Il 2 aprile 1910 sei giovani europei di buona famiglia, poliglotti e accomunati dalla passione per l’avventura, si lanciano in un impresa epica: attraversare l’Asia da Istanbul alla Cina con ogni mezzo. Visiteranno luoghi meravigliosi, conosceranno nuovi popoli, ma dovranno guardarsi dalle molte insidie dell’Oriente…
Strade
d’Oriente
Viaggio
in Turchia- Il paese delle montagne
Istanbul, Turchia, 2
aprile 1910
Uscendo
fuori dal brusio della
folla variopinta e multietnica, così energica e vitale in quella mattinata
raggiante,
Sasori, bisognoso di riposo, andò a sedersi su una panchina
vicino alla
stazione.
Chiuse
gli occhi e lasciò che il
tiepido sole primaverile gli baciasse la fronte, al canto degli
uccellini in
amore.
Molti
di essi migravano per approfittare
del clima così favorevole, e presto sarebbe stato
così anche per lui, sebbene
per altre ragioni.
Nel
momento in cui i suoi amici
sarebbero arrivati, sarebbe iniziato per tutti il grande viaggio che
andavano
pianificando ormai da ben due anni.
Partire
da Istanbul, attraversare
i deserti infuocati del Medio Oriente, le torride lande
dell’India, il tetto
del mondo e arrivare in uno dei più antichi e grandi paesi
del globo,
Certo
non si poteva dire che
mancassero loro i mezzi: Sasori, per esempio, figlio di un notissimo e
facoltosissimo armatore inglese, possedeva un patrimonio personale di
svariati
milioni di sterline e poteva dunque agevolmente dedicarsi a questo tipo
di divertimenti.
Nonostante
un passato traumatico,
con la morte dei genitori in circostanze mai del tutto chiarite e anni
d’inferno sotto la guida di un avido tutore, il giovane aveva
potuto godere di
un eccellente istruzione: parlava anche francese e tedesco, e aveva
imparato da
autodidatta le prime nozioni di arabo e turco ( anche se durante il
soggiorno a
Istanbul ben pochi lo avevano compreso).
Notò
il suo amico Deidara che
bighellonava per i prati vicini, ritraendo con apparente concentrazione
uomini
in turbante e donne velate dal fascino esotico.
Vedendolo
così assorto e poco
disposto alla conversazione, preferì lasciarlo intento ai
suoi interessi.
Deidara,
erede di una famosa
dinastia olandese, un gigante nel settore edilizio, non gradiva affatto
essere
riconosciuto solo come “ figlio di suo padre”.
Anche
se era interessato
all’azienda di famiglia, avrebbe preferito servirsene per
vivere di rendita e
seguire la sua vera vocazione, quella del pittore, anche se sulla
qualità delle
sue opere si svolgevano da sempre accesi dibattiti fra lui e i suoi
amici.
Conosceva,
oltre alla lingua
madre, il tedesco, il francese, l’italiano e il russo.
Cinque
minuti dopo fece la sua
comparsa Pain che, in vena di confidenze, andò a sedersi
accanto a Sasori
esibendo un sorriso a trentadue denti.
“E
gli altri?” chiese Sasori.
“Dai
tempo al tempo, arriveranno.
Piuttosto, sei emozionato?” disse il compagno bevendo da una
bottiglia di
birra.
Pain,
figlio di due ricchi inglesi
trasferitisi ad Alessandria d’Egitto, era la
“mente” del gruppo di amici in
quanto organizzatore di ogni piano con una metodicità fuori
dall’ordinario.
Parlava
l’arabo come un
madrelingua; oltre a ciò conosceva il francese,
l’ebraico, il turco, l’arabo e
il persiano, per cui le sue conoscenze sarebbero state utili.
Come
aveva predetto, a breve
spuntarono dalla folla Itachi e Hidan: il primo aveva compiuto un tour
fra
moschee, chiese e antichi palazzi, il secondo, a giudicare
dall’odore, in un
bagno turco.
Itachi,
erede di una potente
famiglia tedesca proprietaria di fabbriche in tre continenti, era molto
interessato alle culture orientali: più di una volta aveva
pensato di farsi
buddista o musulmano.
Hidan,
figlio di un celebre
editore francese, era lo scapestrato della combriccola, e non era raro
trovarlo
in locali di qualsiasi angolo del globo fino a tarda notte.
Entrambi
parlavano russo e turco;
Hidan masticava anche un po’ di italiano e greco.
Alla
fine si fece vivo, inseguito
da un ambulante che cercava di rifilargli qualcosa, Kakuzu.
Era
figlio di due banchieri
svizzeri, e perciò era considerato a ragione il tesoriere
della banda di
avventurieri: parlava tedesco, francese, greco, arabo e russo.
“Vattene!
Non voglio nulla!” tuonò
fuori di sé rivolto all’uomo, quindi accorgendosi
degli amici li salutò con un
cenno e disse ( i sei parlavano fra di loro in francese,
l’unica lingua
compresa da tutti): “Che aspettiamo? Il tempo è
denaro!”.
La
comitiva entrò nella stazione,
e riuscì a prendere il treno per un soffio.
Fu
arduo destreggiarsi fra
corridoi pieni di uomini di ogni razza che trascinavano ogni tipo di
bagaglio e
gridavano in una miriade di lingue: ma alla fine riuscirono a trovare
dei posti
e si sistemarono, mentre Kakuzu teneva ben stretta la valigia
contenente un
milione fra sterline, franchi, marchi, rubli e lire turche, utili per
comprare
qualsiasi oggetto necessario e garantirsi il passaggio fra territori
ostili e
dogane troppo scrupolose.
“Ehi,
ma dov’è finita la tua
borsa?” disse all’improvviso Itachi a Deidara.
L’artista
guardò accanto a sé e
notò con orrore che qualcuno aveva rubato la sua borsa
contente l’attrezzatura
per disegnare e pitturare.
Si
alzò imprecando e furioso
percorse a grandi passi il corridoio finché non vide un
turco in abiti
trasandati che fumava la sigaretta e reggeva in una mano la sacca.
Deidara
lo prese per la gola senza
preavviso e sibilò con astio: “Ridammela subito o
te la farò pagare cara”
mentre dalla manica faceva fuoriuscire un coltello a serramanico che si
aprì
con uno scatto inquietante.
Non
comprendendo cosa dicesse ma afferrando
il messaggio il ladro gli consegnò la borsa tremando come
una foglia chiedendo
perdono in lacrime, mentre fuori
dai finestrini aspri monti e pianure sassose scorrevano a
velocità e il vento
soffiava verso est, verso la meta.
Anatolia interna, 20
aprile 1910
Dopo
che il treno li aveva
condotti ad Ankara, i nostri avevano cominciato il vero viaggio, privo
delle
comodità del mondo occidentale, noleggiando alcuni asini per
portare i bagagli.
La
traversata della penisola anatolica
non era quel che si dice una passeggiata ristoratrice; lontani dal
mare, il
sole martellava duro sulle loro teste, le strade erano piene di
polvere, le
alture da valicare rocciose e ripide; si incontravano villaggi solo a
lunghe
distanze fra loro, ed erano così poveri che gli abitanti
avevano ben poco da
offrire in quanto a ospitalità e provviste ai viaggiatori
affamati ed esausti.
Nonostante
ciò nessuno di loro
visse la camminata come un’imposizione e seppero trovarne i
lati belli: Sasori
non sembrava mai stanco e si dimostrava sempre affamato di nuovi
paesaggi;
Deidara ritraeva i rapaci che volavano alti nel cielo, o le rocce
più
pittoresche; Pain, senza fiatare, aveva in mente solo
l’orizzonte e la
prosecuzione del viaggio; Itachi inalava l’aria degli
altopiani e si inerpicava
sui pendii più scoscesi con apparente noncuranza; Kakuzu
cantava, reso felice
dalla marcia; Hidan, che pure si lamentava continuamente per il caldo,
la sete
e la stanchezza non poteva non stupirsi di fronte a burroni, steppe
erbose e
boschi patria di querce e abeti.
Un
giorno giunsero in un villaggio
alle pendici del Caucaso, vicino al confine con
I
paesani erano in maggioranza
armeni che, memori delle stragi compiuti dai dominatori turchi nel
1894-1895 si
rinchiusero in casa, temendo che fossero uomini del governo.
Mentre
i sei cercavano qualcuno a
cui chiedere indicazioni per il tragitto ed eventualmente
ospitalità per la
notte udirono grasse risate e si videro venire incontro una marmaglia
di
soldati dall’aria ben poco disciplinata, probabilmente della
locale guarnigione
ottomana.
“Chi
siete voi? Cosa volete nelle
terre del sultano?” chiese arrogantemente il loro capo, un
uomo castano sulla
ventina grosso e dalla faccia poco sveglia.
“Sergente
Kankuro, visto che sono
stranieri non dovremmo forse dimostrarci più
gentili?” mormorò un soldato
battendo i denti.
“Silenzio!
Qui sono io che do gli
ordini! Allora? Sto aspettando!” esclamò scocciato
il turco.
“Senta,
avremmo bisogno di
un’indicazione sul cammino da seguire per arrivare in
Mesopotamia…”rispose
Hidan cercando di dimostrarsi educato anche se avrebbe voluto
gonfiargli la
faccia di schiaffi.
“Per
dirlo ai militari del tuo
paese? Come no! Sei russo? Allora vattene! Sei inglese? Allora vattene!
Sei
tedesco? Allora puoi parlare con il
colonnello!”replicò Kankuro indicandolo.
Quando
la tensione stava per dare
luogo a una rissa si udì una voce: “Allora? Che
succede ?”.
I
soldati scattarono sull’attenti
facendo il saluto militare, mentre i viaggiatori voltandosi si
trovarono di
fronte all’uomo più inquietante che avessero mai
visto.
I
suoi occhi di ghiaccio mettevano
in soggezione chiunque e lo facevano sentire come trafitto da mille
pugnali; i
capelli rossi, ma più scuri di quelli di Sasori, suggerivano
una cattiveria
satanica.
Indossava
una divisa blu corredata
da numerose medaglie e da due spalline dorate; in testa aveva un fez
rosso,
alla cintura era appesa una sciabola e da un fondina faceva capolino
una
rivoltella.
Accanto
a lui stava una dama
vestita all’occidentale, dai capelli biondi, che agitava un
ventaglio.
“Kankuro,
vieni nei miei
appartamenti. Devo parlarti” disse toccando la spalla del
sergente con un
frustino, e insieme si recarono nella locale caserma.
Giunto
nel proprio ufficio
decorato con quadri appesi alle pareti e piante ornamentali, percosse
la
scrivania con un pugno e sbraitò: “Chi diavolo
sarebbero quei forestieri?”.
“Dicono
di essere viaggiatori, ma
non me la danno a bere”ribatté l’altro.
“Sai
bene- proseguì il colonnello-
che i rapporti con
“No
Gaara. Forse siamo troppo
lontani da Istanbul ?”.
“Te
lo dico io! Siamo costretti a
vivere braccio a braccio con questi schifosi armeni infedeli. Sai cosa
farebbero se scoprissero che questa zona ufficialmente non appartiene
all’Impero ottomano ma alla Russia? Lo sai ? Si
rivolterebbero e ci farebbero a
pezzi! Per questo dobbiamo impedire i contatti con il resto del mondo,
per
tenerli nell’ignoranza. Tanto a me basta dominare su questi
monti, non vivere a
corte fra gli agi! Ora va’ e ispeziona quegli infedeli,
capito?”.
In
men che non si dica il sergente
tornò in piazza ed eseguì quanto gli era stato
ordinato.
“E
se noi non volessimo obbedire?
Vuoi vedere i passaporti?” replicò coraggiosamente
Pain alle sue richieste.
Per
tutta risposta Kankuro lo
colpì in faccia con un pugno tanto forte da farlo cadere
nella polvere.
L’inglese
non replicò all’offesa e
consegnò il proprio bagaglio.
Kakuzu
riuscì ad evitare che
perquisissero la valigia dei soldi e altri due sostenendo che
contenevano
alcool e dei devoti musulmani come loro non avrebbero dovuto nemmeno
toccarle.
La
soldataglia si sparse per le
vie e Itachi e Deidara cercarono di aiutare Pain a dimenticare
l’affronto
subito.
Improvvisamente
si presentò
davanti a loro un anziano paesano dalla barba bianca in babbucce,
turbante e
tunica che disse loro: “ Posso aiutarvi? Sono il capo del
villaggio e so per
esperienza personale quanto possa essere duro il sergente. Ma adesso
venite,
per stasera vi ospiterò”.
Dopo
cena il vecchio parlò ai sei,
raccontando del clima di soprusi in cui la popolazione era costretta a
vivere
quotidianamente.
“Ma
perché non vi ribellate?”
domandò perplesso Hidan. “Siete molti
più di loro!”.
“Ahimé
figliolo, hai ragione”
replicò amaramente l’armeno. “Il nostro
popolo ha già sofferto tanto: noi siamo
pacifici e non vogliamo altre stragi”.
“La
vostra situazione mi commuove
immensamente- commentò Sasori- ma penso che noi potremmo
aiutarvi” e fatto un
cenno a Kakuzu questo aprì le due valigie che aveva impedito
ai turchi di
perquisire: erano piene di pistole, fucile, carabine, doppiette e
proiettili.
“Le
abbiamo portate per
difenderci, ma penso che anche adesso ne potremmo fare buon uso. Su,
non disperatevi,
perché questa potrebbe essere la vostra ultima notte di
schiavitù”.
La
mattina seguente una folla di
paesani, capeggiata dai sei occidentali, si radunò davanti
alla caserma.
“Che
cosa volete?” chiese un
soldato avvicinandosi, ma per tutta risposta fu accoltellato.
“Alle
armi! Gli armeni si
ribellano! Presto!” gridò Kankuro afferrando il
fucile e andando a barricarsi
con altri nel cortile dell’edificio.
Le
truppe malnutrite, sottopagate,
poco addestrate, dotate di armamenti poco efficienti e divise logore,
cominciarono a far fuoco, ma una fiumana di rivoltosi li incalzava:
sembrava
che per ogni morto ne spuntassero altri due, e in breve molti gettarono
le armi
e fuggirono a gambe levate.
Pain
freddò con la rivoltella il
soldato posto accanto a Kankuro; Itachi, appostato su un carro, faceva
strage
con la carabina; Sasori fece esplodere la testa a un ottomano che lo
stava
caricando con la baionetta; Hidan colpiva duro con i pugni e il calcio
del
fucile; Kakuzu seminava il terrore con una pistola per mano; Deidara
stese un
turco, incespicò imprecando, accoltellò nello
stomaco l’uomo che lo stava
assalendo e ne fece stramazzare un altro con un calcio nello sterno.
“Adesso
faremo i conti” sibilò
Pain scrocchiandosi le dita e preparandosi ad affrontare il sergente.
Kankuro lo
attaccò con un cazzotto, ma
l’inglese si chinò evitandolo e lo
afferrò per il braccio, sbattendolo a terra
e assestandogli una pedata nello stomaco: l’ottomano si
rialzò e provò ad
afferrarlo per la gola e a torcergli il collo, ma Pain si
liberò dalla morsa e
lo fece crollare con una paio di pugni in faccia.
Kankuro
si rialzò intontito e
sanguinante, ritrovandosi circondato da una ventina di armeni dai visi
torvi
che si avvicinavano sempre di più impugnando coltelli e
bastoni.
“Fermi!
Non possiamo discuterne?”
disse lui prima che gli saltassero addosso e lo massacrassero.
I
rivoltosi, ormai incontrastati,
diedero l’assalto alla caserma gridando: Deidara e Sasori, i
fucili spianati,
furono i primi ad entrare e si trovarono di fronte la donna che avevano
visto
il girono prima insieme al colonnello, inginocchiata e in lacrime.
“Sono
Temari, la sorella del
colonnello! Vi prego, risparmiatemi! Gaara è troppo duro, ma
io non sono come
lui! Per pietà! Vi prometto che non dirò nulla a
nessuno!” spiegò
singhiozzando.
Deidara
si offrì di accompagnarla
ad un’uscita sul retro, mentre l’amico iniziava a
salire le scale in cerca del
comandante.
Contemporaneamente
Gaara, nella
penombra del proprio ufficio, le mani giunte dietro la schiena,
osservava con
cipiglio impassibile gli uomini che morivano sotto la luce abbagliante
del
sole: era la fine del dominio che la sua famiglia aveva instaurato su
quella
valle da generazioni.
Comprendendo
di aver ormai fatto
il proprio tempo, estrasse una pistola da un cassetto della scrivania,
alzò il
cane e, senza scomporsi, se la puntò sotto il mento.
“Lunga
vita a sua maestà il
sultano” mormorò con un ultimo filo di voce,quindi
premette il grilletto.
La
stanza riecheggiò di un secco
colpo di arma da fuoco e il sangue dell’orgoglioso militare
si sparse sul
pavimento e sulle pareti.