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Autore: Marysia Lukasiewicz    26/06/2017    1 recensioni
[partecipante al 1° contest Yuri on Ice – Italia a tema Alternative Universe]
Prompt: High School!AU versione angst.
In cui Yurio è vittima di abusi domestici e Otabek è un adolescente problematico tossico dipende.
Otabek Altin e Yuri Plisetsky sono due anime spezzate dal dolore, accomunate dal reciproco e ardente desiderio di redenzione. Il primo, appena diciannovenne, ha già segnato davanti a sé un inevitabile destino di morte. Dilaniato dalle droghe che lentamente lo stanno divorando, sente di non avere la forza necessaria per rialzarsi dal baratro dei suoi errori. Il secondo, sedicenne fragile e immaturo, ha conosciuto dolori che nessun’anima meriterebbe di sopportare, una sofferenza che gli aveva corrotto irrevocabilmente l’innocente mente. Spaventato e ostile verso il mondo è alla disperata ricerca di una svolta nella sua vita di traumi. Attirati l’uno dal dolore dell’altro, impareranno a conoscersi e curarsi l’uno dell’altro senza giudicarsi. Entrambi distrutti dalla vergogna, troveranno la forza di farsi propri i dolori dell'altro e, insieme, trovare la tanto ardita felicità.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Jacques Leroy, Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
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Yuri si premeva le mani contro la bocca, nel disperato e vano tentativo di soffocare i singhiozzi avviliti e logoranti. Si era gettato nel primo bagno che aveva trovato, non aveva pensato minimamente che qualcuno potesse ascoltarlo. Si era buttato contro la parete e aveva iniziato a piangere, ad urlare, poi a tirare calci e pugni all’aria in preda alla rabbia. Un eterno momento di sfogo straziante, un atroce tentativo di liberarsi di tutto quell’odio che aveva accumulato dentro di sé, essere dalla fragilità incommensurabile. L’innocenza che gli era stata portata via aveva lasciato in lui un vuoto capace di essere colmato solo dall’ira, dalla diffidenza e dalla paura più cieca. Urlava perché sentiva di non poter fare altro, con le mani tra i capelli si lasciava andare in pianti disperati che nessuno aveva mai voluto sentire, era solo come un cane. E quando urlava, l’odio svaniva, e un dolore indescrivibile andava a colmare il suo fragile essere. E così si era accasciato contro una parete, rannicchiato come un bambino, e aveva lasciato sfogo alle lacrime e ai singhiozzi. Il bambino spaventato che era in lui tornava sempre allo scoperto, chiedeva pietà, comprensione, ma in cambio riceveva solo violenza e umiliazioni. Yuri si era rifugiato nei bagni della scuola perché era convinto che nessuno lì l’avrebbe sentito. Ed era rimasto paralizzato quando, attraverso il sottile muro che lo divideva dal bagno accanto, sentì levarsi dei sospiri profondi, lenti e pacati. Yuri non voleva essere ascoltato, non voleva che il suo dolore lo umiliasse ancora e ancora, voleva fingersi adulto nella fragilità del suo animo fanciullesco. Così si premeva le mani contro la bocca, nel disperato e vano tentativo di soffocare i singhiozzi avviliti e logoranti e non essere sentito.

Il perché Otabek si fosse ritrovato proprio in quel bagno è una storia che suscitava in lui grande vergogna e sconforto. Non aveva un animo nobile, nonostante il suo invidiabile cognome trovasse origine in una delle più fiere discendenze di guerrieri kazaki. Era sempre stato molto volubile, piatto, alla costante ricerca di una svolta in quella che lui considerava essere una vita monotona e noiosa. Non aveva particolari talenti, se non un’impeccabile senso del ritmo e una grande familiarità con le console da DJ, e questo l’aveva sempre relegato ai margini della società adolescenziale odierna. Era taciturno e schivo, freddo, restio nel compiere nuove amicizie, un lupo solitario che trovava piacere solo nel suo mondo alternativo e chiuso. Un poeta, quasi, sensibile come pochi. Percepiva la sua diversità e l’essere guardatoto con sguardo diffidente l’aveva sempre ferito, allontanandolo sempre di più da quella che per lui era una società morta, troppo schematizzata per essere umana. Aveva trovato un suo modo particolare per allontanarsi dalle persone che tanto evitava, un modo che, come lui, aveva ben poco di nobile. Aveva iniziato come tutti gli adolescenti frustrati come lui, ma la questione si era spinta troppo oltre, e Otabek se n’era accorto quando ormai era troppo tardi. E così, mentre due estati prima si sballava con una semplice “canna”, si era ritrovato in quel bagno, quel giorno, con una siringa infilata nel braccio, l’atroce sensazione di confusione a sconvolgergli la testa, e il doloroso scorrere dell’eroina nelle vene.

In un istante i singhiozzi strozzati di Yuri e i profondi respiri di Otabek si mescolarono a formare un silenzio quasi tombale. Nessuno dei due aveva il coraggio di parlare. Sapevano ognuno della presenza dell’altro, ma restavano muti, affinché fosse il reciproco desiderio di solitudine ad unirli, invece che le parole. Si vergognavano entrambi del proprio essere, del proprio corpo piegato e sfruttato. Eppure non si mossero, rimasero ognuno ad ascoltare i lamenti dell’altro, come se quella silenziosa compagnia fosse in qualche modo piacevole. Yuri sentì il compagno gemere dall’altra parte, l’ago infilato goffamente in vena cominciava a bruciare tremendamente. Otabek lo tirò fuori con inesperta non curanza, delle gocce di sangue si riversarono a terra, per qualche attimo sentì il braccio intorpidirsi, l’eroina acida corrodergli il corpo fino a salire al cervello. Un ennesimo livido apparve sul suo braccio martoriato, frutto della sua ferocia e del poco rispetto che aveva di sé e del suo corpo. Il suo intero corpo prese a tremare, la testa a bruciare come l’inferno. Sarebbe svenuto, probabilmente, non si era risparmiato, quella volta, con la dose. Un giorno si sarebbe ammazzato, Otabek se lo sentiva, se ne vergognava, ma sapeva che non sarebbe mai stato in grado di smettere. Aveva fatto di quella sofferenza una compagna, la accettava, la sopportava, e si lasciava trascinare da lei in un vortice di confusione e calma, dove per qualche ora si sentiva al sicuro. Quel fastidioso dolore era il prezzo che doveva pagare per poter godere di un’egoistica pausa dal mondo, dalla società, e quindi la affrontava con piacere. Barcollò, la siringa gli cadde dalle mani, ancora macchiata di sangue ed eroina, poi Otabek scivolò a terra, sbattendo rumorosamente contro la parete. Dall’altra parte Yuri ebbe un fremito. Rimase in attesa qualche attimo, quanto bastava per rendersi conto che i sospiri nel bagno accanto erano improvvisamente cessati, lasciando spazio ad un flebile e sottile respiro, quasi impercettibile. Rimase immobile, con l’orecchio attento, rannicchiato nel suo angolo, come un attesa di un segno. Otabek teneva gli occhi appena socchiusi, il respiro calmo e lento come se stesse dormendo. La testa girava come su una giostra, faceva male, ma quel dolore gli permetteva di non pensare ad altro, e il che era gratificante. Nonostante non fosse lucido, non fosse in grado di pensare, si sentiva come in un sogno, che a tratti era meraviglioso e a tratti diventava doloroso. Gemette, e dall’altra parte Yuri lo sentì ancora.

- Hey, che cazzo di problemi hai..? – il biondino, rannicchiato e tremante, non aveva mai avuto un atteggiamento amichevole verso gli sconosciuti. Sentiva il bisogno di proteggersi, di allontanare chi volesse fargli del male, e col tempo aveva imparato a non fidarsi di nessuno. Ma il suo tono, fragile e esitante, lasciava trasparire quella che in realtà era innocente preoccupazione, al di là della frase scontrosa.

Un mugugno strozzato gli rispose dall’altra parte, mentre il diciannovenne dai capelli corvini, dal volto sciupato e scavato dalla droga, tentava di rialzarsi in piedi. Un formicolio insopportabile gli opprimeva le gambe, come se un’intera colonia di formiche vi stesse passeggiando sopra. Sentiva il sangue nelle vene farsi caldo, denso, e una piacevole sensazione di conforto si fece largo in lui. Barcollò ancora, confuso e spaesato, così ricadde nuovamente a terra, in un tonfo secco e spaventoso. Nel bagno accanto Yuri sussultò, trattenendo un grido spaventato. Odiava i suoni forti e improvvisi, aveva imparato che non erano mai di buon auspicio.

- Porca puttana, che cazzo ti succede? – il biondo dagli occhi puri andò nel panico. Fissava spaventato il muro che lo separava dall’altro come sperando di poter intravedere qualcosa attraverso esso. Strinse i pugni, poi scattò in piedi, sentendo dentro di sé la spaventosa sensazione che attorno a lui stessero accadendo cose brutte, orrende, un dolore che lui era stanco di vedere e sopportare.

Otabek tirò un sospiro profondo, la voce di Yuri gli appariva così lontana e vaga, confusa almeno quanto lui, un sogno parallelo a quello che stava vivendo. Gli occhi stanchi non volevano restare aperti, ma non voleva assolutamente svenire. Non lì, non a scuola, non dove sentiva che nessuno l’avrebbe aiutato. Si passò una mano tra i capelli fradici di sudore, il dolore al braccio, nonostante lo stato confusionario, non accennava a sparire.

- Scusa… - si azzardò a dire Otabek, sfruttando la poca lucidità che gli era rimasta. – Non volevo interrompere il tuo sfogo.- e detto ciò, stordito, si ritirò di nuovo in piedi con le forze rimaste. Non badò alla siringa abbandonata sul pavimento, sporca del suo sangue codardo ed ignobile, tanto nessuno si sarebbe fatto problemi nel trovarla lì, ormai la scuola aveva perso l’abitudine di perseguitare i drogati.

Yuri rimase in silenzio, ascoltando la porta del bagno accanto aprirsi con esitazione. I passi pesanti dell’altro riempirono l’angosciante silenzio che si era creato tra i due, scanditi e lenti. Una fila di specchi sovrastava i lavandini, proprio davanti alle porte dei bagni. Otabek fissò la sua figura barcollante e ne rimase disgustato. La pelle lucida di sudore sembrava essere di plastica, le guance scavate dalla droga erano simbolo di quanto questa lo stesse logorando. Due occhiaie profonde e nere si stagliavano sotto gli occhi impenetrabilmente sofferenti. Le labbra secche avevano perso il loro infantile colorito roseo già da tempo. I capelli arruffati non avevano più una forma, ai lati la rasatura stava già ricrescendo, concedendogli un’aria ancor più trascurata. La pelle era pallida. Sembrava un cadavere, Otabek, un morto che continuava ad infestare la Terra con la sua presenza schifosa. Al vedersi in quello specchio sentì risalire in gola un conato di vomito, misto all’acido sapore dell’eroina e gli bruciava in corpo. Aprì in fretta e furia il rubinetto, gettando il braccio martoriato e dolente sotto l’acqua gelida. Un gemito di dolore riempì i bagni quando l’acqua prese a stuzzicare le ferite aperte e sporche di peccato e vergogna. Si morse il labbro, ma non tolse il braccio da sotto l’acqua, nonostante ciò gli comportasse una sofferenza quasi maggiore al delirio che gli devastava la mente. Trattenne un grido disperato, un grido di dolore, vergogna, rabbia, risentimento, odio nei suoi confronti, che si stava gettando in braccio alla morte da solo. Yuri non aveva il coraggio di uscire, di reagire, né si sentiva in grado di aiutare qualcuno, chiunque fosse, quando sentiva di essere lui stesso il primo ad aver bisogno di aiuto. Quei gemiti strozzati, quel dolore, erano per lui troppo familiari, una quotidianità che cercava a tutti i costi di allontanare. Sentì levarsi un bruciore devastante in mezzo alle gambe, laddove la sua innocenza veniva distrutta notte dopo notte, punizione dopo punizione, ingiustizia dopo ingiustizia. Nelle mura della sua stessa casa giacevano dolori che non poteva e non doveva rivelare, dolori che, quantomeno a scuola, voleva esiliare in un angolo del suo essere. Si lasciò sfuggire un singhiozzo, lasciandosi poi andare in un pianto silenzioso, mentre i gemiti incessanti di Otabek, accompagnati dal piacevole e calmo scorrere dell’acqua, si facevano padroni della sua mente. Yuri si premette le mani contro le orecchie, nel disperato tentativo di isolarsi, di allontanare altra sofferenza dalla sua vita.

- Basta cazzo! Basta farti male! – urlò poi il biondino, stanco, esausto di tutto quel dolore inutile. Si alzò in piedi e, con un coraggio che non pensava di avere, aprì la porta del bagno, ritrovandosi finalmente faccia a faccia col suo compagno di sventura.
Davanti a sé vide un ragazzo sciupato, pallido, trascurato piegato in due dal dolore, gli occhi lucidi lasciavano trasparire il delirio e la confusione che lo perseguitavano. Il braccio destro, che era segnato da lividi neri e viola, era immerso nell’acqua, ancora sanguinante e ferito. Yuri corse da lui e, senza pensarci due volte, richiuse il rubinetto dell’acqua con scatto furente. Otabek emise un sospiro di sollievo, il braccio libero da quel dolore che gli aveva autoinflitto. Yuri tremava come una foglia sul punto di cadere, spaventato dalla possibile reazione del ragazzo, terrorizzato da una possibile punizione. Il respiro si fece più rapido e asfissiante, non poté far a meno che abbassare la testa, mortificato, come a chiedere perdono per la sua azione azzardata. Otabek sollevò lo sguardo, la vista di quegli occhi spaventati gli fece riprendere un minimo di lucidità, quanto bastava per elaborare un sincero sentimento di gratitudine.

- Grazie…- gli sussurrò, con voce rotta dal dolore e dalla confusione. Un ringraziamento sincero, dolce, e Yuri non poté che notarlo. Il tremore si placò appena, poi il suo sguardo prese a vagare sul corpo trascurato del ragazzo.
I lividi sulle braccia erano orrendamente disgustosi, ma non lo spaventavano, nonostante la società imponesse di aver paura dei drogati, perché li ritiene violenti e spietati. Otabek lo era, sì, era un violento, uno spietato assassino che si stava lentamente e dolorosamente portando via la vita e la felicità. A Yuri non poteva far altro che pena. I loro sguardi, vuoti e spenti, si incontrarono e per un attimo il freddo di quella stanza sembrò farsi più piacevole e accogliente.


Non si sa poi quale scherzo del destino li portò a passare quel pomeriggio assieme. Da uno sguardo timido e distaccato era scaturito un imbarazzante silenzio, poi la loro reciproca diffidenza li unì in uno strano e primordiale legame di fiducia. Perché entrambi negli occhi dell’altro avevano letto una sofferenza estremamente simile alla propria, seppur diversa in causa e conseguenza. E così, ognuno con le proprie esitazioni, si ritrovarono in un piccolo parco isolato, dopo il suonare della campanella, a discutere timidamente su quelle che erano le loro difficoltà. Diffidenti, inizialmente, si erano aperti l’un l’altro tanto lentamente quanto in maniera così sorprendentemente sincera. Seduti l’uno davanti all’altro, sulla stessa panchina, circondati dal calmo fruscio degli alberi in autunno, soli con sé stessi e liberi di parlare. Entrambi sentivano di avere davanti qualcuno pronto e capace di ascoltare, solo quello bastava. Yuri, che aveva gli occhi puri di un angelo e la lingua tagliente, che era divenuta la sua arma contro l’oppressione, aveva un tono leggero e sottile, e la voce perse le note dure e profonde che aveva assunto col tempo. Otabek evitava di guardare in volto Yuri, teneva la testa bassa e parlava piano, lento, vergognandosi persino della sua voce rotta e ruvida, ritorta dalla droga e dalla solitudine in cui si era confinato.

- Perché lo fai se ti fa male? – azzardò il biondino, cauto e sensibile, concedendogli un’occhiata preoccupata e infantile. Otabek teneva le braccia rigorosamente coperte dalle maniche della giacca di pelle, ma il volto segnato e scavato era orribilmente scoperto, simbolo della sua sofferenza, dei suoi orrori, della sua vergogna autoinflitta. Gli occhi vuoti erano inesorabilmente persi nel nulla, mortificati e umiliati, un sospiro amareggiato colmò il silenzio. Improvvisamente un bruciore fastidioso prese a divorargli lo stomaco.

- Fa male solo all’inizio, poi ti calma per un po’. – rispose esitante Otabek, accennando un ghigno furente, colmo d’odio nei suoi confronti. La scusa non era mai cambiata, a distanza di anni, e più la usava più gli suonava ridicola. – Quando vuoi dimenticare il dolore, ne vale la pena. – non era vero, lo sapeva. Drogarsi non era più una sua scelta, una sua idiozia, non lo era più da tempo. La droga era sua padrona, la sua aguzzina, l’aveva accolta nella sua vita e lei se n’era approfittata, aveva radicato dentro di lui una radice di morte, aveva fatto delle sue vene e del suo cervello la propria casa.
E Otabek era troppo debole per riuscire a cacciarla, a rivendicare la vita che lei, parassita, gli stava portando via.

Yuri lo guardò qualche attimo in silenzio, scrutandolo attento e calmo, come a voler leggergli nella mente, cogliere un qualsiasi segno in quegli occhi spenti. Dimenticare era un privilegio che non gli era concesso, neppure nel più roseo dei suoi sogni. Eppure, c’era qualcosa di sbagliato in quel metodo, qualcosa che spaventava Yuri ancor più dei ricordi e che segnava inevitabilmente le braccia di Otabek. Il dolore fisico era la sua più grande paura, così come lo spaventavano quei segni indelebili che l’avrebbero tormentato a vita.

- Se sei tu a farti del male, allora cosa devi dimenticare? – gli chiese con voce convinta e seria, ma allo stesso tempo cortese, curiosa come quella di un bambino. Otabek sussultò, lo stomaco prese a bruciare ancor di più, la sensazione di prigionia che lo opprimeva da anni si fece ancor più soffocante.

- Non lo so. – rispose dopo qualche attimo di amara esitazione. Poi si infilò una mano in tasca, furtivo, rigirandosi tra le dita una bustina. – Devo averlo dimenticato. – aggiunse poi, con una leggera e malinconica nota d’ironia. Tirò poi fuori dalla tasca la piccola bustina di plastica, dove teneva nascosta una piccola quantità d’erba.

Abbassò lo sguardo, Yuri notò la bustina. Tirò poi fuori dall’altra tasca una cartina e si preparò la “canna”. Parlare della sua situazione lo metteva in imbarazzo, si vergognava della sua dipendenza, ma il disagio lo portava inevitabilmente a trovare rifugio in essa. Un circolo vizioso che lo stava logorando. Si accese lo spinello, Yuri lo fissò stupito.

- Voglio provare. – la voce del biondino squarciò improvvisamente l’imbarazzo del momento, Otabek si paralizzò stupito, inquietato. Si voltò verso di lui, con gli occhi contrariati e lo spinello tra le dita.

- No. – rispose secco il moro, con voce severa e autoritaria.

- Perché no? – chiese Yuri con voce indecifrabilmente spenta.

- È da idioti. – ribatté Otabek, il suo tono sembrava non accettare scuse. Allontanò spontaneamente il braccio, come per evitare che il ragazzino cercasse di rubargliela come un bambino.

- Tu te la fumi.- osservò l’altro, scrutandolo con aria di rimprovero. Stava ottenendo quello che voleva, forse, svegliarlo da quello stato di passività che aveva conosciuto di lui. Yuri non capiva che la questione di Otabek era diventata ben più grave di un suo capriccio.

- Perché io sono idiota. – affermò il giovane dalle guance scavate e magre, stampandosi involontariamente in volto un sorriso amaramente sardonico. Sapeva di sbagliare, lo riconosceva, si odiava, si vergognava, non aveva problemi a riconoscere la propria idiozia, quando ormai per lui era troppo tardi per cambiare strada.

Nuovamente i loro sguardi si incontrarono, una particolare energia si accendeva in loro quando vedevano il vuoto degli occhi dell’altro. Yuri non aggiunse altro, abbassò mortificato la testa, distogliendo lo sguardo. Quella risposta era stata più che chiara per lui, non se la sentiva di insistere ancora. Si strinse nella felpa, ben più grande della sua taglia, e rimase timidamente in silenzio. Le mani tremanti, le labbra straziate in una stretta angosciante. Aveva parlato troppo e aveva parlato male, aveva infastidito Otabek con la sua lingua biforcuta e inarrestabile. Aveva sbagliato e lui era abituato a severe punizioni ogni qualvolta commetteva errori. Teneva la testa bassa, come in attesa di ricevere una lezione, sottomesso come uno schiavo. Ad Otabek non sfuggì quella reazione esageratamente mortificata, tanto da rasentare la paura, il terrore più cieco. Mese via lo spinello, temendo di averlo intimorito drogandosi davanti a lui. Yuri lo vide posare la canna e sussultò, come pensasse che volesse colpirlo. Otabek si sorprese ancora di più.

- Se ti dà fastidio… - provò a scusarsi, gettando lo spinello a terra, con tono più cordiale e attento possibile. Yuri strinse i pugni e si tirò indietro, come a voler sparire in mezzo alla felpa.

- Scusa…- sussurrò con voce tremante e terrorizzata. – Non volevo… farti arrabbiare…- teneva gli occhi serrati, la fronte corrugata in un’espressione sottomessa e spaventata, le sue parole, pronunciate con quel tono impaurito, sembravano una richiesta di aiuto. Sembrava implorarlo, Otabek non capiva.

- Vuoi tornare a casa..? – chiese esitante il moro, allungando una mano verso il suo viso per calmarlo. Yuri si lasciò accarezzare, ma la tensione e il tremore non si placarono, anzi. Al solo sentire la parola “casa” ebbe un fremito, una gelida sensazione di angoscia gli pervase la schiena.

- Ecco, io… - Yurì sentì la gola annodarsi, una massa informe di angosce e vergogne prese a soffocarlo, le parole gli morirono tra le labbra. Strinse i pugni, poi si alzò di scatto, tremante, il battito spaventosamente ed irrimediabilmente accelerato. Cerco di evitare qualsiasi contatto con lo sguardo di Otabek, confuso, preoccupato, spaesato. – Preferisco andare da solo. – detto ciò, con voce rotta e roca, si voltò più in fretta possibile e cercò di scappare via, correre più veloce che poteva per non farsi raggiungere.

Le lacrime erano sul punto di uscire allo scoperto, le guance arrossate erano un’umiliazione a cui non voleva sottostare, in particolar modo davanti ad Otabek, che conduceva come lui una vita disgraziata, ma non si era dato al pianto. Il moro reagì con scatto fulmineo, stupito, e senza accorgersene neppure gli strinse il polso, forte e senza esitazione, in un gesto che a Yuri apparve molto, troppo autoritario. Il biondino si fermò, la stretta al polso non era dolorosa, solo molto inaspettata e forte, un gesto talmente rapido da lasciarlo spiacevolmente interdetto e confuso.

- Yuri… - Otabek si rese conto di quanto quel gesto l’avesse messo a disagio quando il ragazzino dai capelli color dell’oro riprese a tremare, gli occhi lucidi chiedevano pietà, lo imploravano di lasciarlo. La stretta sul polso si fece più leggera, ma la mano del moro, che era ruvida e rovinata, ma dal tocco gentile e amorevole, non voleva allontanarsi dalla pelle di Yuri. I loro occhi si riflettevano in quelli dell’altro, un miscuglio di sguardi talmente delicato e genuino da sembrare quasi inumano nella sua purezza. Otabek aveva un’aria così gentile e premurosa da stonare orribilmente con le sue discutibili abitudini, Yuri non poteva desiderare altro che il suo sguardo attento e dolce. – Non voglio importunarti… - s’azzardò a dire il moro dalle occhiaie scavate e stanche a scurirgli gli occhi penetranti. – Ma per qualsiasi cosa, qualsiasi… questo è il mio numero… - tirò poi fuori dallo zaino di scuola, quasi completamente vuoto, una matita e un foglietto di carta, appuntandoci sopra il suo recapito. – So che non potrò essere di grande aiuto, ma…- non fece in tempo a concludere la frase che Yuri già gli aveva preso entusiasta il foglietto dalle mani, con un sorriso innocente e dolce stampato in volto.

- Appena posso ti chiamo.- affermò il biondino, gli occhi ancora immersi in quelli di Otabek, neri e profondi, custodi di chissà quali segreti e tesori, invitanti e affascinanti nel loro essere addolorati. Yuri si infilò il foglietto in tasca, senza rompere il contatto con lo sguardo dell’altro. Mosse un passo indietro, il sorriso gli morì lentamente tra le labbra. – Ora però devo proprio andare… - il contatto che univa i loro occhi fragili si spezzò, Yuri corse via, verso l’uscita del parco. Il cielo stava lentamente assumendo un colorito rossastro e ardente, il fruscio delle foglie morenti d’autunno l’accompagnò fino a casa.


Otabek lo guardò allontanarsi, con un sorriso divertito ad arricciargli appena le labbra sottili e tormentate. Dentro di sé coltivava già il desiderio di rivederlo, di risentire la sua voce.
   
 
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