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Autore: Federico    12/06/2009    0 recensioni
Salve a tutti!Fortunatamente ho deciso di ricominciare a scrivere di "Naruto" e ritorno in scena con questa AU con protagonista l'Akatsuki ( ciò significa che in molti casi i cattivi saranno i buoni). Il 2 aprile 1910 sei giovani europei di buona famiglia, poliglotti e accomunati dalla passione per l’avventura, si lanciano in un impresa epica: attraversare l’Asia da Istanbul alla Cina con ogni mezzo. Visiteranno luoghi meravigliosi, conosceranno nuovi popoli, ma dovranno guardarsi dalle molte insidie dell’Oriente… Leggete e fatemi sapere se vi piace, mi raccomando!
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Altri
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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- Questa storia fa parte della serie 'Travellers'
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Il 2 aprile 1910 sei giovani europei di buona famiglia, poliglotti e accomunati dalla passione per l’avventura, si lanciano in un impresa epica: attraversare l’Asia da Istanbul alla Cina con ogni mezzo. Visiteranno luoghi meravigliosi, conosceranno nuovi popoli, ma dovranno guardarsi dalle molte insidie dell’Oriente…

 

 

Strade d’Oriente

 

Viaggio in Turchia- Il paese delle montagne

 

Istanbul, Turchia, 2 aprile 1910

 

Uscendo fuori dal brusio della folla variopinta e multietnica, così energica  e vitale in quella mattinata raggiante, Sasori, bisognoso di riposo, andò a sedersi su una panchina vicino alla stazione.

Chiuse gli occhi e lasciò che il tiepido sole primaverile gli baciasse la fronte, al canto degli uccellini in amore.

Molti di essi migravano per approfittare del clima così favorevole, e presto sarebbe stato così anche per lui, sebbene per altre ragioni.

Nel momento in cui i suoi amici sarebbero arrivati, sarebbe iniziato per tutti il grande viaggio che andavano pianificando ormai da ben due anni.

Partire da Istanbul, attraversare i deserti infuocati del Medio Oriente, le torride lande dell’India, il tetto del mondo e arrivare in uno dei più antichi e grandi paesi del globo, la Cina: questo era il loro sogno, sulle orme di Alessandro Magno e Marco Polo.

Certo non si poteva dire che mancassero loro i mezzi: Sasori, per esempio, figlio di un notissimo e facoltosissimo armatore inglese, possedeva un patrimonio personale di svariati milioni di sterline e poteva dunque agevolmente dedicarsi a questo tipo di divertimenti.

Nonostante un passato traumatico, con la morte dei genitori in circostanze mai del tutto chiarite e anni d’inferno sotto la guida di un avido tutore, il giovane aveva potuto godere di un eccellente istruzione: parlava anche francese e tedesco, e aveva imparato da autodidatta le prime nozioni di arabo e turco ( anche se durante il soggiorno a Istanbul ben pochi lo avevano compreso).

Notò il suo amico Deidara che bighellonava per i prati vicini, ritraendo con apparente concentrazione uomini in turbante e donne velate dal fascino esotico.

Vedendolo così assorto e poco disposto alla conversazione, preferì lasciarlo intento ai suoi interessi.

Deidara, erede di una famosa dinastia olandese, un gigante nel settore edilizio, non gradiva affatto essere riconosciuto solo come “ figlio di suo padre”.

Anche se era interessato all’azienda di famiglia, avrebbe preferito servirsene per vivere di rendita e seguire la sua vera vocazione, quella del pittore, anche se sulla qualità delle sue opere si svolgevano da sempre accesi dibattiti fra lui e i suoi amici.

Conosceva, oltre alla lingua madre, il tedesco, il francese, l’italiano e il russo.

Cinque minuti dopo fece la sua comparsa Pain che, in vena di confidenze, andò a sedersi accanto a Sasori esibendo un sorriso a trentadue denti.

“E gli altri?” chiese Sasori.

“Dai tempo al tempo, arriveranno. Piuttosto, sei emozionato?” disse il compagno bevendo da una bottiglia di birra.

Pain, figlio di due ricchi inglesi trasferitisi ad Alessandria d’Egitto, era la “mente” del gruppo di amici in quanto organizzatore di ogni piano con una metodicità fuori dall’ordinario.

Parlava l’arabo come un madrelingua; oltre a ciò conosceva il francese, l’ebraico, il turco, l’arabo e il persiano, per cui le sue conoscenze sarebbero state utili.

Come aveva predetto, a breve spuntarono dalla folla Itachi e Hidan: il primo aveva compiuto un tour fra moschee, chiese e antichi palazzi, il secondo, a giudicare dall’odore, in un bagno turco.

Itachi, erede di una potente famiglia tedesca proprietaria di fabbriche in tre continenti, era molto interessato alle culture orientali: più di una volta aveva pensato di farsi buddista o musulmano.

Hidan, figlio di un celebre editore francese, era lo scapestrato della combriccola, e non era raro trovarlo in locali di qualsiasi angolo del globo fino a tarda notte.

Entrambi parlavano russo e turco; Hidan masticava anche un po’ di italiano e greco.

Alla fine si fece vivo, inseguito da un ambulante che cercava di rifilargli qualcosa, Kakuzu.

Era figlio di due banchieri svizzeri, e perciò era considerato a ragione il tesoriere della banda di avventurieri: parlava tedesco, francese, greco, arabo e russo.

“Vattene! Non voglio nulla!” tuonò fuori di sé rivolto all’uomo, quindi accorgendosi degli amici li salutò con un cenno e disse ( i sei parlavano fra di loro in francese, l’unica lingua compresa da tutti): “Che aspettiamo? Il tempo è denaro!”.

La comitiva entrò nella stazione, e riuscì a prendere il treno per un soffio.

Fu arduo destreggiarsi fra corridoi pieni di uomini di ogni razza che trascinavano ogni tipo di bagaglio e gridavano in una miriade di lingue: ma alla fine riuscirono a trovare dei posti e si sistemarono, mentre Kakuzu teneva ben stretta la valigia contenente un milione fra sterline, franchi, marchi, rubli e lire turche, utili per comprare qualsiasi oggetto necessario e garantirsi il passaggio fra territori ostili e dogane troppo scrupolose.

“Ehi, ma dov’è finita la tua borsa?” disse all’improvviso Itachi a Deidara.

L’artista guardò accanto a sé e notò con orrore che qualcuno aveva rubato la sua borsa contente l’attrezzatura per disegnare e pitturare.

Si alzò imprecando e furioso percorse a grandi passi il corridoio finché non vide un turco in abiti trasandati che fumava la sigaretta e reggeva in una mano la sacca.

Deidara lo prese per la gola senza preavviso e sibilò con astio: “Ridammela subito o te la farò pagare cara” mentre dalla manica faceva fuoriuscire un coltello a serramanico che si aprì con uno scatto inquietante.

Non comprendendo cosa dicesse ma afferrando il messaggio il ladro gli consegnò la borsa tremando come una foglia  chiedendo perdono in lacrime, mentre fuori dai finestrini aspri monti e pianure sassose scorrevano a velocità e il vento soffiava verso est, verso la meta.

 

Anatolia interna, 20 aprile 1910

Dopo che il treno li aveva condotti ad Ankara, i nostri avevano cominciato il vero viaggio, privo delle comodità del mondo occidentale, noleggiando alcuni asini per portare i bagagli.

La traversata della penisola anatolica non era quel che si dice una passeggiata ristoratrice; lontani dal mare, il sole martellava duro sulle loro teste, le strade erano piene di polvere, le alture da valicare rocciose e ripide; si incontravano villaggi solo a lunghe distanze fra loro, ed erano così poveri che gli abitanti avevano ben poco da offrire in quanto a ospitalità e provviste ai viaggiatori affamati ed esausti.

Nonostante ciò nessuno di loro visse la camminata come un’imposizione e seppero trovarne i lati belli: Sasori non sembrava mai stanco e si dimostrava sempre affamato di nuovi paesaggi; Deidara ritraeva i rapaci che volavano alti nel cielo, o le rocce più pittoresche; Pain, senza fiatare, aveva in mente solo l’orizzonte e la prosecuzione del viaggio; Itachi inalava l’aria degli altopiani e si inerpicava sui pendii più scoscesi con apparente noncuranza; Kakuzu cantava, reso felice dalla marcia; Hidan, che pure si lamentava continuamente per il caldo, la sete e la stanchezza non poteva non stupirsi di fronte a burroni, steppe erbose e boschi patria di querce e abeti.

Un giorno giunsero in un villaggio alle pendici del Caucaso, vicino al confine con la Russia.

I paesani erano in maggioranza armeni che, memori delle stragi compiuti dai dominatori turchi nel 1894-1895 si rinchiusero in casa, temendo che fossero uomini del governo.

Mentre i sei cercavano qualcuno a cui chiedere indicazioni per il tragitto ed eventualmente ospitalità per la notte udirono grasse risate e si videro venire incontro una marmaglia di soldati dall’aria ben poco disciplinata, probabilmente della locale guarnigione ottomana.

“Chi siete voi? Cosa volete nelle terre del sultano?” chiese arrogantemente il loro capo, un uomo castano sulla ventina grosso e dalla faccia poco sveglia.

“Sergente Kankuro, visto che sono stranieri non dovremmo forse dimostrarci più gentili?” mormorò un soldato battendo i denti.

“Silenzio! Qui sono io che do gli ordini! Allora? Sto aspettando!” esclamò scocciato il turco.

“Senta, avremmo bisogno di un’indicazione sul cammino da seguire per arrivare in Mesopotamia…”rispose Hidan cercando di dimostrarsi educato anche se avrebbe voluto gonfiargli la faccia di schiaffi.

“Per dirlo ai militari del tuo paese? Come no! Sei russo? Allora vattene! Sei inglese? Allora vattene! Sei tedesco? Allora puoi parlare con il colonnello!”replicò Kankuro indicandolo.

Quando la tensione stava per dare luogo a una rissa si udì una voce: “Allora? Che succede ?”.

I soldati scattarono sull’attenti facendo il saluto militare, mentre i viaggiatori voltandosi si trovarono di fronte all’uomo più inquietante che avessero mai visto.

I suoi occhi di ghiaccio mettevano in soggezione chiunque e lo facevano sentire come trafitto da mille pugnali; i capelli rossi, ma più scuri di quelli di Sasori, suggerivano una cattiveria satanica.

Indossava una divisa blu corredata da numerose medaglie e da due spalline dorate; in testa aveva un fez rosso, alla cintura era appesa una sciabola e da un fondina faceva capolino una rivoltella.

Accanto a lui stava una dama vestita all’occidentale, dai capelli biondi, che agitava un ventaglio.

“Kankuro, vieni nei miei appartamenti. Devo parlarti” disse toccando la spalla del sergente con un frustino, e insieme si recarono nella locale caserma.

Giunto nel proprio ufficio decorato con quadri appesi alle pareti e piante ornamentali, percosse la scrivania con un pugno e sbraitò: “Chi diavolo sarebbero quei forestieri?”.

“Dicono di essere viaggiatori, ma non me la danno a bere”ribatté l’altro.

“Sai bene- proseguì il colonnello- che i rapporti con la Russia e la Gran Bretagna sono tesi. Non possiamo escludere che siano spie. Sai qual è il problema di questo posto, fratello mio?”.

“No Gaara. Forse siamo troppo lontani da Istanbul ?”.

“Te lo dico io! Siamo costretti a vivere braccio a braccio con questi schifosi armeni infedeli. Sai cosa farebbero se scoprissero che questa zona ufficialmente non appartiene all’Impero ottomano ma alla Russia? Lo sai ? Si rivolterebbero e ci farebbero a pezzi! Per questo dobbiamo impedire i contatti con il resto del mondo, per tenerli nell’ignoranza. Tanto a me basta dominare su questi monti, non vivere a corte fra gli agi! Ora va’ e ispeziona quegli infedeli, capito?”.

In men che non si dica il sergente tornò in piazza ed eseguì quanto gli era stato ordinato.

“E se noi non volessimo obbedire? Vuoi vedere i passaporti?” replicò coraggiosamente Pain alle sue richieste.

Per tutta risposta Kankuro lo colpì in faccia con un pugno tanto forte da farlo cadere nella polvere.

L’inglese non replicò all’offesa e consegnò il proprio bagaglio.

Kakuzu riuscì ad evitare che perquisissero la valigia dei soldi e altri due sostenendo che contenevano alcool e dei devoti musulmani come loro non avrebbero dovuto nemmeno toccarle.

La soldataglia si sparse per le vie e Itachi e Deidara cercarono di aiutare Pain a dimenticare l’affronto subito.

Improvvisamente si presentò davanti a loro un anziano paesano dalla barba bianca in babbucce, turbante e tunica che disse loro: “ Posso aiutarvi? Sono il capo del villaggio e so per esperienza personale quanto possa essere duro il sergente. Ma adesso venite, per stasera vi ospiterò”.

Dopo cena il vecchio parlò ai sei, raccontando del clima di soprusi in cui la popolazione era costretta a vivere quotidianamente.

“Ma perché non vi ribellate?” domandò perplesso Hidan. “Siete molti più di loro!”.

“Ahimé figliolo, hai ragione” replicò amaramente l’armeno. “Il nostro popolo ha già sofferto tanto: noi siamo pacifici e non vogliamo altre stragi”.

“La vostra situazione mi commuove immensamente- commentò Sasori- ma penso che noi potremmo aiutarvi” e fatto un cenno a Kakuzu questo aprì le due valigie che aveva impedito ai turchi di perquisire: erano piene di pistole, fucile, carabine, doppiette e proiettili.

“Le abbiamo portate per difenderci, ma penso che anche adesso ne potremmo fare buon uso. Su, non disperatevi, perché questa potrebbe essere la vostra ultima notte di schiavitù”.

La mattina seguente una folla di paesani, capeggiata dai sei occidentali, si radunò davanti alla caserma.

“Che cosa volete?” chiese un soldato avvicinandosi, ma per tutta risposta fu accoltellato.

“Alle armi! Gli armeni si ribellano! Presto!” gridò Kankuro afferrando il fucile e andando a barricarsi con altri nel cortile dell’edificio.

Le truppe malnutrite, sottopagate, poco addestrate, dotate di armamenti poco efficienti e divise logore, cominciarono a far fuoco, ma una fiumana di rivoltosi li incalzava: sembrava che per ogni morto ne spuntassero altri due, e in breve molti gettarono le armi e fuggirono a gambe levate.

Pain freddò con la rivoltella il soldato posto accanto a Kankuro; Itachi, appostato su un carro, faceva strage con la carabina; Sasori fece esplodere la testa a un ottomano che lo stava caricando con la baionetta; Hidan colpiva duro con i pugni e il calcio del fucile; Kakuzu seminava il terrore con una pistola per mano; Deidara stese un turco, incespicò imprecando, accoltellò nello stomaco l’uomo che lo stava assalendo e ne fece stramazzare un altro con un calcio nello sterno.

“Adesso faremo i conti” sibilò Pain scrocchiandosi le dita e preparandosi ad affrontare il sergente.

 Kankuro lo attaccò con un cazzotto, ma l’inglese si chinò evitandolo e lo afferrò per il braccio, sbattendolo a terra e assestandogli una pedata nello stomaco: l’ottomano si rialzò e provò ad afferrarlo per la gola e a torcergli il collo, ma Pain si liberò dalla morsa e lo fece crollare con una paio di pugni in faccia.

Kankuro si rialzò intontito e sanguinante, ritrovandosi circondato da una ventina di armeni dai visi torvi che si avvicinavano sempre di più impugnando coltelli e bastoni.

“Fermi! Non possiamo discuterne?” disse lui prima che gli saltassero addosso e lo massacrassero.

I rivoltosi, ormai incontrastati, diedero l’assalto alla caserma gridando: Deidara e Sasori, i fucili spianati, furono i primi ad entrare e si trovarono di fronte la donna che avevano visto il girono prima insieme al colonnello, inginocchiata e in lacrime.

“Sono Temari, la sorella del colonnello! Vi prego, risparmiatemi! Gaara è troppo duro, ma io non sono come lui! Per pietà! Vi prometto che non dirò nulla a nessuno!” spiegò singhiozzando.

Deidara si offrì di accompagnarla ad un’uscita sul retro, mentre l’amico iniziava a salire le scale in cerca del comandante.

Contemporaneamente Gaara, nella penombra del proprio ufficio, le mani giunte dietro la schiena, osservava con cipiglio impassibile gli uomini che morivano sotto la luce abbagliante del sole: era la fine del dominio che la sua famiglia aveva instaurato su quella valle da generazioni.

Comprendendo di aver ormai fatto il proprio tempo, estrasse una pistola da un cassetto della scrivania, alzò il cane e, senza scomporsi, se la puntò sotto il mento.

“Lunga vita a sua maestà il sultano” mormorò con un ultimo filo di voce,quindi premette il grilletto.

La stanza riecheggiò di un secco colpo di arma da fuoco e il sangue dell’orgoglioso militare si sparse sul pavimento e sulle pareti.

 

  
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