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Autore: Marysia Lukasiewicz    26/06/2017    1 recensioni
[partecipante al 1° contest Yuri on Ice – Italia a tema Alternative Universe]
Prompt: High School!AU versione angst.
In cui Yurio è vittima di abusi domestici e Otabek è un adolescente problematico tossico dipende.
Otabek Altin e Yuri Plisetsky sono due anime spezzate dal dolore, accomunate dal reciproco e ardente desiderio di redenzione. Il primo, appena diciannovenne, ha già segnato davanti a sé un inevitabile destino di morte. Dilaniato dalle droghe che lentamente lo stanno divorando, sente di non avere la forza necessaria per rialzarsi dal baratro dei suoi errori. Il secondo, sedicenne fragile e immaturo, ha conosciuto dolori che nessun’anima meriterebbe di sopportare, una sofferenza che gli aveva corrotto irrevocabilmente l’innocente mente. Spaventato e ostile verso il mondo è alla disperata ricerca di una svolta nella sua vita di traumi. Attirati l’uno dal dolore dell’altro, impareranno a conoscersi e curarsi l’uno dell’altro senza giudicarsi. Entrambi distrutti dalla vergogna, troveranno la forza di farsi propri i dolori dell'altro e, insieme, trovare la tanto ardita felicità.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Jacques Leroy, Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
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Otabek aspettò la chiamata tutta la sera, fino all’ora di cena, ma Yuri non lo chiamò. Era tornato a casa in silenzio, il più velocemente possibile, e la prima cosa che chiese alla sorella appena arrivato in casa fu “Qualcuno ha chiamato?”. Ayzere, sua amata sorella, dagli occhi furbi di una volpe e il sorriso di una madre, gli aveva riferito che, come avveniva ormai da tempo, il telefono non s’era azzardato a squillare. Lo sguardo di Otabek si fece cupo, Ayzere lo notò, ma non gli chiese spiegazioni e lo lasciò in pace. Da quando erano rimasti soli il suo caro fratello aveva accumulato fin troppi scheletri nell’armadio e, nonostante il bel rapporto che gli univa, sapeva bene che egli stesso s’impegnava a nasconderle molti suoi segreti e guai. Lo faceva per il suo bene, Otabek aveva commesso troppi errori e non voleva metterci in mezzo anche l’innocente e dolce sorella, dal cuore grande come quello di un angelo, troppo pura per avere a che fare con lui. Aveva provato a persuaderlo dalle sue abitudini, dalla droga, ma era intervenuta quando ormai era troppo tardi, Otabek le aveva nascosto i suoi peccati finché questi non divennero irreversibili. E Ayzere non poteva ormai fare altro che medicare le ferite che il fratello si autoinfliggeva con la siringa in mano e un malato desiderio di fuggire da una realtà che era per entrambi troppo difficile da vivere. Eppure lei, fragile e delicata come la più preziosa delle opere d’arte, ci riusciva.  Otabek si chiuse in camera steso sul letto a fissare il soffitto. Sul comodino accanto a lui il telefono continuava a tacere, a torno a lui regnava il più calmo dei silenzi. Un sorriso beffardo si fece largo sul suo viso sciupato e magro, assieme all’amara consapevolezza di essersi lasciato illudere e persuadere dalla tentazione del momento. Non l’avrebbe chiamato, era chiaro, perché mai Yuri si sarebbe dovuto interessare ad un tossico screanzato, l’avrebbe dimenticato e avrebbe fatto bene. Si era illuso, Otabek, che nonostante il suo essere ignobile e deplorevole, potesse sperare in un qualcosa di più, in un’amicizia che in quel pomeriggio gli era parsa possibile e piacevole. Era stato lui stesso ad allontanarsi dal mondo, a rifugiarsi nella droga, era stata una sua decisione isolarsi, quando per lui la vergogna era diventata troppa, e quella vana illusione di poter tornare a vivere era una tentazione che doveva allontanare. Poche ore erano bastate per far maturare in lui il dolce desiderio di avere quel biondino dagli occhi delicati al suo fianco, un’ancora a tenerlo saldo al mondo e alla propria vita, ma solo una volta giunto a casa si rese conto che non era fattibile. Non era una persona stabile, Otabek, né affidabile. Era una mina vagante, un corpo senza anima che si teneva in vita con siringhe e fumo. Nessuno meritava di avere accanto un parassita simile, una zecca insaziabile di chissà quale famelico desiderio. Nessuno, neppure sua sorella, sangue del suo sangue, che era cresciuta troppo presto per essere una madre, sua madre. Eppure lei non l’aveva mai lasciato, né si era mai vergognata di lui. Otabek si sentiva una bestia quella sera, chiuso in camera sua, mentre l’invitate profumo della cena che sua sorella stava preparando si mescolava con l’insipido odore dell’eroina sciolta. Si drogava raramente in casa, soprattutto quando c’era Ayzere, ma quella sera non riusciva a resistere, non trovava stimoli che lo bloccassero da quel malsano desiderio. Teneva nascoste le dosi negli angoli più nascosti della camera, bustine bianche di eroina infilate nei punti più impensabili. Aveva riempito un cucchiaio da cucina di quella polvere fine e invitante e attese in silenzio che questa si sciogliesse col calore dell’accendino. Un aroma rivoltante gli riempì i polmoni e, seppur i suoi polmoni lo odiassero, il suo cervello, bruciato e sottomesso, non poté che gradire. Accanto a sé, sul letto, aveva poggiato l’arma del delitto, la sua fidata siringa assassina della sua anima. Era ancora sigillata, come appena uscita dalla farmacia.
Otabek vi fece scivolare dentro il liquido bollente, l’eroina aveva assunto un poco piacevole colorito giallognolo. Otabek sospirò, stringeva tra le mani la siringa, consapevole dell’errore che stava per compiere, del male che ne sarebbe scaturito. Ma la mano tremante non voleva fermarsi e nella sua mente devastata l’amaro desiderio di fuggire era più forte del poco senno che gli era rimasto. Avvicinò l’ago pungente alla pelle, un elastico stretto sul bicipite per ingrossargli le vene svuotate e indolenzite. La punta della siringa sfiorò il suo braccio rovinato e debole, Otabek esitò ed ebbe un fremito al sentire la vergognosa e irritante sensazione dell’acciaio freddo e tagliente lacerargli la pelle. Davanti a lui c’era uno specchio. L’aveva rotto settimane prima, il ragazzo, quando sul suo viso avevano fatto la loro comparsa le cicatrici del suo peccato, quando la pelle aveva cominciato a morire e le sue guance farsi sempre più magre. Aveva visto nei suoi occhi il nero bagliore dell’oscurità, il vuoto di chi sta perdendo tutto, e i suoi tratti ancora giovani divenire più marcati e crudi sul viso sempre più sciupato. Aveva odiato quella vista più di quanto aveva odiato la droga. Scagliò la prima cosa che si trovò tra le mani, guarda caso proprio una vecchia cornice d’acciaio, custode di una sua foto d’infanzia, contro lo specchio.
E questi si frantumò, ramificandosi in tanti piccoli e grandi frammenti. Ma questo non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Quando Otabek sollevò lo sguardo, cercando di ignorare l’ago che sfiorava la sua vena, si ritrovò decine di copie del suo riflesso, dei suoi occhi stanchi, fissarlo da ogni frammento dello specchio rotto. E il dolore che aveva cercato di ignorare si era amplificato ed era diventato ancora più opprimente. La mano tramava, sentì il flebile pizzicore della punta penetrargli appena la pelle, trattenne il respiro. Attorno a lui era il silenzio a fargli da compagno, una presenza costante nella sua vita, spia e spettatore dei suoi atti deplorevoli. Esitò come sempre, Otabek, quel fastidioso dolore lo bloccava, non aveva il coraggio di spingere più affondo la siringa, ma alla fine si ritrovava sempre a farlo. Poi, quando ormai la sua mente deviata, che faceva sempre più fatica a controllare, decise di andare fino in fondo, un suono acuto e stridulo squarciò  l’asfissiante silenzio che lo circondava. Otabek sussultò, nascose impacciato la siringa, in un irrefrenabile e vigliacco istinto di voler celare i propri peccati per non farsi cogliere in fragrante. Lo squillare del telefono si prolungò per qualche istante prima che il ragazzo si accorgesse della situazione, afferrò la cornetta esitante e rispose con voce tremante e sorpresa.

- Pronto? – gli giunse una tenera voce immatura e fanciullesca, come una calma e dolce nenia angelica, un innocente ninna nanna per allontanare via il male che si stava procurando. Il ragazzo dall’altra parte della cornetta, non sentendo arrivare risposta da un confuso e scosso Otabek, continuò. – Sono Yuri… Oggi siamo andati al parco insieme, ricordi? – la siringa gli scivolò tra le mani, le vene del moro si rilassarono e il sangue prese a scorrere lento e calmo nel suo corpo, senza essere ostacolato dall’odioso veleno. Non si aspettava più quella chiamata, Otabek.

- Certo che ricordo…- sospirò, il suo tono diventava stranamente più sano e piacevolmente armonioso quando parlava con Yuri, l’aveva già notato quel pomeriggio stesso. Un sorriso s’aprì timido tra le sue labbra, sottile e vago. – Mi fa piacere sentirti. – dall’altra parte, Yuri sorrise a sua volta.

- Scusami, mi hanno dato solo ora il permesso di telefonare. – sussurrò il biondino in tono mortificato. Otabek non rispose, non ne sentiva il bisogno. Non aveva nulla di che scusarsi, Yuri, anzi. Aveva pensato a lui e quando aveva potuto l’aveva chiamato. E, anche non sapendolo, l’aveva salvato da un ennesimo folle gesto di dolore. – Comunque, che facevi? –

Otabek sussultò a questa domanda, con la coda dell’occhio vide la siringa, la sua arma, abbandonata sul letto, accanto a lui, ancora colma di morte e veleno. Deglutì, distolse rapidamente lo sguardo, poi chinò il capo, come a volersi scusare, con se stesso e con quei pochi che sembravano preoccuparsi per lui. – Nulla… - un carico di vergogna e rimorso gli si mescolò in gola, distorcendo la sua voce nel suo solito tono roco e vuoto. Aveva gli occhi persi nel nulla, come intimoriti dallo sguardo accusatorio di chi lo giudicava. Yuri percepì quella nota di dolore che gli rese la voce graffiante, si preoccupò come aveva fatto quel pomeriggio.

- Otabek, posso chiederti un favore? – il tono di Yuri era calmo, innocente, un lieve canto dalle note piacevolmente delicate che allontanavano dall’altro ogni tipo di preoccupazione. Una voce che con lui diventava candida, comprensiva, perché Yuri non sentiva il bisogno di provare diffidenza nei suoi confronti, tanto simile era il loro malessere.

- Dipende, Yuri… Se posso, ovviamente. – Otabek esitò, non si sentiva in grado di fare favori agli altri senza temere di deluderli. Non era in grado di badare a se stesso, non poteva pretendere di essere di aiuto agli altri, ma voleva tentare, voleva fare tutto ciò che era il suo potere per essere utile a qualcuno.

- Lunedì possiamo incontrarci? A scuola… - chiese timidamente il biondino, Otabek non poteva vederlo, ma i suoi occhi risplendevano di un meraviglioso verde speranza, la speranza che, nel suo piccolo e nel suo dolore, potesse aiutare il nuovo amico nelle sue atroci pene. Il sorriso del moro si ampliò e si fece grande, bello, splendente come non lo era mai stato da un paio d’anni a quella parte.

- Certo. – il viso di Otabek, il suo tono, non riuscivano ad esprimere la felicità che quelle poche parole gli avevano fatto maturare nel cuore.  Non potevano più farlo. Eppure gioiva, nel più profondo del cuore era felice.

- Però… - Yuri teneva il capo chinato, giocava nervosamente col cavo del telefono, rigirandoselo tra le dita magre e sinuose. – Ti prego… non farlo più fino a lunedì… - la sua voce, troppo profonda e matura per essere quella di un sedicenne esile e minuto, emanava preoccupazione e ancora affetto, un desiderio inaspettato di essere ascoltato. – Farti del male, intendo… drogarti.- non aveva la concezione della gravità della situazione di Otabek, forse perché, nel suo essere maturato troppo in fretta, era fin troppo innocente per capirla. L’aveva visto soffrire non voleva accadesse nuovamente, voleva proteggere quell’amico disperato che non aveva avuto cura della propria umanità.

Otabek sussultò, poi emise un sospiro e si lasciò andare in una flebile, sottile e disperata risatina. Le braccia bruciavano e le vene non la smettevano di pulsare, come a prenderlo in giro, a ricordargli di quanto fosse stato idiota ad intraprendere quella strada senza uscita. – Non è così facile, Yuri…- ci pensò, il moro, e non era facile per nulla. Per quanto volesse, per quanto provasse, non ce l’avrebbe fatta e anche solo provandoci avrebbe solo peggiorato la situazione. Era solo, abbandonato con una sorella premurosa che, nonostante l’amore che provava per lui, non riusciva a portarlo fuori da quel mondo, non poteva. E Otabek si vergognava troppo a chiedere aiuto, paura che ovunque andasse avrebbe trovato solo porte chiuse, occhi diffidenti, malelingue e altra insopportabile sofferenza. – Ma ci proverò, se proprio lo desideri.- ci avrebbe provato, comunque, con tutta la poca forza che gli era rimasta in cuore ci avrebbe provato. La mente distrutta chiedeva pietà, aiuto, sapeva che quello non sarebbe stato il modo giusto. Perché nonostante la droga lo stesse uccidendo, lui ne aveva bisogno, estremo bisogno. Ma l’avrebbe abbondonata, se era questo il volere del suo primo, unico e caro amico, anche a costo di ammazzarsi definitivamente. Non aveva più nulla da perdere, Otabek, assolutamente nulla.

I due si diedero un luogo d’incontro, in mensa, all’ora di pranzo, dove avrebbero mangiato e parlato assieme, dove si sarebbero protetti l’uno dai mali dell’altro. Yuri accennò al suo problema con alcuni individui a scuola, ma nonostante le insistenti e preoccupate domande del povero moro, decise di non approfondire la questione al telefono. Avrebbe preferito parlargliene dal vivo, esattamente come aveva fatto Otabek raccontandogli dei suoi problemi con la droga. I due si salutarono dopo pochi minuti, ma per entrambi furono attimi di estrema felicità e libertà. Era una cosa da ragazzi normali avere una chiacchierata al telefono con un amico, organizzarsi per vedersi a scuola, parlare. Eppure non avevano mai avuto occasione di sperimentare una così semplice e normale esperienza che, nel suo essere quasi insignificante, assumeva per loro un significato enorme di felicità.

- Ti sei fatto di nuovo, Beka..? – Ayzere entrò in camera di Otabek e, vista come al solito la siringa abbandonata accanto a lui sul letto, aveva sentito il cuore farsi pesante e dolente per l’ennesima volta, distrutta nel vedere il suo amato fratellino in quello stato pietoso. Ma Otabek sorrideva, quel poco che bastava per calmare la sorella angosciata e preoccupata.

- No, stasera no.- il suo viso sembrava tornato quello di quando era bambino, ancora troppo innocente e fragile. Ayzere non lo vedeva così raggiante e spensierato da quando erano ancora in Kazakhstan, ad Almaty, a giocare in strada con i genitori. I loro sguardi s’incontrarono, entrambi si sorrisero.

- È pronta la cena. – e per una sera l’atmosfera a tavola sembrava quella di una normale e tranquilla famigliola di campagna.
 

Come detto già, non sarebbe stato facile, neppure un po’, smettere di massacrarsi, acquietare il proprio incontrollabile e malato bisogno di alimentare il male che lo soffocava. Non era una sua scelta, non era un suo desiderio, ma la sua mente, il suo corpo, il suo contaminato e sporco sangue chiedevano di più, sempre di più, sempre più male. Otabek non pensava di potercela fare, di riuscire a ribellarsi, a sopportare, a sopprimere quel malessere soffocante che l’opprimeva. Eppure ce la fece, in qualche modo, ad abbandonare la siringa, l’eroina, l’erba, per quelli che gli sembrarono due giorni infiniti e strazianti. Aveva preso la questione sottomano, all’inizio, scoraggiato dalla sua già nota debolezza e viltà, avrebbe tradito il suo amico e avrebbe ceduto, se ne sarebbe vergognato, ma non poteva fare altro. Eppure quando vide il viso della sorella quella sera, a cena, finalmente rilassato, felice, si convinse definitivamente ad affrontare quell’azzardata sfida suicida. Aveva preso la sua scorta di dosi, l’aveva chiusa in un cofanetto di metallo e l’aveva nascosta nello sgabuzzino di casa, piccolo e pieno di cianfrusaglie. La chiave la teneva Ayzere, che l’avrebbe aperta solo in caso di estrema necessità, Otabek aveva voluto così. Rimase nella sua camera, poi, per tutto il week end, lontano dalle tentazioni e dal mondo. Ascoltava musica, leggeva qualcosa, poi prendeva il telefono e si scambiava messaggi frugali con Yuri, aggiornandolo sulla sua eroica impresa. Il primo giorno sembrò andare tutto bene, o quanto meno non andò troppo male. Già dalla domenica, però, la questione cominciò a degenerare fin troppo rapidamente. Non toccò cibo tutto il giorno, non se la sentiva, e più cercava di reagire, più lo sconquasso che gli sconvolgeva lo stomaco si faceva insopportabile. Nella testa aveva preso vita un inferno di fuoco, fiamme, pensieri sconnessi, dolore, come di un migliaio di piccoli e affilati aghi a pungergli le meningi. Otabek non aveva mai provato un dolore simile, o magari sì, ma la droga lo confondeva e quelle pene le alleviava quanto bastava a convincerlo a non abbandonarle. Forse un minimo di forza l’aveva, anche se dubitava di sé. Quel piccolo e fragile desiderio di rivincita, di rendere felice la sorella dopo anni di angosce, di coltivare quell’amicizia tanto breve quanto meravigliosamente inaspettata che lo spinse ad arrivare al lunedì senza aver messo mano su qualcosa di schifosamente pericoloso. E nonostante il dolore si sentiva fiero di sé.


Yuri, chiuso nella sua piccola stanza grigia e scura, attendeva il nuovo incontro con fervore. Teneva le gambe incrociate e stava seduto sul letto, ben più morbido di quello dove aveva passato l’infanzia, e guardava il cielo e le sue innumerevoli sfumature attraverso la sottile e fragile finestra che lo divideva dal mondo. La sua stanza era il suo guscio, la sua fortezza, un piccolo universo parallelo al nostro dove il giovane e fragile Yuri dava sfogo a rimorsi e dolori che altrimenti lo avrebbero soffocato. Aveva un quadernino nascosto nel cassetto della scrivania e lì, abbozzati a matita, c’erano i suoi ricordi più macabri. Pareva un fumetto dell’orrore, una raccolta di opere grottesche e surreali da far gelare il sangue nelle vene anche del più coraggioso e forte di stomaco. Per Yuri erano solo frammenti di una vita vissuta fin troppo recentemente per poter essere dimenticata. Sull’ultima pagina, quella stessa sera, aiutato dalla flebile luce dorata del tramonto, aveva abbozzato con cura e dedizione una nuova importantissima scena della sua odiata vita. Disegnò con cura le foglie cadenti degli alberi in autunno, una panchina e infine abbozzò le figure di due giovani ragazzi seduti l’uno accanto all’altro, nascosti nei giacconi pesanti come a volersi proteggere. Dedicò particolare cura nel disegnare quanto più dettagliatamente possibile il viso di Otabek, come fosse una fotografia, un cimelio, come a voler imprimere sulla carta ogni singolo particolare del suo viso tanto distrutto quanto tremendamente bello. Lo squadrò, non era soddisfatto della sua opera, ma non poteva fare di meglio. Il ragazzo, l’amico, era troppo particolare e unico per poter essere riprodotto fedelmente, anche dalla mano del più grande degli artisti. Abbozzò infine il proprio viso, protagonista di tutte le scene del suo libricino in tutta la sua oscena crudeltà. Per la prima volta in assoluto si rappresentò con un grande, splendente e irriconoscibile sorriso sulle labbra.
 

Quando giunse l’ora di pranzo, Yuri si gettò fuori dalla classe con una velocità e un entusiasmo innaturale. Non badò alle risatine dei compagni, ormai sua costante piaga, non si fermò neppure a salutare il professore. Appena suonò la campanella lui era già in corridoio a correre verso la mensa. Otabek avrebbe voluto avere una reazione simile, ma non era nelle condizioni fisiche per farlo. Era stato bocciato già due volte, per ovvi motivi, ma in classe non dava mai problemi. Non infastidiva i compagni, non discuteva con i professori. Semplicemente non era nella condizione di ascoltare, di imparare o di essere anche solo un minimo partecipe alla lezione. Si metteva con la testa sul banco, straziato dai problemi che aveva, e nessuno lo vedeva né lo sentiva. Era come un fantasma, una presenza vaga che ogni tanto si materializzava in classe ad occupare svogliatamente l’ultimo banco della fila vicino alla finestra. E quel lunedì era lento, devastato, nonostante il desiderio di rivedere il suo amico lo spronasse e reagire contro il disagio e il dolore che l’astinenza aveva cominciato a procurargli. La testa era un inferno, un delirio di dolore, la sentiva pesante come un masso, le spalle fragili e indebolite da anni di pigrizia facevano fatica a restare dritte. In classe i pensieri, il dolore, si erano accumulati nella mente confusa, non abituata a tale situazione, e avevano dato forma a vere e proprie allucinazioni strazianti. Aveva provato ad addormentarsi e a placare quel delirio che lo stava devastando, ma non ci riuscì e dovette attendere nella sofferenza più indescrivibile che quell’incubo finisse. Voleva solo un po’ di calma, silenzio, o semplicemente una mano, un abbraccio, Yuri o semplicemente una dose. Voleva solo smettere di provare altro dolore.

Yuri era già in mensa mentre Otabek agonizzava sul suo banco nel disperato tentativo di trovare la forza per alzarsi e raggiungerlo. Stava sulla soglia dell’entrata, a testa bassa, come a volersi nascondere da sguardi indiscreti di chi, ormai dal suo arrivo in quella scuola, aveva osato approfittare della sua fragilità sia fisica che, soprattutto, emotiva. Non era capace di difendersi, solo a serbare odio e angoscia nel suo cuore troppo freddo per essere quello di un ragazzino. E lì, in quella mensa, le persone che odiava abbondavano, non farsi vedere era molto meglio per tutti.

- Yuri! – sentì una voce chiamarlo alle sue spalle, la riconobbe in un istante e gli si gelò il sangue nelle vene. Fastidiosa, irritante, provocatoria, non era mai un buon presagio per il povero Yuri e per la sua pace interiore. Lo ignorò, come aveva imparato a fare, e rimase in attesa, in silenzio. – Non ti facevi vedere da un po’ qui, che succede? – ridacchiò il ragazzetto alle sue spalle, Yuri tentò di controllarsi, di placare le mille e ingombranti voci che gli infestavano la mente. Le stesse voci dal tono straziante che l’avevano accompagnato per tutta la vita, quando ancora viveva a casa di suo padre. Odiava chi si prendeva gioco della sua debolezza esattamente come odiava chi gli aveva fatto del male. – Vuoi pranzare con noi? Avevamo proprio voglia di adottare un gattino randagio.-

- Togliti dal cazzo, JJ. – Yuri aveva una lingua inaspettatamente biforcuta e tagliente, irrefrenabile e pungente, che stonava parecchio con il suo essere fragile, debole, segnato da un passato talmente oscuro da apparire quasi impossibile. Era la sua unica arma, la sua unica misera possibilità di ferire chi faceva a lui del male. Ovvio, dipendeva da chi. Non avrebbe mai risposto così a suo padre.

- Cos’è, il micino ha la rabbia? – JJ, il cui nome completo era Jean-Jacques, troppo lungo e serioso per uno come lui, era famoso per il suo sorriso spiacevolmente irritante e odioso. Era un ragazzo affascinante, l’idolo delle ragazze, un donnaiolo popolarissimo in tutta la scuola che dominava in quanto a talento e bellezza su chiunque. Capitano della squadra di hockey aveva portato la scuola vincere per tre volte consecutive il campionato nazionale scolastico, un record che nessun altro istituto aveva mai eguagliato. Si dice anche avesse un senso dell’umorismo piuttosto peculiare ed “elevato”, a tratti perfino raffinato, che lo rendeva una delle persone più amate in circolazione. Yuri, però, non coglieva neppure un minimo di raffinatezza o elevato umorismo nelle battute che gli riservava con quel tono sprezzante e viscido da serpe.

- Ma non capisci proprio un cazzo, ti ho detto di lasciarmi in pace, tu e la tua zoccola. – non si risparmiava, il biondino dal viso infantile, quando desiderava essere lasciato in pace. Odiava essere preso di mira, odiava essere al centro dell’attenzione, odiava quel tono tanto fastidioso. Voleva urlare, piangere, rifugiarsi in bagno da solo e scacciare via tutto quel dolore.

- Forse sei tu che non capisci un cazzo. – il tono di Jean-Jacques s’era fatto d’un tratto ancor più aspro, quella nota sprezzante che Yuri tanto odiava si fece più viva, pungente e schifosa. Lo prese per le spalle, magre, sottili, esili, tanto forte da poterle sgretolare tanto erano fragili. Lo costrinse a voltarsi, lo spinse contro il muro. La sua donna, Isabella, cheerleader dalla bellezza notoriamente impressionante, aveva il viso contratto in un’orrenda espressione di disgusto. – Tu zoccola non lo dici alla mia ragazza, capito micino? – lo sguardo di JJ era profondo, indecifrabile, esattamente come lo era il suo immortale ghigno. Yuri faceva fatica a reggere il suo sguardo, faceva fatica a reagire dopo una vita fatta di sottomissione. Eppure ci provava, ci riusciva e sul suo viso aveva fatto nascere un’espressione tanto vuota quanto colma d’odio. Non rispose, il moro dagli occhi profondi s’irritò ancora. – E poi da che pulpito, proprio tu dai della zoccola a Bella.- Yuri sussultò, non si aspettava quelle parole e non capiva. La sua maschera di ghiaccio prese a vacillare e JJ lo notò. Isabella rimase immobile alle spalle del fidanzato, continuava a squadrare Yuri come fosse la più schifosa delle bestie in circolazione. – Pensi che a scuola non si sappia? – si lasciò sfuggire una risatina, Yuri ebbe un fremito. – Dovevi divertirti tanto da bambino, no?- il biondo s’irrigidì come una statua, l’espressione vuota e cupa da soldato si frantumò e il suo viso tornò innocente, fragile, tornò ad essere il bambino traumatizzato che era e che voleva celare.

Forse neppure si stava rendendo conto, Jean-Jacques, di quanto quella frase potesse fare male. O almeno Yuri sperava che non se ne fosse reso conto, nonostante lo odiasse, sperava che quella cattiveria così maligna non fosse mirata. Magari in realtà non sapeva, non conosceva quello che gli era successo, il passato da cui cercava di scappare. Yuri prese a tremare, un vecchio ma indimenticabile dolore iniziò ad ardergli in mezzo alle gambe, forte, sempre più forte, sempre più vicino al dolore che aveva provato tempo prima. La paura che quel dolore portava era indescrivibile, la paura che lui fosse ancora lì, pronto a prenderlo e a punirlo per chissà quale effimero male. JJ lo fissava mentre lentamente si trasformava nel vero Yuri, nel sedicenne debole e spaventato, nel bambino terrorizzato, ubidiente, sottomesso. Il sorriso spregevole non abbandonò mai il suo viso. Non aveva neppure il coraggio di urlare, Yuri, come fosse ferito, trafitto, inchiodato al muro da quelle parole spinte e crudeli, dai ricordi e dalla paura. Voleva mandarlo a fanculo, perdonatemi tale scempio nella prosa, spingerlo via, toglierselo di dosso, e così urlare quanto facesse male. Non ne aveva la forza e sia JJ che Isabella stavano godendo di quel dolore che, finalmente, l’avevano costretto a mostrare. Ridevano per aver piegato di nuovo l’animo duro di quella creatura fragile.

Un colpo di tosse chiaramente e volutamente spazientito interruppe la grottesca e inaccettabile scena, Jean-Jacques si voltò stizzito e Yuri, una volta interrotto il contatto con gli occhi del bulletto di turno, si lasciò sfuggire un singhiozzo che altrimenti l’avrebbe soffocato.

- Gradirei ti levassi dalle palle, Leory. – Otabek, nonostante la confusione che gli annebbiava la mente, nonostante avesse difficoltà addirittura a stare in piedi, non poté che intervenire in difesa dell’amico, chiaramente scosso, distrutto da qualcosa che JJ gli aveva fatto. I loro occhi s’incontrarono, a Yuri parve come se un angelo fosse intervenuto in sua difesa, in tutto il suo brillante fascino. Jeann- Jacques si lasciò andare in un’ennesima risata.

- Te la fai perfino con i drogati. – sembrava una vipera, JJ, un serpente assetato di sangue che diffondeva veleno a tutto spiano attorno a sé. Otabek si sentì particolarmente colpito dalle sue parole, fecero male e non se l’aspettava. Era un’ovvietà, una realtà evidente che non poteva nascondere, un fatto troppo chiaro da poter essere ignorato, ma faceva male lo stesso. Faceva male che il suo dolore e i suoi errori gli venissero rinfacciati con tanto disprezzo quando era lui il primo a cercare di allontanarli. Eppure non si sentiva nella posizione di controbattere: che facesse male o no, lui lo era.

- Yuri? – Otabek finse di non aver badato a quelle parole struggenti, rivolse invece lo sguardo all’amico che, felice del suo intervento, sembrava essersi ripreso da quello spiacevole momento di dolore. Il biondo dal corpo esile e dalle braccia magre spinse via il ben più robusto JJ, con un coraggio inaspettato che gli aveva animato il cuore dall’arrivo di Otabek. “Fanculo” gridò il ragazzino con voce innocente, Jean-Jacques era sbigottito, Isabella ammutolita. E Otabek e Yuri poterono finalmente godersi la pausa assieme, in tranquillità.
   
 
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