Irma
era stata occupata tutta la settimana nel suo nuovo lavoro e non aveva avuto il
tempo di indagare sulle antiche leggende di Goa. Tutte le ricerche che aveva
fatto erano state solo per acquisire informazioni che l’aiutassero ad
identificare al meglio gli oggetti nel magazzino. La parte più difficile era
stata quella relativa ai vasi, ne aveva trovate diverse decine e aveva dovuto
disegnarli, capirne la funzione e risalire al nome in lingua locale, il
Konkani; la datazione era poi quasi impossibile, dal momento che per secoli
erano stati in un uso gli stessi modelli per la ceramica e la maggior parte di
essi non aveva disegni, incisioni o altro che potessero ricondurli ad un’epoca
precisa: potevano avere secoli o di essere appena di un centinaio di anni prima.
Irma
arrivava a sera stanca e senza voglia di mettersi ad indagare altri argomenti,
per cui preferiva rilassarsi e soprattutto far riposare gli occhi.
Era
arrivato il fine settimana, si era concessa un paio di ore di sonno in più e
poi era andata nella cucina comune. Il pomeriggio prima, appena dopo il lavoro,
aveva inforcato la bicicletta ed era andata nel paese a fare le provviste per
il sabato e la domenica, in cui avrebbe dovuto arrangiarsi per mangiare; aveva
comprato soprattutto verdura, da un ortolano a bordo strada, dietro a un banco
di legno, su cui campeggiavano colori vivaci.
Si
era però comprata anche cereali e latte per la colazione e quindi, quel sabato
mattina, si sedette sul muretto della veranda con una tazza bella piena.
Scendeva ancora della pioggia, ma era molto fine e leggera. Successivamente si
dedicò alla pulizia della camera e al bucato: non aveva voglia di andare dal
lavandaio, poiché non voleva spendere soldi. Al termine di queste faccende, era
arrivata l’ora del pranzo e quindi la giovane si mise a cucinare.
Finalmente
Irma poté cominciare la sua ricerca, innanzitutto guardando se nel Ramayana o nel Mahabharata ci fossero riferimenti a Goa. Quella terra era nominata
col suo antico nome, ma non era stata teatro di fatti particolari; l’unico
riferimento che aveva trovato era che lì ci fosse stata una delle tante
battaglie tra Krishna e Jarasandha, ma questa non era un’informazione
particolarmente utile.
La
giovane si ricordò, allora, di avere chiesto, giorni prima, al direttore del
museo se ci fossero miti e leggende legati a Goa. Vairochana aveva risposto che
ce ne era solamente uno, relativo alla nascita di quella terra: Parashurama,
sesto avatara del dio Visnu, in cerca di un nuovo luogo in cui stare, aveva
scagliato la sua ascia verso il mare e, quando si era conficcata sul fondale,
le acque attorno si ritirarono, lasciando così emergere una nuova terra.
Parashurama
aveva poi portato dieci sacerdoti per celebrare un grande sacrificio per Agni,
il dio del fuoco.
Vi
era poi una leggenda che diceva che a Goa i Saptarishi avevano condotto una
penitenza al termine della quale erano stati benedetti da Shiva. I Saptarishi
erano sette saggi, tra i più illuminati e protettori del Dharma e delle leggi
divine; ogni Manvantaram aveva i suoi sette saggi e tra i meritevoli di
ciascuno di questi periodi, venivano individuati i sette che sarebbero
sopravvissuti alla distruzione per diventare i Saptarishi dell’epoca successiva.
La
cosmocronia induista non è di immediata comprensione e tra nomi e numeri è
facile confondersi. L’unità di base sono gli Yuga, ve ne sono quattro di durata
e qualità morale decrescente: il Satya Yuga, il Treta Yuga, il Dvapara Yuga e
il Kali Yuga. Queste quattro ere formano un ciclo cosmico chiamato Chaturyuga,
terminato il quale il mondo sarà devastato da cataclismi e dalla battaglia tra
Kalki e Kali, finché il primo non avrà il sopravvento e così avrà inizio un
nuovo ciclo con il suo Satya Yuga.
Settantuno
Chaturyuga formano un Manvantaram, ossia un regno di Manu, che sarebbe l’uomo
primordiale che crea il mondo quando è il momento, gli dà le leggi e lo
sostiene. Alla fine del regno di ogni Manu, dunque, c’è una sorta di
distruzione e ricreazione, ma essa non è totale.
Quattordici
Manu si susseguono al potere fino ad ottenere così un Kalpa, ossia un giorno di
Brahma, al termine del quale ogni creatura e ogni cosa nell’universo, ma non
l’universo stesso, si dissolve nella notte di Brahma, anch’essa lunga quanto un
Kalpa; durante questa stasi dove l’universo è ridotto allo stato di potenza,
senza essere in atto, il grande dio Visnu dorme sul suo serpente, avendo
registrato nella sua mente ogni cosa e ricordando i meriti karmici di ognuno,
in modo che il nuovo giorno di Brahma possa riprendere là dove è stato interrotto.
Secondo
i testi, attualmente siamo nel settimo Manvantaram.
Irma
conosceva abbastanza bene l’argomento dei Saptarishi in quanto, due anni prima,
aveva conosciuto un uomo dall’età improbabile ed estremamente saggio che era
stato scelto, sotto i suoi occhi, per essere uno dei sette saggi dell’ottavo
Manvantaram, quindi si era documentata al riguardo.
Ad
ogni modo non pensava che fossero questi Saptarishi ad essere i protagonisti
dell’evento a cui aveva accennato Iravan, per cui andò avanti con le ricerche. L’unica
informazione che ottenne in più fu che Shiva aveva trascorso del tempo a Goa,
dopo un litigio con la moglie Parvati.
Nulla
da fare, ancora non emergeva nulla di interessante. Decise, allora, di
approfondire le sue conoscenze su Parashurama.
Era
la sesta incarnazione di Visnu, era nato da uno dei Saptarishi e da Renuka, la quale era una parziale incarnazione della grande
dea Shakti. Il padre fu ucciso da un nobile kshatrya, casta che aveva iniziato ad opprimere i brahmani.
Parashurama era dunque diventato un devoto di Shiva e un abilissimo guerriero e
con la sua ascia uccise numerosissimi kshatrya fino a
ripristinare la supremazia della casta sacerdotale. Era un immortale, anche lui
scelto come futuro Saptarishi e sarebbe stato il maestro d’armi di Kalki, alla
fine del Kali Yuga.
Vi
erano poi altri aneddoti, ma nessuno connesso con Goa.
Irma
allora decise di provare ad indagare i culti locali e così scoprì che lì erano
venerate in particolare cinque divinità: Devi (grande dea, declinabile in
moltissime forme), Rudra (lo Shiva più antico, il
terribile e temuto urlante di cui si parla nei Veda), Ganesh
(il dio con la testa da elefante), Keshava (anche
detto Narayana, una versione universale e più vasta
di Visnu) e Aaditya (Visnu nella sua forma di Sole, ricordata
nei Veda).
Oltre
a questi cinque dei, ce ne erano altri locali, in particolare Ravalnath, considerato un protettore del luogo dai disastri
climatici, la stregoneria e i morsi di serpenti. Questo tipo di divinità erano
chiamate Kshetrapala ed erano venerate anche in
generale, senza un’attribuzione specifica.
Alla
fine di questa ricerca, Irma fu incuriosita da come fossero rimaste radicate le
forme più antiche di Visnu e Shiva e anche dal fatto che fossero tenute in
grandissima considerazione i generici protettori. Forse questo attaccamento
poteva essere un retaggio di un antichissimo trauma subito, ma questa era solo
un’ipotesi. Di fatto non aveva trovato nulla che potesse riferirsi ai fatti
ancestrali e tremendi a cui aveva fatto riferimento Iravan.
Il
fine settimana era terminato e lei doveva ricominciare a lavorare, il mattino
seguente.
Giorno
dopo giorno, il magazzino assumeva un aspetto più ordinato, gli oggetti avevano
sempre meno segreti ed erano raggruppati secondo la tipologia e, quando era possibile,
sistemati cronologicamente.
Il
venerdì pomeriggio, Irma e Bhavani avevano preso le biciclette per recarsi al
market del paese vicino e fare la spesa. Era praticamente la seconda volta che
l’Italiana usciva dal museo, a causa della pioggia praticamente costante che
aveva caratterizzato quelle giornate. La giovane si era rivolta a Indra di ritirare le sue nuvole qualche ora, sul far della
sera e lasciare un poco di spazio a Surya, così che
lei potesse uscire, senza rischiare di inzupparsi dalla testa ai piedi.
Effettivamente il bel tempo era venuto per due o tre ore, ma lei non avrebbe
saputo dire se fosse stato un caso o se effettivamente il deva l’aveva
ascoltata.
Le
due giovani, oltre ai viveri, dovevano comprare alcune altre cose, per le quali
erano state incaricate dal museo, per cui girarono per diversi negozietti.
A
Irma il paesino sembrava più famigliare della zona del museo, che rimaneva
comunque uno splendido connubio tra natura e antropizzazione.
Le
ragazze si erano fermate in una piccola botteguccia,
formata da un unico stanzino, dentro cui stava solamente il venditore, poiché
il banco si affacciava direttamente sulla strada; le pareti erano coperte da
scaffali traboccanti di tessuti, nastri e passamanerie multicolori.
Le
giovani avevano scelto alcune delle cose da prendere, Bhavani allora domandò se
avesse anche dei piatti di carta. Il proprietario rispose di no, ma chiese
quanti ne servissero; avuta la risposta, telefonò ad un suo amico e cinque
minuti dopo, spuntò un altro uomo con un gran sacchetto di plastica blu, ne
tirò fuori un pacchetto di piatti e li mostrò alle clienti per sincerarsi che
fosse ciò che cercavano. Bhavani li esaminò ed accettò di acquistarli.
Il
venditore del negozietto diede loro il suo biglietto da visita, raccomandandosi
di rivolgersi a lui per qualsiasi bisogno, in più chiese se sapessero che la
domenica ci sarebbe stata una festa in paese e le invitò ad andarci.
Le
ragazze ringraziarono e si allontanarono, ragionando sul fatto che sarebbe
stato interessante partecipare alla festività: avrebbero chiesto maggiori
informazioni al direttore del museo.
Ripresero
le biciclette e iniziarono a pedalare velocemente: volevano rientrare prima che
si facesse buio e da quelle parti il tramonto era molto rapido, Irma non poteva
evitare di pensare, decontestualizzandolo, al verso “Ed è subito sera”.
Avevano
già attraversato la zona con le villette e stavano per entrare nel territorio
completamente naturale che circondava il museo per oltre un paio di chilometri;
sentirono dei latrati. Non vi diedero importanza, pensando a qualche cane che
abbaiasse a una mucca o un qualche altro animale. Presto, però, cinque o sei
cani spuntarono sul margine della strada, ringhiando inferociti. Cominciarono a
inseguire le biciclette.
Le
due giovani pedalarono più velocemente, per distanziarli, ma quelli correvano
rapidamente, senza smettere di guaire. Presto se ne aggiunsero un altro paio
che venivano da più avanti e dunque si lanciavano verso di loro, occupando il
centro della strada.
Irma
era spaventata: che accidenti volevano da loro? Solitamente non aveva paura dei
cani, anche perché magari qualcuno le aveva ringhiato contro, ma mai era stata
inseguita.
Sì,
sapeva che, almeno teoricamente, i cani sentono l’odore della paura e dunque
bisognerebbe fermarsi e al più provare ad intimidirli, ma temeva troppo che, se
anche solo avesse rallentato, quelle fauci l’avrebbero afferrata.
Sentiva
il cuore battere più rapidamente, le sue orecchie erano colme solo dei latrati;
guardava fisso davanti a sé ma le pareva di non vedere nulla o, per meglio
dire, la sua mente era così presa dalla preoccupazione che tutto il resto era
passato in secondo piano e ogni contorno era sfocato nella coscienza.
Era
già andata avanti di alcune centinaia di metri, ma i cani continuavano a
tallonarle. Si decise a cercare con lo sguardo Bhavani, sperando che lei avesse
idee più chiare, ma anche l’indiana pedalava dritta, senza curarsi del resto.
Irma allora voltò la testa per capire se fosse riuscita a distanzia re i cani e
ne vide uno bianco estremamente vicino alla sua caviglia. Quell’immagine bastò
a scaricare in lei una tale adrenalina da aumentare forsennatamente la
velocità; se prima lamentava la fatica per il non potere cambiare marcia, ora
Irma filava talmente rapida da far invidia a Nibali.
Si
fermò soltanto arrivata davanti al cancello del museo. Non si sentiva più
abbaiare. Poco dopo arrivò anche Bhavani che non sembrava particolarmente
scossa, anzi spiegò che ormai era abituata. Apprendendo ciò, Irma non era più
tanto sicura di voler uscire dal museo. Andò nella propria stanza dove si fece
una bella doccia prima della cena.
Il
mattino seguente, la giovane un poco indugiò a letto, sotto le pale del
ventilatore; non doveva lavorare e quindi poteva permettersi di essere un poco
meno mattiniera del solito. Nonostante si fosse concessa un poco di riposo in
più, alle nove era comunque pronta per recarsi nella sala comune a fare
colazione. Ramon era seduto con un libro in mano, ma non pareva lo stesse leggendo,
la informò che qualche animale, nella notte, aveva rovistato tra i sacchi
dell’immondizia che tenevano in veranda, spargendone in giro il contenuto.
Presto sarebbe arrivato Prabhu, il tutto fare del
museo, a ripulire, ma per il momento la veranda non era agibile. Irma allora si
preparò una tazza coi cereali e andò a mangiarla, sedendosi sulle panchine che
si affacciavano sulla stradina interna. Non le piaceva granché stare lì, dove i
visitatori potevano passare e vederla, ma aveva troppa voglia e necessità di
stare all’aperto: insomma, dopo avere passato cinque giorni in un magazzino,
aveva bisogno di aria fresca (… o per lo meno non polverosa) e dei raggi del
Sole.
Oh,
il Sole! Il dio Surya … le risvegliavano il ricordo
del suo caro padre Jerolam, chissà come stava … e chissà come stavano anche
Yacqomin e Savariappam.
Forse
avrebbe dovuto contattarli … anzi, sicuramente. Sì, aveva una gran voglia di
vederli, abbracciarli e parlare con loro ed era stata un sacco sciocca a
sentirsi a disagio per ciò che era successo due anni prima. Iravan aveva
assolutamente ragione!
Li
avrebbe contattati, più avanti, magari verso la fine del contratto di lavoro e
si sarebbe accordata per passare a trovarli in Tamil.
Era
assorta in questi pensieri, quando le si avvicinò un giovane sui trenta anni,
indiano abbastanza scuro, ma non nerissimo, capelli e barba lasciati crescere
in una maniera un po’ sbarazzina, ma non casuale. Irma si accorse di lui solo
quando il sopraggiunto esordì con un Sorry. In un fluente inglese il ragazzo le domandò se
sapesse dove trovare il direttore del museo e lei glielo spiegò garbatamente.
Lo seguì con lo sguardo e si sentì un poco in imbarazzo per essersi fatta
cogliere in un momento sovrappensiero, probabilmente sembrando un po’
rintontita. Certo non si sarebbe sentita così se il giovane fosse stato un po’
meno attraente per lei. Aveva lineamenti ben definiti e volitivi ma armonici; i
suoi occhi, per quei pochi secondi che li aveva incrociati, le erano sembrati
energici come fulmini crepitanti.
Pazienza
se non aveva fatto una buona impressione, si disse Irma, tanto quello era solo
un visitatore del museo o qualcosa di simile e non lo avrebbe rivisto.
Finita
la colazione, lavò tazza e cucchiaio e si mise a fare un po’ di esercizio
fisico nella sala comune, per compensare il lavoro sedentario che stava
svolgendo. Ramon era tornato nella propria stanza, mentre Bhavani si era
svegliata e si stava preparando la colazione con uova, cipolle e patate.
Dopo
un’oretta circa, fece capolino sulla soglia Varoichana,
appena dietro c’era il giovanotto che aveva chiesto di lui.
Il
direttore salutò le due giovani e le informò: “Lui è mio nipote Dhvana, è un musicista ed esperto di meditazione. Ci darà
una mano per alcune settimane, di quanto in quanto. Si occuperà di supervisionare
la costruzione della nuova ala, sperando che nei prossimi giorni piova meno per
poter procedere coi lavori che stanno andando a rilento.”
Il
nuovo arrivato salutò con la mano e sorridente.
Irma
notò il contrasto tra il volto spensierato, quasi felice del ragazzo, e
l’espressione seriosa dello zio. A bene pensarci, l’archeologa non aveva mai
visto il suo capo così formale, almeno in quelle due settimane, pareva come se
non fosse contento della presenza del nipote.
Varoichana continuò con le
presentazioni: “Lei è Bhavani, viene dal Karnataka ed
è tirocinante, si occupa delle visite guidate e il mantenimento delle buona
qualità delle esposizioni. Lei, invece, è Irma, me l’hanno prestata dall’Italia
per qualche mese, sta stilando un inventario del magazzino. Infine lui è Ramon
che … no! Non c’è … Sapete dove sia? Pazienza, quando vi incontrerete vi
presenterete.”
Dhvana prese la
parola: “Piacere di conoscervi, signorine. Non so se avremo molte occasioni di
incontrarci, dal momento che saremo in settori parecchio differenti, tuttavia
spero che avremo modo di conversare di quando in quando … sicuramente durante i
pasti, credo, nei giorni che sarò qui.”
“Certo,
volentieri.” rispose Bhavani, che sarebbe arrossita con una carnagione più
chiara, evidentemente anche lei scossa dal bel porsi del giovane.
“Oggi
hai intenzione di fermarti, oppure sei solo di passaggio?” domandò Irma,
chiedendosi come quelle parole fossero uscite dalla sua bocca.
“Pensavo
di restare questo fine settimana per ambientarmi e poter iniziare il lavoro
lunedì. Vi disturbo?”
“No,
no, era solo per sapere … perché i pasti, oggi e domani, li cuciniamo in
autonomia qui e dunque dobbiamo organizzarci.” Irma aveva farfugliato e sperò
fortemente che sembrasse dovuto a una difficoltà nel parlare inglese, benché la
frase fosse semplice e l’avrebbe saputa dire perfettamente in altre
circostanze. Sperò anche che Dhvana fosse antipatico,
così da smorzare ogni interesse ed evitare che lei facesse altre figure da
idiota.
“Saremmo
in quattro a cucinare ognuno un pasto diverso?” si sorprese il giovane “Sembra
dispersivo … Perché non prepariamo un’unica cosa per tutti?”
“Beh,
io vi lascio alle vostre constatazioni” intervenne Vairochana “Io torno ai miei
affari, a stasera, buona giornata.”
Più
tardi, Dhvana e le due ragazze cominciarono a
cucinare tutti assieme: chi tagliava la verdura, chi controllava le pentole. Il
risultato fu una sorta di insalata di riso, con gli ingredienti reperibili nel
frigorifero. Irma non era troppo entusiasta di mangiare riso anche quel giorno,
dato che lo avevano sempre a pranzo e a cena durante la settimana, ma non disse
nulla.
Mentre
il riso bolliva, arrivò Ramon a cui fu presentato il nuovo collaboratore e fu
molto entusiasta nell’apprendere che fosse un esperto di meditazione.
“Sono
un appassionato di meditazione” spiegò “Anche se in realtà non ho molto tempo
per praticarla, tra lo studio, la famiglia, qualche lavoretto saltuario … Ma tu
quale scuola segui? Ci sono molte varianti e filosofie.”
“Lo
so bene e ne ho sperimentate diverse ma, devo dire, che quella che mi ha
affascinato maggiormente e in cui mi sono specializzato, è la meditazione del
suono. La conosci?”
“Solo
superficialmente. È quella che coadiuva gli esercizi di concentrazione tramite
l’ascolto di suoni, vero? Non ne comprendo molto il funzionamento.”
“Si
basa su una scuola di pensiero che ritiene che il suono sia alla base di tutto.
L’universo stesso e ogni creatura sono suoni, ognuno vibra in questa immensa
cassa armonica. Ciascuno ha la propria frequenza, distinguibile da ogni altra,
è come uno specchio dell’anima: ogni esperienza lascia la sua traccia e le
emozioni la possono alterare temporaneamente. Allo stesso modo interagiscono
con essa paure, tensioni, stress e moltissime altri fattori. La relazione,
però, non è univoca, anzi! È possibile usare la musica per armonizzare ciò che
non va e per aiutare le persone a stare meglio, addirittura a risolvere i
problemi. Certo ci vuole tanta pratica oppure l’auto di un esperto.”
Irma
ricordava di avere studiato l’argomento durante il primo anno di università,
aveva un vago ricordo di un discorso sulle parole, la valenza delle lettere, il
domandarsi se le lettere mutassero in un qualche modo, quando combinate con le
altre ed era stato anche spiegato perché fosse così importante la parola AOM. Nella
sua memoria si agitavano pochi pensieri e confusi: era stato un argomento molto
difficile e che l’aveva pure annoiata. Il concetto in sé era interessante, ma
era stato affrontato in maniera molto tecnica e quasi cavillosa.
“Mi
piacerebbe provare.” affermò Ramon “Credi che avrai il tempo di insegnarmi
qualcosa?”
“Il
tempo non manca mai … il problema del tempo non è mai la quantità, bensì la
qualità. Se vuoi sperimentare qualcosa, sarò ben lieto di guidarti. Ehi,
ragazze, interessa anche a voi?”
“Sì,
certo!” esclamò Bhavani.
“Perché
no?” replicò Irma.
“Perfetto.
Allora potremmo fare oggi pomeriggio stesso, se non avete impegni. In macchina
ho qualche strumento: non esco mai senza.”
Pranzarono
e poi si divisero, ognuno assorto nelle proprie faccende, ma alle diciassette,
tutti e quattro si ritrovarono nella sala comune per la meditazione.
Dhvana aveva steso a
terra tre stuoie, mentre lui era seduto a gambe incrociate su una pelliccia
d’animale. Invitò gli altri a sedersi come lui e spiegò che quella sessione
sarebbe stata divisa in due parti. Nel corso della prima era necessario
rimanere seduti e seguire le varie istruzioni.
Illustrò
poi i tre strumenti che aveva con sé: una campana tibetana, ossia una scodella
di metallo che suonava allorché una bacchetta di ferro fosse stata fatta
scorrere sul suo bordo; c’era poi un ghatam ossia un
tamburo in terracotta simile in tutto e per tutto ad un vaso; infine uno strano
oggetto simile ad un esagono tridimensionale, non era nemmeno ben chiaro di
quale materiale fosse, le dita battute su di esso producevano un suono che
pareva provenire da un’arpa; Irma non era riuscita a capire il nome di
quest’ultimo, benché fosse quello che la intrigava maggiormente.
Cominciarono
la sessione. Innanzitutto fecero un esercizio di respirazione per liberare la
mente e iniziare a concentrarsi, dovevano respirare da una sola narice per
volta., aiutandosi con una mano a tappare l’altra.
Irma
riuscì ad eseguirlo, si sentiva molto rilassata e le mente era calma e
silenziosa.
Il
secondo esercizio prevedeva nel rimanere sempre con le palpebre abbassate e
intonare a bocca chiusa alcune note, seguendo quelle emesse da Dhvana.
Irma
riuscì a fare anche quello, poiché c’era un’azione da eseguire; pensò fosse
molto bello risuonare tutti insieme, infatti sembrava essere un’unica persona a
mormorare e non tante separate.
Il
terzo esercizio, invece, fu alquanto difficile. Dhvana
avrebbe suonato e loro avrebbero dovuto concentrarsi nel sentire l’energia
attraversare i propri palmi. Qui iniziavano i problemi per Irma: ogni volta che
in Italia aveva partecipato a lezioni di meditazione, si sentiva sempre in
imbarazzo al momento finale di condivisione delle esperienze. Tutti gli altri
raccontavano di aver sentito la tal cosa o la tal altra, di aver percepito
questo e quello, mentre lei non sentiva mai nulla. Si diceva che ciò era molto
strano perché ricordava ancora nitidamente gli effetti della meditazione con Narada e Yacqomin, ma dopo quella vicenda, non era più riuscita
a rivivere l’esperienza.
Si
perse tra questi pensieri e alla fine dell’esercizio non era riuscita a
svolgerlo, poiché si era distratta.
Dhvana annunciò che
era giunto il momento per la seconda fase che sarebbe stata unitaria: dovevano
sdraiarsi, rimanere concentrati sul respiro e ascoltare, sempre tenendo gli
occhi chiusi.
Irma
ne fu contenta, iniziava a sentire la schiena affaticata e le gambe le si erano
addormentate a rimanere incrociate per oltre mezzora. Per fortuna ora si
sarebbero stesi, perché lei avrebbe avuto seri problemi se avessero dovuto
alzarsi in piedi.
Irma
si sdraiò come gli altri, stese le braccia lungo i fianchi e chiuse gli occhi.
Era già molto rilassata dagli esercizi precedenti, provò a concentrarsi sul
respiro o sul suono.
Dhvana aveva iniziato
a suonare, non pareva esserci ritmo o melodia, erano come singole note,
estremamente delicate, che si propagavano nell’aria. Riecheggiavano con
discrezione, come domestici che non vogliono farsi notare dagli ospiti, che
fanno il loro lavoro senza che li si veda.
Presto
per Irma fu come non sentire nulla, essere sprofondata in un silenzio caldo e
accogliente, come se lei stesse vibrando sulla stessa frequenza di quelle note
e quindi non le udisse semplicemente perché ne faceva parte. Non sentiva il
proprio corpo, ma non se ne accorgeva. Tutta la sua attenzione si era ritratta
nella sua mente. Iniziò a vedere immagini. Non erano pensieri di cui aveva il
controllo, non erano sue riflessioni. Figure e forme le attraversavano la
testa, come in un sogno … eppure non stava dormendo e nemmeno si trovava tra la
veglia e il sonno.
Le
immagini si fecero più nitide e non svanivano in un paio di secondi, ma
restavano più a lungo e si evolvevano in scene. Vide cadaveri straziati, sentì
l’odore del sangue riempirle le narici, udì lamenti. Vide un villaggio di
capanne, uomini possenti e splendide donne, sfoggianti ornamenti preziosi,
passare in mezzo a gente di più modesta condizione che li riveriva; avvertì la
paura. Vide fauci sbranare carne umana.
Sebbene
quelle immagini, normalmente, avrebbero suscitato in lei orrore e inquietudine,
in quella situazione lei continuava a rimanere calma, il suo cuore non aveva
accelerato nemmeno un battito.
Vide
uomini gettati nel fango, sentì risate sprezzanti, suppliche strazianti,
lamenti e grida.
Scoppiò
una guerra. Cavalli correvano trascinando i carri da cui guerrieri scoccavano
piogge di frecce, mentre altri cozzavano le spade, sangue e metallo rivestivano
la terra come un tappeto.
D’improvviso,
però, la terra sparì, la battaglia era nel cielo, tra carri volanti che
attraversavano le nuvole. In lontananza un’isola galleggiante nell’aria.
Infine
un’ultima immagine: gente felice che passeggiava in una città d’oro.
La
voce di Dhvana richiamò lei e gli altri alla realtà.
La meditazione era finita.
Ramon
cominciò a raccontare come si era sentito durante gli esercizi, le sue
impressioni e così via. Bhavani, poi, riferì a propria volta come aveva vissuto
tale esperienza. Quando fu il suo turno, Irma parlò poco, rimanendo sul vago,
di certo non voleva condividere con loro le visioni che aveva avuto.
Ne
era certa: ciò che aveva visto non era stato frutto della sua fantasia. Non era
stato un sogno e nemmeno un ricordo di una vita precedente (o almeno, in
passato, le memorie di Dushala le erano affiorate in maniera differente), non
sapeva che come definire tutto ciò se non semplicemente chiamandole “visioni”.
Era certa che tutto ciò che aveva visto fosse accaduto realmente in passato ma
non aveva idea di come mai nella sua mente si fosse aperta una finestra su
secoli remoti.
Più
tardi, quella sera, rimasta sola, provò a cercare su un motore di ricerca “golden cities India”. Capire a
quale leggenda appartenesse la città d’oro che aveva visto, poteva essere un
buon punto di partenza e, d’altra parte, era l’unico indizio che avesse.
Purtroppo l’unico risultato che trovò fu Jaisalmer,
in Rajasthan, chiamata così per il giallo delle sue
sabbie e dei suoi edifici, trovò un riferimento ad Amritsar in Punjab, ma era anche in quel caso un nome più o meno
recente. Lei stava cercando una città mitologica, non una attualmente
esistente.
Le
venne in mente che la città di Ravana, l’Asura nemico di Rama, era descritta come fatta d’oro e
teoricamente era collocata sull’isola di Lanka. Era però certa che ce ne
fossero altre, doveva solo avere pazienza nel spulciare le varie leggende.
Guardò
il bracciale che Iravan le aveva regalato. Doveva contattarlo? Avrebbe dovuto
raccontargli ciò che aveva visto? No, lo avrebbe allarmato e basta. Lui si
stava preparando per il matrimonio e lei non voleva farlo preoccupare e
distrarre con quella faccenda.
Quella
domenica era anche la festa di San Giovanni il Battista, molto sentita a Goa
che, per via della lunga occupazione portoghese, contava molti cristiani trai
propri abitanti.
Irma
e Bhavani si ricordarono della festa di paese di cui aveva loro parlato il
venditore, due giorni prima, quindi cercarono Vairochana per chiedere se fosse
possibile andarci. Il direttore del museo accettò e disse che sarebbero andati
verso le quattro del pomeriggio.
L’Italiana
si aspettava una celebrazione come quelle a cui aveva assistito in Tamil e
dunque aveva indossato uno degli abiti indiani che aveva comprato negli anni
passati; era blu con ricami in oro, le piaceva moltissimo.
Andarono
con l’automobile. Vairochana guidava, accanto aveva il nipote, mentre gli altri
tre erano seduti sui sedili posteriori. Per strada incrociarono la processione:
una colonna di nemmeno venti persone, vestiti in maniera normale, alcuni
avevano strumenti a fiato o a percussione e li suonavano, altri portavano dei
sacchi, altri ancora di quando in quando lanciavano dei petardi.
Per
le vie, poi, si vedevano molte persone con in testa ghirlande di foglie e
fiori.
Arrivarono
alla spiaggia e scesero. La striscia di sabbia che separava la terra dal mare
era piuttosto stretta, forse poco meno di quelle che si vedono in riviera
romagnola, ben diversa dalla spiaggia chilometrica di Marina Beach a Madras.
Non c’erano nemmeno banchetti o giochi per bambini; forse a causa della
stagione delle piogge.
Dovevano
aspettare lì l’arrivo della processione. Irma allora decise di passeggiare
lungo il bagnasciuga. Il Sole non era più alto nel cielo, ma mancava ancora del
tempo, prima che si tuffasse in mare; il vento era più forte che altrove ed era
ristoratore.
Era
piacevole sentire la sabbia sotto i piedi e in quel momento la giovane riusciva
davvero a non pensare a nulla e rilassarsi; se avesse voluto pensare, sarebbe
stato uno sforzo, e quindi la sua mente rimaneva quieta.
Dopo
alcuni minuti, Dhvana la affiancò e le chiese: “Stai
bene?”
Irma
si stupì della domanda e rispose: “Certo, sto benissimo. Perché?”
“Beh,
gli altri sono seduti là e tu ti sei allontanata …”
“Non
mi andava di stare seduta, preferisco camminare. Surya
veglia su di me, Vayu mi accarezza e Varuna lambisce le mie caviglie … come potrei stare
meglio?”
“Ah,
conosci i Deva.” replicò l’uomo, freddamente.
“Li
ho studiati, sono la mia materia.” spiegò Irma, evitando di aggiungere il fatto
di aver anche parlato ad alcuni di loro.
“Quindi
sei proprio specializzata in cultura indiana?”
“Sì,
sono un’archeologa orientalista. Il mio interesse principale è l’India,
secondariamente e strettamente legato viene la Persia
Antica, poi anche Mesopotamia ed Egitto.”
“Come
mai?”
“Ho
sempre amato l’India, fin da bambina … mi hanno influenzata molto le letture.”
“Quali?”
“Principalmente
il Mahabharata.”
“Davvero
lo hai letto? Ormai tra i giovani indiani non è più un must
come lettura.”
Irma
allora spiegò come avesse incontrato quel poema e come ne aveva cercate
versioni sempre più approfondite.
Continuarono
a parlare per un poco, finché non sentirono le musiche della processione
avvicinarsi.
Tutti
i presenti si radunarono in un punto e lì presto arrivò la colonna di persone.
I sacchi furono depositati a terra e svuotati, rivelando così che erano colmi
di noci di cocco.
Un
uomo, vestito esattamente come gli altri, pronunciò una frase e poi tutti si
fecero il segno della croce. Un attimo dopo, diversi uomini stavano prendendo
alcuni cocchi e li portarono in riva al mare; avevano in mano anche lunghi
bastoni, Irma non aveva visto da dove li avessero presi, iniziarono a colpire
ripetutamente i cocchi fino a che non si spaccavano; allora li raccoglievano e
li portavano agli altri per mangiare assieme.
Dopo
che i primi cinque o sei ebbero fatto, seguiti con grande attenzione da tutti
quanti, al situazione si fece un po’ più disordinata.
Un
sorriso illuminava il volto di Irma e commentò: “Prendere a bastonare noci di
cocco in riva al mare … ecco perché amo questo paese. C’entra con San Giovanni?
Devo chiedere a tuo zio qual è il significato di questo rituale.”
“Oh,
non credo che lui lo sappia.” replicò Dhvana “Lui non
è di queste parti, si è trasferito qui dopo aver sposato mia zia Ajaya. Te lo spiego io. È un’usanza recente. Circa
centocinquanta anni fa ci fu un’epidemia e la gente non sapeva cosa fare. Gli
anziani del villaggio si consultarono e deliberarono che per allontanarla si
sarebbero dovuti rompere cocchi in mare il giorno di San Giovanni e si sarebbe
dovuto continuare a farlo ogni anno per evitare che la piaga tornasse.”
“È
meraviglioso!” commentò Irma, estasiata.
Il
giovanotto rise a bocca chiusa e osservò: “Sembri molto affascinata; vuoi
provare?”
“Da
matti! Ma posso? Vedo solo uomini che lo fanno …”
“Non
c’è problema. Prendi un cocco.”
Irma
non se lo fece ripetere, andò dove si trovavano i cocchi, ne erano rimasti
pochi, e ne prese uno. Raggiunse il ragazzo che si era procurato un bastone
lungo poco più di un metro.
Sistemarono
la noce di cocco tra la sabbia, poi la ragazza strinse il bastone e prese la
mira. Il primo colpo finì sulla spiaggia e così anche il secondo, ma dal terzo
batterono solo il frutto. Irma era determinata, vedeva solo il cocco. Sollevava
il bastone e poi lo abbatteva con forza. Il cocco a volte rotolava via a causa
del colpo subito, ma lei subito lo inseguiva o lo fermava col piede o con il
bastone. Sentiva in sé di non poter rinunciare, voleva andare fino in fondo.
Dentro di sé si sentiva pervasa da una strana sensazione selvaggia. Sferrava un
colpo dopo l’altro senza sosta: non si sarebbe fermata fino a che non avesse
rotto quel cocco. Non vedeva niente e nessuno, solo la noce di cocco e la
sabbia attorno ad essa. Sembrava stesse brandendo una spada, si destreggiava
alla stessa maniera.
Infine
la noce di cocco si ruppe, dopo meno di un paio di minuti che erano sembrati
interminabili.
Irma
la sollevò felicemente e soddisfatta andò verso il gruppetto del museo per
mostrare la buona riuscita.
Nota d’Autrice
Ringrazio tutti i miei lettori per
seguirmi, spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Mi scuso per l’attesa, ma
questo racconto è un misto tra trama inventata e fatti reali che sto vivendo
durante la mia esperienza a Goa, dunque aspetto di avere qualcosa di carino da
raccontare, prima di scrivere.
Ditemi pure cosa ne pensate
Vi ricordo che questo racconto è il
seguito del mio romanzo “La chiamata di Visnu” che potete trovare qui:
http://www.bibliotheka.it/La_chiamata_di_Visnu_IT