «Deve esserci un motivo per cui sei qui, Anthea.» fece notare Holmes, parlando con calma. «Dimmi chi ti ha fatto questo.» insistette, spostandole la ciocca di cappelli dietro l’orecchio, sfiorandole uno zigomo con il pollice. «Ti prometto che non permetterò che accada mai più.»
 La donna rimase immobile, lo sguardo fisso negli occhi di Sherlock, indecisa sul da farsi. Indecisa se fidarsi dell’uomo che aveva di fronte.
 Sherlock abbassò la mano e si voltò verso John. «John, potresti portarle una tazza di tè?» chiese. «Io vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. John può dare un’occhiata a quelle ferite e disinfettarle. Per te va bene?»
 Lei lanciò uno sguardo a Watson, poi annuì.
 «Siediti.» disse il dottore, indicando il divano. «Il tè è quasi pronto.»
 Anthea annuì ed eseguì meccanicamente senza dire una parola. Prese posto sul divano, tirando la gonna per coprirsi le gambe ferite e stringendosi nelle spalle, visibilmente a disagio.
 
 Sherlock, dopo aver preso la cassetta del pronto soccorso dal bagno, rientrò in cucina, affiancando John, che dopo aver versato il tè nelle tazze si voltò verso di lui, cercando il suo sguardo e una spiegazione a quella situazione.
 «Credi che l’abbiano violentata?» domandò sommessamente, dando voce al pensiero che a entrambi ronzava in testa da troppo tempo, ormai.
 Holmes scosse il capo. «No, non credo.» rispose, poggiando la zuccheriera sul vassoio, accanto alle tazze. «Penso che fosse solo un avvertimento.»
 John aggrottò le sopracciglia, confuso. «Ma perché è venuta qui?» chiese. «Non sarebbe stato più semplice andare da Mycroft? Lui avrebbe potuto insabbiare tutto molto più facilmente, facendo in modo che nessuno si accorgesse di nulla.»
 «Perché credo che stesse venendo qui quando l’hanno aggredita.» replicò Holmes.
 Watson poggiò una mano sul tavolo, voltandosi verso l’amico. «Non capisco.» disse, scuotendo la testa, incontrando i suoi occhi. «Anthea stava venendo a Baker Street? Perché avrebbe dovuto farlo? Non viene mai qui, nemmeno con Mycroft.»
 Sherlock agganciò gli occhi di John. «Lo so, ma ho ragione di pensare che Anthea volesse parlare con noi e nel tragitto sia stata aggredita.» spiegò, poi sospirò. «La domanda è: da chi?»
 «Forse dovremmo chiederglielo dopo il tè.» affermò John. «È ancora sotto shock. Diamole il tempo di riprendersi.» concluse, poggiandogli una mano sul braccio, poi prese il vassoio e seguito da Sherlock rientrò in salotto.
 
 Dopo una tazza di tè, e quando John ebbe controllato tutte le sue ferite, disinfettandole e assicurandosi che non ci fosse nessun trauma più grave a parte il labbro spaccato, Sherlock, decise di riprendere con le domande.
 «Perché stavi venendo qui?» domandò, rompendo il silenzio.
 Anthea si voltò verso di lui e lo osservò per un lungo istante, ponderando la risposta, poi abbassò lo sguardo. «Volevo parlarle di suo fratello.» rispose flebilmente.
 Lo sguardo di John saettò immediatamente al volto dell’amico. Per un momento, i suoi occhi vennero attraversati dal panico, esattamente come la mente di Sherlock, che prese a lavorare freneticamente: cosa poteva essere successo a Mycroft?
 Quel muto scambio di sguardi ad Anthea non sfuggì. «Non è stato lui a farmi questo, se ve lo state chiedendo.» aggiunse. «Non lo farebbe mai.»
 «Non stavamo pensando questo.» disse Sherlock, riportando lo sguardo sul volto di lei. «So che mio fratello non è una persona violenta e che non ti sfiorerebbe nemmeno con un dito.»
 «Siamo solo preoccupati per lui.» aggiunse Watson. «Sta bene?»
 Anthea si strinse nelle spalle, accarezzandosi le braccia. «No.» rispose duramente, scuotendo il capo. «No, non sta bene. Lui…» esitò, chiudendo gli occhi. «Lui ha ripreso gli incontri con Magnussen.»
 Gli occhi del consulente investigativo si spalancarono. «Quando?» domandò, sporgendosi verso di lei.
 «Due settimane fa. Quando è tornato a casa.»
 «Oh, Dio…» sfuggì a John, che si portò una mano al viso.
 Sherlock impiegò meno di cinque secondi a mettere insieme i pezzi. «Sono stati gli uomini di Magnussen ad aggredirti.» disse soltanto, sapendo che Anthea avrebbe dato spiegazioni senza bisogno di insistere oltre.
 Infatti la donna annuì. «Ieri sera, quando è tornato a casa, non si sentiva bene.» spiegò. «Era coperto di lividi e ferite, e… vomitava sangue. Ha accettato di andare in un ospedale fuori Londra per una visita sperando di non dare nell’occhio, ma Magnussen l’ha scoperto comunque.» sospirò, abbassando lo sguardo. «Questa notte lo hanno ricoverato e l’hanno sedato per diminuire il dolore. Aveva una lesione polmonare e due costole incrinate, oltre a tutte le ferite e le lesioni che Magnussen gli ha provocato in queste settimane. Fortunatamente i medici non hanno fatto domande.» strinse i pugni. Poi si schiarì la voce. «Questo pomeriggio, dopo essermi assicurata che fosse sorvegliato, ho lasciato l’ospedale per venire qui e parlare con voi riguardo ciò che era successo, ma Magnussen mi ha fatta seguire e quegli uomini hanno-» si interruppe, mordendosi il labbro inferiore.
 John e Sherlock si scambiarono uno sguardo.
 «Mycroft sa che sei qui?» chiese il consulente investigativo.
 «No, non sapeva che sarei venuta.» rispose lei. «Era ancora sotto sedativi quando me ne sono andata. E ho chiesto espressamente che nessuno dei medici lo dimettesse prima del vostro arrivo.»
 Sherlock annuì, abbassando lo sguardo per riflettere. Dopo un lungo momento di silenzio, risollevò il capo. «Quindi dobbiamo presumere che Magnussen ci stia tenendo d’occhio tutti.» concluse. «Ovviamente sa che sei venuta qui comunque, nonostante l’aggressione, perciò presto verrà da noi o ci farà avere un messaggio per farci sapere che ha Mycroft in pugno, nonostante i nostri tentativi di proteggerlo.» si mise in piedi, giungendo le mani sotto il mento e assottigliando lo sguardo, camminando avanti e indietro di fronte al divano. «Sa dove si trova Mycroft, sa come arrivare a lui e sa come arrivare a noi. Quindi, sopra ogni cosa, dobbiamo tentare di limitare i danni collaterali.» concluse, voltandosi verso la donna. «Torna a casa tua e chiedi agli uomini di mio fratello di aumentare la sorveglianza intorno al tuo appartamento e di non lasciarti sola neanche un istante. Non allontanarti da lì per nessuno motivo. È il luogo più sicuro per adesso.» spiegò porgendole la mano per aiutarla a mettersi in piedi.
 Anthea la prese e si alzò dal divano «E suo fratello?» domandò. «Non posso lasciare il lavoro senza un motivo. Sono la sua segretaria.»
 «Il motivo c’è, Anthea, ed è più che valido.» fece notare il medico, mettendosi in piedi a una volta. «Ti hanno aggredita e avrebbero potuto ucciderti, se solo Magnussen glielo avesse ordinato.»
 «John ha ragione.» confermò Sherlock.
 Anthea si voltò verso di lui, incrociando il suo sguardo.
 «Hai già rischiato molto venendo qui oggi.» aggiunse il consulente investigativo. «Da adesso in poi lascia fare a noi.»
 «Ma-»
 «A Mycroft pensiamo io e John.» disse Sherlock, interrompendola e voltandosi verso l’amico, che annuì in conferma. «Andremo da lui e lo porteremo qui. Gli impediremo di proseguire con questi incontri e denunceremo Magnussen. Porteremo le prove alla polizia e con la testimonianza di Mycroft, non potranno ignorare ciò che quel mostro ha fatto. Lo fermeremo una volta per tutte.»
 La donna annuì, e dopo aver dato loro l’indirizzo dell’ospedale dove poter trovare il suo capo, se ne andò, lasciandoli nuovamente soli.
 «Sapevo che dietro quell’improvviso cambio di comportamento c’era qualcosa di strano.» esclamò Sherlock, quando Anthea ebbe lasciato l’appartamento. «Sapevo che Mycroft non avrebbe mai detto qualcosa del genere senza motivo.» prese il cappotto e la sciarpa e li indossò, poi passò a John il suo. «Ci ha allontanati di proposito.»
 John lo ringraziò con un cenno del capo. «Come può averlo convinto? Perché lo sta facendo ancora?» domandò, seguendo Sherlock giù per le scale. «Avrebbe potuto denunciarlo soltanto utilizzando le minacce.»
 Holmes sospirò. «Potrei sbagliarmi, ma credo che ciò che è successo due settimane fa, non fosse un incidente.» spiegò, riferendosi all’incidente che li aveva coinvolti sulla via di casa. Uscì di casa e sollevò un braccio per chiamare un taxi.
 «Credi che Magnussen abbia organizzato tutto?» chiese John, sconvolto.
 Sherlock esitò. «Anthea ha detto che gli incontri sono ripresi quando ha lasciato Baker Street.» ragionò ad alta voce, aprendo la porta del taxi in modo che John potesse salire, seguendolo a bordo. Diede l’indirizzo al tassista, poi chiuse la portiera, mettendosi la cintura e voltasi nuovamente verso John, riprese. «Quella sera, in ospedale, ci siamo chiesti dove fosse finito. Era irraggiungibile e lui ha detto di essere tornato qui, ma nessuno lo aveva veramente visto.»
 «Quindi credi che potesse essere andato da Magnussen.» concluse Watson. «Il che spiegherebbe perché non aveva risposto al telefono e il perché avrebbe ripreso con questi incontri… Per proteggere te.»
 «Per proteggere noi.» lo corresse.
 John aggrottò le sopracciglia, agganciando i suoi occhi.
 «L’auto avrebbe colpito entrambi se non ti avessi spostato in tempo.» spiegò. «Eravamo entrambi gli obiettivi, anche se ero io ad essere più esposto perché camminavo sul lato del marciapiede più esterno.»
 «Ma perché colpire me?»
 «Perché è evidente che Mycroft tiene a te.»
 Il medico si stupì. «Ma io…» esitò «Non capisco. Non ho fatto nulla.»
 «Ti sbagli. Hai fatto molto.» replicò. «E Magnussen ha capito che per Mycroft sei diventato importante. Sapeva che colpendo noi avrebbe ottenuto ciò che voleva da mio fratello.»
 «Ma perché non ci ha chiesto aiuto invece di tornare da Magnussen?» domandò ancora John. «Avrebbe potuto dircelo. Avremmo affrontato tutto questo insieme.»
 «Non voleva coinvolgerci più di quanto non lo fossimo già. E non voleva che ci accadesse nulla di male.» spiegò il moro. «Perché al contrario di quanto tenta di affermare con tanto ardore, anche lui ha un cuore.» sospirò. «Perciò, John, sei ancora tempo per tirarti indietro, se vuoi. Non voglio costringerti a-»
 «No.» sbottò John, interrompendolo. «Voglio aiutarti. E voglio aiutare lui.»
 «È pericoloso.»
 «Non importa.» affermò con sicurezza. «Se sono con te non ho paura.»
 Sherlock non poté fare a meno di accennare un sorriso. Allungò una mano e sfiorò con le dita quelle del medico, poggiate sul sedile accanto alle proprie.
 Watson abbassò lo sguardo e sorrise a sua volta. Dopo un momento sollevò nuovamente il capo, incontrando gli occhi dell’amico. «Come procediamo?» chiese. 
 «Andiamo in ospedale, prendiamo Mycroft e lo portiamo a Baker Street. Poi chiamiamo Lestrade e procediamo con la denuncia.» spiegò. «In questo modo Scotland Yard potrà procedere con l’arresto immediato. Se quello che Anthea ha detto è vero, allora stavolta le prove sul corpo di Mycroft saranno così evidenti che saranno impossibili da ignorare persino per loro.»
 «E sei certo che Mycroft accetterà di denunciarlo?»
 «Non lo so.» ammise con un mesto sospiro. «Ma stai pur certo che non permetterò a Magnussen di continuare con tutto questo. Non gli permetterò di toccare mio fratello mai più. Costi quel che costi.»
 
 Una volta arrivati in ospedale, Sherlock e John chiesero all’infermiera alla reception dove potessero trovare Mycroft Holmes.
 La donna disse loro che era stato ricoverato la notte precedente e di raggiungere il quinto piano, indicando il numero della stanza dove avrebbero potuto trovarlo.
 I due raggiunsero l’ascensore più vicino, volendo evitare il traffico dei corridoio e delle scale. Arrivati al quinto piano e alla stanza di Mycroft, Sherlock poggiò la mano sulla maniglia pronto ad entrare, chiedendosi dove fossero finiti gli uomini che Anthea aveva messo a guardia della stanza.
 Tuttavia, proprio mentre stava per aprire la porta notò che John si era bloccato alle sue spalle, indietreggiando di qualche passo, esitante.
 «Che succede?» chiese, voltandosi e avvicinandosi.
 «È meglio che io aspetti qui fuori.» disse John.
 Il consulente investigativo aggrottò le sopracciglia. «Credevo che ormai fosse chiaro.»
 Il medico sembrò confuso.
 «Dove sono io sei tu, John.» aggiunse Sherlock, agganciando i loro sguardi. Poi gli prese la mano, intrecciando le loro dita e tirandolo delicatamente verso di sé.
 John accennò un sorriso, poggiandogli una mano sul petto, all’altezza del cuore. «Dove sono io sei tu.» ripeté dopo un momento.
 Holmes annuì.
 E insieme varcarono le soglia.
 Quando entrarono, rimasero senza fiato.
 Il letto era sfatto, le coperte riverse a toccare il pavimento, le flebo gettate sul materasso insieme agli elettrodi insieme al pigiama che le infermiere gli avevano fatto indossare, ma di Mycroft non c’era traccia.
 «Ma cosa…?» sfuggì a Sherlock.
 «Dove può essere andato?» chiese John.
 Il cellulare di Holmes squillò in quel momento, facendoli trasalire entrambi.
 Il consulente investigativo infilò una mano nella tasca della giacca, prendendo fra le mani l’apparecchio e osservandone lo schermo. Era un numero sconosciuto, non salvato in rubrica. Aggrottò le sopracciglia.
 Premette il tasto di risposta.
 «Pronto?»
 «Credo che a quest’ora si sarà già accorto della scomparsa di suo fratello, signor Holmes.» tuonò la voce di Magnussen dall’altro capo. «E sì, nel caso se lo stia domandando, gli uomini che stavano sorvegliando la stanza erano al mio servizio e non appena la segretaria di suo fratello ha lasciato l’ospedale hanno provveduto a riportarmi ciò che era di mia proprietà.»
 «Dov’è mio fratello?» ringhiò Sherlock, stringendo il telefono con tanta forza da far sbiancare le nocche.
 Magnussen rise. «Domanda stupida di cui credo conosca la risposta senza bisogno che sia io a dargliela.»
 «Se gli ha fatto del male, io-»
 «Risparmi il fiato, Sherlock.» lo bloccò, prima che potesse proseguire. «La aspetto alla mia villa quando più la aggrada. E mi aspetto che venga anche il dottor Watson.» concluse. «Ah, le consiglio di non tardare, o potrebbe non ritrovare suo fratello tutto intero. Consideri questo come un amichevole avvertimento.» poi riagganciò, senza dire nient’altro.
 Sherlock allontanò il cellulare dall’orecchio, voltandosi verso John, il volto pallido come un cencio, gli occhi colmi di terrore all’idea che quel mostro avrebbe potuto uccidere suo fratello con un semplice schiocco delle dita se solo lo avesse voluto.
 Non servirono parole.
 «Andiamo.» disse soltanto il medico.
 Holmes annuì e lo seguì fuori dalla stanza.
 
 ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao ;) Rieccomi qui con il nono capitolo! Mamma mia come scorre veloce questa storia! Non mi sembra vero di essere già al nono capitolo xD
Non c’è molto da dire, perché come avrete capitolo, questo capitolo è solo il preludio di ciò che accadrà poi. Nel decimo capitolo. Che pubblicherò venerdì ;) ♥
A presto.
Un abbraccio :)
Eli♥
 
   
 
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