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Autore: TheHellion    06/07/2017    0 recensioni
L'oscurità allunga la mano sul mondo. Dopo la sconfitta della dea della guerra giusta, Atena, Ade, signore degli Inferi ha l'unico obiettivo di sfogare il suo rancore sull'umanità, tanto cara alla sua acerrima nemica. Il piano del dio dell'Oltretomba è chiaro: cancellare la vita dalla terra.
Il destino del mondo è in mano agli uomini che hanno ereditato potere e speranza dalla Dea e sta a loro organizzarsi contro le orde di guerrieri infernali che non lasciano scampo a chiunque le incontri.
Sei pronto ad mettere piede sul campo di battaglia?
***Ispirato all'opera magna di Masami Kurumada, "Antichi echi delle Stelle" narra la storia della primissima generazione dei celeberrimi Cavalieri dello Zodiaco.***
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gold Saints, Hades
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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INAZUMA

 
È pesante, quasi mi toglie il respiro, ma non devo assolutamente cedere al suo peso. Sono esausto ma felice. Ce l'ho fatta. Ho conquistato l'armatura di Pegasus vincendo l'ultimo scontro contro il mio maestro. Il nobile Angelòs ha testato le mie abilità, saggiato la mia volontà portando a termine l'ultima fase dell'allenamento.
Ovviamente non ho sconfitto il Cavaliere del Sagittario, ma ho mandato a segno un unico colpo e l'ho privato della maschera che gli difendeva la fronte. A detta del mio maestro e del Grande Sacerdote, questo è un risultato più che buono per  un degno Cavaliere di Bronzo.
Il ragazzino che è arrivato ad Atene più di due anni fa è diventato un giovane uomo, esattamente come Rhadia, Nikanor, Ertemios, Makarios ed Esperante. Proprio come loro, la mia voce è cambiata, come mutato è il mio modo di vedere le cose. È incredibile quanto il Grande Tempio mi abbia fatto crescere in fretta. La sua ricostruzione ha impiegato più di un anno e tutte le forze sopravvissute al possente attacco di Ade. Tante cose sono cambiate da allora e una di queste è lo sguardo di Eirene. L'ho vista abbandonare la fanciullezza e divenire donna. Il suo sorriso si è spento, poco a poco, riducendosi ad appena percettibile curva delle sue labbra. Anche ora che, esultante, le mostro il mio successo, mi guarda come se fosse lontana e distratta. Durante tutto questo tempo ho provato ad avvicinarla, ma lei mi ha sempre respinto ed evitato come se mi temesse.
Questo pensiero riesce a rattristare anche il meraviglioso giorno di giubilo che dovrei vivere. Indosso l'armatura di Pegasus, finalmente, eppure sembra che a lei, in piedi sul posto d'onore della gradinata, non importi niente.
Dopo una piccola festa assieme a Rhadia e gli altri che hanno ottenuto l'investitura di Bronzo, decido di passare a salutare mia sorella. Lei non ha potuto assistere alla cerimonia e questo mi è dispiaciuto. Mio padre, al contrario, ha seguito ogni mio gesto con un sorriso deciso sulle labbra. Era sicuro che ci sarei riuscito e quello che è accaduto non ha fatto che confermare le sue aspettative.
Discretamente mi sono congedato dagli altri e ho mosso i miei passi verso il campo di addestramento femminile. Le sentinelle alle sue porte chiudono sempre un occhio quando passo a far visita a Sarya e oggi non fa differenza. Anzi, uno di loro si complimenta con me per l'armatura che indosso, nutrendo a dismisura il mio ego. Tronfio come se fossi uno dei Dodici, mi faccio strada fino alla piccola arena, rivestita da una leggera coltre di ghiaccio battuto. Le grida di fanciulle intente a combattere sovrastano il parlare pacato ma deciso della voce di mia sorella.
«Così non va bene, ragazze. Siete troppo impetuose. Dovete fare attenzione a non abbassare mai la guardia. L'attacco non è tutto.»
Le sue allieve sono poco più che ragazzine, molto più giovani di me. Nonostante tremino dal freddo, continuano ad affrontare l'inverno con leggeri abiti di lino.
Quando Sarya si volta verso di me la saluto con un cenno della mano e mi allontano in direzione dei dormitori. Mi nascondo in un punto in ombra e, dopo aver allontanato un piccolo strato di neve dal muretto grezzo, mi siedo. Passo qualche istante a fissare il bracciale sinistro dell'armatura che si è perfettamente adattato al mio braccio. Mi piace la lucentezza  che emana dalla sua magica superficie.
L'impatto di una palla di neve contro il mio capo mi fa sorridere. Questa dinamica era tipica di ogni inverno sul monte Eta.  Porto l’attenzione dello sguardo su colei che me l'ha lanciata.
«Non ti perdonerò stavolta» affermo ridendo e accumulando neve all'interno delle mie mani. Non ho tempo di lanciare la palla appena creata verso Sarya che altra neve si spalma sul mio viso.
«Sono sempre io la più veloce, Cavaliere di Pegasus. In guardia!»
Mi vendico, colpendola a una spalla con una pallina di neve morbida.
«Tentavi di deconcentrarmi eh?» le dico, con un sorriso, dopodiché lascio che mi venga incontro e mi abbracci. La stringo a mia volta, affondando il viso sulla sua spalla.
«Sapevo che ce l'avresti fatta, anche se temevo che questa vita non facesse per te» confessa, mentre mi accarezza la schiena.
«All'inizio ero dello stesso avviso, lo ammetto, ma poi è cambiato tutto: ho trovato uno scopo.»
«Ah…» afferma con un tono strano. So benissimo che cosa sta per dirmi, perciò prevengo le sue parole con le mie.
«Non è per lei. Sì, cioè, è per lei, ma non nel modo che pensi tu» affermo, vistosamente in difficoltà. Le guance si arrossano e scottano nonostante la bassa temperatura.
L’ abbraccio si scioglie e una sua mano si sposta sulla maschera.  La rimuove per mostrarmi il suo sorriso convinto.
«Non puoi nascondermi niente, come io non posso farlo con te. Dovresti essere al settimo cielo con il successo che hai appena ottenuto, eppure sembri distratto e preoccupato.»
 Mi volto e dopo aver rimosso l'elmo dal capo, pettino i miei folti capelli con le dita, li tiro all'indietro.
 «Te l'ho già detto, Sarya. Negli ultimi tempi Eirene sembra non voler incrociare il mio sguardo. Sfugge come acqua dalle dita. E...lo fa solo con me.»
Appoggio la schiena contro il muro e alzo lo sguardo al cielo. Le nuvole si stanno addensando: forse anticipano una nevicata.
«In quanto Atena, Eirene ha il peso della salvezza del mondo sulle spalle. È probabile che sappia più di quanto ci ha detto e che ci sia qualcosa che la rende inquieta.»
«Ma perché prendere le distanze solo da me?» chiedo confuso.
«Io ho un'idea, ma è meglio che tu glielo chieda direttamente.»
«Non posso...» schiocco la lingua contro il palato. «Non posso raggiungere le sue stanze. I Cavalieri di Bronzo non hanno diritto di superare le Dodici Case e io non ho un permesso.»
Mia sorella sbuffa e dopo essersi data uno sguardo attorno, sistema la maschera sul viso.
«Scuse, banali scuse. Ci sono persone che scendono fino all'inferno per vedere la persona a cui hanno donato il proprio cuore.»
«Ma...» provo a contestare. Vorrei dirle che io non sono innamorato di Eirene, che la mia è solo impareggiabile fedeltà ma mentirei e non posso farlo con Sarya. Preferisco portare il discorso altrove.
«Stai parlando di Orfeo della Lira?»
«Sì» annuisce. «Nessuno l'ha più visto dall'attacco di Ade. Si dice che la dea Persefone gli abbia concesso di vedere l'amata defunta in cambio della sua fedeltà.»
«Ma lui... è Cavaliere d'Atena! Per nulla al mondo avrebbe dovuto compiere un atto di tale empietà.»
 Sarya non mi risponde. Ha il viso rivolto verso l'incedere di un'altra donna. Ella indossa un'armatura viola e una maschera truce. I suoi capelli bianchi scendono ribelli fino alla vita. Il suo Cosmo è ampio e trasmette angoscia.
«Chi è quella? Non l'ho mai vista in giro» chiedo sottovoce a mia sorella.
«Lei è Ecate, Cavaliere d'Argento del Serpentario. Abbiamo ricevuto l'investitura assieme, ma da diversi mesi a malapena ci rivolgiamo la parola.»
Rimetto l'elmo e dopo essermi allontanato dalla parete, assesto un debole calcio alla neve.
«Ho smesso di cercare di capire gli altri» affermo distratto. Mi stiracchio e mi lascio andare a uno sbadiglio. La maschera argentea di Ecate è rivolta verso di me e mi mette in imbarazzo.
«Forse è meglio che me ne vada. Non voglio crearti problemi.»
Sarya scuote il capo.
«Non è quel tipo di persona. Anche se è cambiata parecchio...è sempre stata insofferente alla regola che vieta l'accesso ai maschi in questo luogo.»
Vedo Ecate voltarsi e proseguire il suo cammino chissà per dove. I suoi movimenti sono incerti, come se non avesse una vera e propria direzione. Sarya stringe un mio braccio e mi scuote per attirare la mia attenzione.
«Lei!» afferma.
«Lei, cosa?» chiedo stupito e confuso.
«Lei potrebbe aiutarti a raggiungere Eirene e attraversare le Dodici Case.»
  La guardo stranito. Non mi aspettavo una frase del genere dopo quello che mi ha detto sul conto di Ecate.
«Ma...»
  - Lei ha accesso alle stanze di Atena, in quanto sua fidata amica. La dea stessa le ha accordato il permesso. Potresti chiedere a lei...anzi, potremmo farlo insieme visto che muoio dalla voglia di parlarle.»
Mi lascio andare a un profondo sospiro e rimango in silenzio per qualche secondo, dopodiché annuisco. So che sto per mettermi in un bel guaio, disobbedendo agli ordini dei miei superiori, ma la voglia di confrontarmi con Eirene supera ogni esitazione. Scendere a patti con Ecate del Serpentario? Va bene. Si può fare. Niente è impossibile per un Cavaliere, perlomeno è quello che dice mio padre.
«Perfetto. Seguimi, allora» mi invita Sarya, mentre si avvia a passo spedito verso Ecate. Sono titubante e impacciato, ma alla fine le do ascolto, anche se resto a qualche passo di distanza dalla sconosciuta. Da vicino, la presenza di Ecate è ancora più gelida e capace di mettermi a disagio.
«Come posso esserti utile?» chiede gelida a Sarya.
«È da tanto che non parliamo» mia sorella prova a iniziare una conversazione.
«Lo so, difatti continuo a non avere niente da dirti. E ora se vuoi scusarmi...» la interrompe Ecate, bruscamente, per poi voltarsi e allontanarsi a veloci passi.
«Ho bisogno d'aiuto, Ecate!» grida Sarya, costringendo i passi dell'altra a fermarsi.
«Mi devi un favore, ricordi?» continua.
Il respiro di Ecate si infrange rumoroso contro la maschera.
«È vero e di solito non lascio nessun debito» afferma, prima di voltarsi verso di noi. «Che cosa vuoi che faccia per te?»
«Mio fratello deve raggiungere le sale di Atena, deve parlare con lei» spiega Sarya tutto a un fiato.
«Devo fissargli un'udienza?» chiede l'altra gelida.
«No. È un altro genere di incontro.»
Dopo una lunga manciata di secondi in cui il silenzio ha reso ancor più gelido il vento, sento Ecate ridere anche se debolmente.
«Capisco, ho già sentito parlare di questa storia.»
«Da chi?» la interrompo, preoccupato. Mi risponde scuotendo il capo e incrociando le braccia al petto.
«Lo scoprirai da solo.»
  Con un cenno della testa mi invita a seguirla e mia sorella mi spinge a farlo, posandomi una mano sulla spalla.
«Grazie, Ecate» afferma, prima di congedarsi da me. Il Cavaliere del Serpentario non risponde se non con un cenno della mano, che la invita a lasciar perdere. Insieme saliamo parte della scalinata che porta alle Dodici Case. I nobili guardiani ci lasciano passare senza porci troppe domande. Solo Esperante, nella Casa del Leone mi ferma per quasi venti minuti. Mi è dispiaciuto non poter condividere con lui l'euforia di aver conquistato il titolo di Cavaliere di Bronzo, ma ora più che mai la differenza tra il nostro potere tende a separarci. I suoi compiti sono molto più solenni e ardui dei miei, tuttavia non lo hanno cambiato è sempre un buonissimo amico. È lui, dopo avermi preso da parte, che mi mette in guardia su Ecate.
«Quella donna ha fatto insospettire mio fratello. Nonostante la vicinanza ad Atena, si vocifera che non abbia mai rinunciato totalmente alla devozione ad Ares dio della Guerra e della Violenza» confessa sottovoce guardandosi attorno.
«Ares?» ripeto io.
«Parla piano, Inazuma! Possibile che non impari mai?»
Mi tappo la bocca e annuisco.
«Sì, Ares rinato in Castore, Cavaliere dei Gemelli. Si dice che lui avesse una storia con Ecate.»
«Storia?»
Esperante si preme una mano sul viso e sospira.
«Un uomo e una donna che…Hai capito?»
«Davvero? Quindi possiamo dire che Ecate è innamorata di Ares» deduco. «Un bel guaio.»
«Già… e la cosa che più spaventa il Grande Tempio è che lei…»
«Con tutto il rispetto, sarebbe bene che piuttosto di farci perdere tempo, Esperante del Leone, svolgeste il vostro compito di guardiano. A meno che la Quinta Casa non sappia difendersi con le chiacchiere» lo interrompe bruscamente Ecate. Lui non fa che voltarsi e sollevare un pugno.
«Forse non sai chi hai di fronte, Cavaliere d'Argento» afferma sorridendo. «Vuoi che ti parli del divario che c’è tra noi sia da un punto di vista di forza che gerarchico?»
«Non serve. Siete forte e indubbiamente superiore a me. Ho ben altri scopi piuttosto che arrischiarmi in una battaglia persa in partenza. Il mio era soltanto un consiglio, visto che i vostri pettegolezzi non sono d’alcuna utilità alla causa di Atena. Con questo non pretendo di ottenere nulla da voi, se non il permesso di passare» afferma Ecate senza dare tono alle sue parole, come se fossero scritte da qualche parte e le stesse leggendo. Questa donna mi trasmette una profonda sensazione di vuoto.
Esperante rivolge un veloce sguardo a me e annuisce.
«E sia» concede a denti stretti. L'intuito del mio migliore amico non ci ha mai traditi e i sospetti di Angelòs hanno sempre fondamento, ma Sarya non mi ha detto niente di strano su di lei. Il fatto che sia innamorata di un uomo pericoloso non la rende una traditrice. Le parole che mi ha detto mia sorella e il ricordo di Orfeo della Lira, però, mi parlano del contrario. Per amore gli uomini e le donne potrebbero fare di tutto, anche scendere all’inferno.
 La tengo sott'occhio mentre proseguiamo sul nostro cammino. Gli altri Cavalieri d’Oro ci lasciano passare senza battere ciglio. Noto una stranezza soltanto in Narciso, il Cavaliere dei Pesci, che addirittura decide di scortarci fino alle stanze del Grande Sacerdote. Proprio come me, il guardiano della Dodicesima Casa, non toglie gli occhi di dosso a Ecate. Che condivida gli stessi dubbi di Esperante? Vorrei chiederglielo, però Narciso è un uomo enigmatico. Il suo viso non esprime niente se non statico stoicismo.
Ci fermiamo a pochi passi dall'entrata dell'ultimo palazzo e il Cavaliere d'Argento si volge verso di me.
«Aggira il palazzo del Grande Sacerdote. La piccola scalinata a destra. Sali e la troverai» dice a voce bassa sotto lo sguardo vigile del Cavaliere dei Pesci. Lo sguardo algido di Narciso si sposta in direzione delle indicazioni di Ecate e finalmente vedo le sue labbra curvarsi in un sorriso convinto.
«Grazie» dico impacciato. Le guance mi scottano come se fossero state toccate dal sole estivo. Questa donna non è malvagia, non può esserlo, perché me ne accorgerei.
«A buon rendere, Cavaliere di Bronzo» afferma Ecate. Il suo tono di voce è tutt'altro che gelido, adesso. Non so cosa darei per vedere la sua espressione, invece devo accontentarmi del calore di quell’esortazione.
Trovo il sentiero che mi ha indicato e inizio a salire anche se la scalinata a strapiombo sul fianco della montagna suscita in me un più che giusto spavento. Si sta quasi facendo sera e l'ululato del vento trasmette una sensazione ancora più terrificante del solito. Ah! Smettila, Inazuma! Sei un Cavaliere, mi dico, queste scale sono una bazzecola di fronte ai pericoli che hai affrontato e che affronterai.
Arrivato alla sommità, perdo qualche secondo per guardarmi intorno. Sarà anche pericoloso arrampicarsi fin quassù, però il panorama è assolutamente suggestivo.
Il sole è già sceso dietro l'orizzonte e le prime stelle fanno capolino dall'algido cielo. Il mio respiro si condensa non appena esce dalle labbra. Appartengo al firmamento come a questa terra, sono un prodigio degli dei come tutti coloro che vivono su questo sacro suolo. Siamo stati forgiati da vite diverse ma ci siamo uniti sotto un mare di stelle. Il vento mi porta voci lontane, sconosciute e note. È come se da qui potessi vedere ogni cosa, se potessi indagare ciascun angolo del mondo.
«Inazuma!» esclama la voce di Eirene alle mie spalle. «Come sei...arrivato fin qui?» chiede allarmata quando i nostri sguardi si incrociano.
«Qualcuno mi ha detto che ti trovavi quassù e...»
«Chi? Chi te lo ha detto?» chiede allarmata più che infastidita.
«Non faccio mai la spia» affermo con un sorriso, indicando il rinforzo metallico che mi copre il petto.
«Sono un Cavaliere!»
Riesco a strapparle un sorriso che si esaurisce dopo pochissimo tempo.
«Nessun Cavaliere dovrebbe spingersi fin quassù. È vietato, visto che poco più avanti si trova l'Altura delle Stelle, luogo accessibile solo a me e al Grande Sacerdote» mi rimprovera. La sua voce è dura come l'espressione. Gli occhi verdi perforano i miei fino a ferirmi l'anima. È chiaro che tutta la strada che ho fatto per vederla non abbia portato a niente. Non sono il benvenuto al suo cospetto.
«Devo rispettare le regole, lo so, ma prima di tutto voglio sapere…»
«Che cosa vuoi sapere, Pegasus?»
  La prima cosa che Eirene mi ha chiesto era di chiamarla con il suo nome, piuttosto che Atena. Adesso è lei a mettere un abisso di distanza tra noi, a farmi capire qual è il mio posto, appellandosi a me con il nome della costellazione a cui appartengo. Io sono un Cavaliere e lei è l'incarnazione della dea Atena. Tutto il resto non conta, molto probabilmente non ha mai contato.
«Niente. Mi scuso soltanto per avervi importunato, Dea Atena. Ciò che un Cavaliere pensa non ha alcuna importanza» sentenzio, per poi voltarmi e serrare i denti, assieme ai pugni. Sono stato soltanto un povero illuso. Gli uomini e gli dei sono creature troppo diverse per guardarsi negli occhi e sentirsi vicine. Ritorno sui miei passi, quasi correndo. Lo sconforto mi mette le ali ai piedi.
«Inazuma...» afferma debole la sua voce. «Parlami, ti prego.»
«Non serve, Atena. Era solo uno stupido pensiero il mio, una preoccupazione insensata...»
 Bravo, sciocco. Menti e nasconditi.
«Tutto si è chiarito quando sono rimasto fermo a osservare il mondo da quassù. Gli esseri umani, anche i più fulgidi, sono piccolissimi se guardati dall'alto.»
 Fai del male a te e a lei, alla fine è così che deve essere. È l'ordine naturale. Le lacrime che le lucidano gli occhi non sono come le tue, forse non bruciano come quelle dei comuni mortali. Gli dei hanno cuori di ghiaccio per sopravvivere ai secoli.
«Ho pensato di essere diverso, di potervi guardare come se fossimo simili e di...»
Sorrido spavaldo, come un uomo vissuto e disilluso che è sicuro di sapere la verità arcana del mondo.
«Lasciate perdere questo inutile pensiero.»
Mi volto, deciso a non guardarmi più indietro e mi congedo con un saluto lapidario da lei dopo aver ascoltato a lungo il suo silenzio. Anche per lei è meglio così. Narciso e Ecate sono probabilmente nelle stanze del Grande Sacerdote. Bene, non importa, discenderò da solo. I Cavalieri d'Oro mi lasceranno di certo passare.
Mi fermo alla Casa del Leone per parlare con Esperante fino a notte inoltrata, momento in cui entrambi ci ritiriamo nei dormitori riservati ai Cavalieri. È la prima volta che mi trovo nello stesso stabile dei Dodici. Privi di armatura sembrano poco diversi da me. Siamo tutti uguali agli occhi degli dei; lo dico ancora una volta a Esperante, che rimane in silenzio. Non sa che rispondermi. È un amico troppo caro per dirmi brutalmente che era cosa risaputa. Oltre a mia sorella, lui è l'unico a sapere di ciò che significa Eirene per me.
«Ci mancherebbe che così non fosse, ragazzo» afferma la familiare voce profonda del Cavaliere del Toro. L'ho sempre guardato con ammirazione. La grande stella Aldebaran è una delle colonne portanti del Grande Tempio, uno dei guerrieri che l'ha visto  costruire, pietra per pietra. È una leggenda che ho sempre osservato da lontano.
I suoi occhi scuri guardano oltre la finestra aperta sulle rocce innevate.
«Ognuno di noi si è avvicinato ad Atena perché è stato benedetto dal suo potere benevolo. Siamo uomini e donne diversi, proveniamo da ogni angolo del mondo e ci siamo coalizzati sotto un'unica speranza.
 Perché dovremmo essere trattati in modo diverso dalla Dea?»
Il suo ragionamento è giusto, perciò decido di annuire e abbassare il capo. Quello che mi stupisce è che Aldebaran scoppia a ridere.
«Non crederai che sia davvero tutto qui, ragazzo.»
La sua ampia mano si posa tra i miei capelli ribelli. Il suo gesto mi stupisce.
«Ciò non cambia il fatto che anche lei provi sentimenti, esattamente come noi. Gli antichi miti la raccontano come nume gelido e inflessibile, ma la sua rinascita come umana le ha donato un cuore. Nessuna leggenda ha mai parlato di un'Atena che piange, eppure l'abbiamo vista soffrire per la nostra sorte. La vera benedizione di Atena sono proprio quelle lacrime, segno tangibile del suo affetto per noi. Qualsiasi cosa ti leghi a lei è preziosa esattamente come la tua lealtà. I tempi del mito sono lontani, Inazuma di Pegasus. Nemmeno gli immortali sono più gli stessi.»
Si allontana da me, raggiungendo la finestra. La neve ha ripreso a scendere silenziosa. Il suo moto è dolce e regolare, delicato. Mi placa e distrae il mio pensiero dall'angoscia e la tristezza. Mi lascia scivolare in un sonno pacifico e tranquillo.
Vengo svegliato dal dolce tepore che mi accarezza una mano. Sembra un delicato sfiorare, o forse è il bacio di un raggio di sole primaverile. Schiudo appena le palpebre e la luce mi ferisce gli occhi. Non è ancora giorno: la luminescenza che mi investe è un Cosmo splendente nella notte.
Mi ci vuole qualche istante perché i contorni di ciò che ho davanti si definiscano. Non credo a ciò che vedo. Che ci fa lei qui?
«Ei...Eirene?» mormoro. Lei porta l'indice a premere sulle labbra. Le sue mani scorrono lungo le mie braccia, mentre lei si china su di me. Avvicina il viso al mio senza mai interrompere il contatto tra i nostri sguardi.
Il cuore batte veloce, la bocca ancora impastata dal sonno recente non lascia uscire nemmeno una parola. Di riflesso porto la mano destra sulla nuca di lei e lascio scivolare le dita fino alla guancia. Eirene la comprime contro il palmo e libera un sospiro seguito subito da un singhiozzo.
«Che succede?» dico sottovoce. «Perché siete venuta fin qui, Atena?»
 Non mi risponde e adagia la testa sul mio petto. Passa le braccia sotto la schiena e stringe il tessuto rozzo della mia tunica.
«Eirene...continua a chiamarmi così. Tu devi farlo, ti prego» sussurra mentre mi stringe ancora più forte.
Pettino i lunghi e morbidi capelli con le dita e ascolto il suo respiro alterato che lentamente si placa. Sposto lo sguardo su Nikanor che dorme sul giaciglio accanto al mio. Immagino già il commento caustico che farebbe se si svegliasse in questo momento. Non mi andrebbe tanto meglio se lo facesse Rhadia che si trova dall'altra parte.
«Vieni con me, all'Altura delle Stelle, Inazuma» chiede lei sottovoce.
«Ma io...non posso…»
«Vieni con me.»
  Non vuole sentire ragioni e non sono abbastanza forte da continuare a contraddirla.
Si alza e a passo leggerissimo esce da questo spazio a lei interdetto. Nessun Cavaliere vorrebbe mostrarsi dormiente, scomposto e spettinato di fronte alla dea. A dire la verità non vorrei farlo nemmeno io, ma non ho il tempo fisico di darmi un contegno. Riesco appena a mettere i calzari ai piedi. Lei mi aspetta fuori, mi invita a raggiungerla con il cenno di una mano e un sorriso che mi toglie il fiato. Il sole non è ancora sorto, ma il cielo sta arrossendo come le mie guance, che nonostante il freddo, irradiano calore.
Una volta uscito, Eirene mi prende per mano e mi guida a salire per i Dodici Templi addormentati. Il silenzio è interrotto solo dal vento debole e dalle nostre parole.
Tutto questo mi ricorda i primi tempi che mi allenavo con Angelòs. Era un percorso troppo duro per un facilone come me e più tempo passava, più mi convincevo di non avere le carte in regola per seguirlo fino alla fine. Dopo l'ennesima giornata inconcludente ero andato a riposare le membra distrutte. Osservavo il cielo che piangeva pioggia, come se fosse l'unico a capirmi. I miei limiti alla fine erano mura insuperabili e i pugni che in quel momento osservavo, non avrebbero mai potuto abbatterli. Il dormitorio era ridotto a poco più di un edificio cadente. La pioggia cadeva anche all'interno, goccia per goccia, scandendo il tempo con il suo rumore fastidioso.
Non riuscivo ad addormentarmi, pieno di dubbi e pensieri, al contrario di Nikanor e gli altri che erano già nel regno di Morfeo da un bel pezzo.
La voce di Eirene aveva sovrastato il rumore dell'acqua che arrivava chiaro e severo dalla finestra aperta. Chiamava il mio nome, con il sorriso dipinto sulle labbra, mentre si sporgeva verso l'interno. Incredulo e preoccupato ero corso fuori senza nemmeno indossare i calzari per seguirla, lungo il tragitto che portava alla scalinata.
Quando stavo per raggiungerla, mi sfuggiva, incamminandosi verso i templi silenti. Eravamo più piccoli, anche se da allora sono passati soltanto un paio di anni ed eravamo diversi, più infantili, più spensierati, forse più veri. Ridevamo e correvamo tra le macerie come se la terra non fosse ferita, come se non dovessimo combattere contro la Morte. Non eravamo arrivati fino all'Altura delle Stelle quella volta, ma ci eravamo fermati di fronte alla statua della dea. Lì i sorrisi si erano estinti e le gocce di pioggia si erano fuse con le lacrime, mentre ci giuravamo di non perderci, di non cambiare, nonostante il dolore che sentivamo a causa della realtà che ci era piombata addosso come un uccello rapace.
"Non sei solo la mia dea, Eirene...Tu sei..."
Non ero riuscito a finire la frase, ma adesso, dall'alto di questo sperone di roccia proibito a qualsiasi essere umano, ho trovato la parola che mancava.
Questa volta è la neve a cadere dolce sui nostri capelli. I visi sono più vicini, tanto che il mio respiro si fonde con il suo.
«Non voglio stare da sola, lontana dal mondo. Ho paura di stare così in alto e vedervi lontani, vedere te...così irraggiungibile anche se così vicino» sussurra sulle mie labbra.
«Non sei obbligata a farlo.»
«E invece devo. Tutto quello che è vicino a me si distrugge. Le persone che mi hanno amato sono morte o ferite così profondamente da non sembrare più le stesse. Se non mettessi distanza tra me e te tu potresti...»
Non la lascio finire, poiché premo le labbra sulle sue, mentre la  chiudo in un abbraccio che non lascia dubbi sulla mia determinazione. La mia pelle è bollente, tanto che nemmeno la carezza della neve riesce a raffreddarla. Le mani si fanno più insistenti su di lei in modo da sottolineare il fatto che è mia, qualsiasi cosa accada. Dapprima lo stupore la immobilizza, ma subito dopo vince l'amore che ci richiama entrambi. Le sua bocca cerca insistentemente la mia, quasi con disperazione. È tutto quello che vogliamo, come se fossimo nati per questo.
Le dita sue si intrecciano sui miei riccioli ribelli e bagnati, suscitando in me brividi piacevoli che veloci scorrono lungo tutta la schiena.
«Ho paura, Inazuma...» ammette, dopo aver allontanato le labbra dalle mie. «Paura di non rivivere questo mai più...»
Appoggio la fronte sulla sua e chiudo gli occhi.
«Niente ti potrà separare da me, Eirene, lo sai» affermo sorridendo.
«Come fai a esserne certo? Abbiamo l'inferno contro di noi.»
«E allora? Nessuno può separare in due un cuore. Esso deve rimanere intero per continuare a battere.»
 Sposto una mano sul suo collo e la guido a chinare il capo di lato. Bacio la sua pelle godendomi i suoi placidi e rilassati sospiri.
«Sei la metà del mio cuore» sussurro al suo orecchio.
  Non mi risponde a voce, ma stringe forte il suo abbraccio su di me.
"Non cambiare mai, Inazuma", mi aveva detto sotto la pioggia, difatti io non sono mutato. Forse non possiedo la solennità dei grandi eroi di questa epoca, forse non sono brillante come i Dodici o poetico abbastanza da trovare sempre la frase giusta e note dolci per esprimere le mie emozioni. Sono giusto me stesso, impacciato, testardo, innamorato, ma va bene così. Tutto questo è la strada per i sogni.

 

ECATE

 
È una sera gelida questa. Fredda e buia, priva di stelle come un pozzo di nulla. La neve ha smesso di scendere e l'aria glaciale ha creato uno scivoloso e spesso strato di ghiaccio. Il piccolo sentiero che porta alla prigione di Castore è ancora più pericoloso del solito, ma non mi importa. Non è questo che può tenermi lontana da lui. Come al solito mi faccio strada fino al piano più basso, ma non posso raggiungere la cancellata dorata dietro alla quale si trova l’uomo che amo: devo nascondermi, in modo da non farmi notare dagli uomini che confabulano di fronte a essa. Sono in quattro, ma riconosco solo uno di loro: è il nuovo, abile cerusico, arrivato al Grande Tempio da soli sei giorni.  Il volto è coperto da una pesante maschera blu come la notte. Dicono che celi il suo aspetto per nascondere una terribile deformità.
Trattengo il respiro, appiattendomi all'umida parete di pietra quando il volto mascherato si volge verso di me.
«È morto. Nemmeno il venerabile Asclepio avrebbe potuto fare qualcosa per lui. I fendenti della daga di Ares non lasciano scampo nemmeno agli dei, figurarsi a un comune mortale» afferma la sua voce, grave e attutita dalla maschera. Il mio cuore perde un battito e un dolore profondo mi sconquassa il petto. Non può essere, forse è uno scherzo o magari sto fraintendendo. Sicuramente non si riferisce a lui, provo ad autoconvincermi.
«Portate via il cadavere. Che nessuno lo veda» ordina.
«No! Non fate assolutamente niente!- grido io, correndo fino a raggiungere la cancellata aperta. Il cerusico è lesto ad afferrare una mia spalla e costringermi a voltarmi. Non vuole che i miei occhi continuino a contemplare la realtà delle cose. Quello che ho visto ha confermato tutti i miei più oscuri timori.
«Non guardarlo, ragazza»  consiglia con delicatezza, ma io non intendo ascoltarlo. Mi volto verso l'interno della cella. Il sangue imbratta le pareti e i sigilli di Atena. Intride il giaciglio di pietra e le coperte. Vedo Castore di spalle. Il pugnale dorato che trafugai dalla Tracia è conficcato al centro della sua schiena. L'assassino ha torturato il meraviglioso corpo del mio uomo con decine di fendenti, infierendo su lui che non poteva difendersi. Quel pugnale! Lo avevo messo al sicuro nelle mani di Eirene e del Grande Sacerdote. Come può essere stato utilizzato da un comune assassino?
Allungo le braccia verso di lui, oltre le sbarre, nonostante la forte presa del cerusico mi renda impossibile fare anche solo un passo.
Chiamo il suo nome con tutta la voce che ho, mentre percorro le linee del suo corpo martoriato con lo sguardo. I suoi contorni sono tremuli, l’immagine offuscata da un velo di lacrime. Non riesco a vedergli il viso. I capelli azzurri, intrisi di sangue, lo coprono, nascondendolo alla mia vista. Il sangue copioso su di esso mi lascia intendere che l’omicida abbia fatto scempio dei suoi meravigliosi lineamenti.
«Lasciatemi andare, vi prego...Lasciatemi andare da lui» imploro il medico, disperata, ma lui mi trattiene con più forza.
«No» afferma. «No, non potete. Uscite di qui.»
  Mi oppongo, urlando come una bestia furiosa, ma non ottengo niente, poiché la mano del medico si posa sulla mia fronte. Progressivamente perdo tutto il vigore che finora ha alimentato la mia disperazione. Cado preda di un profondo sonno indotto, abbandonandomi alle braccia di questo sconosciuto.
Quando mi risveglio, trovo Sarya al mio fianco. I modi pacati e il sorriso della mia prima amica di Atene quasi mi convincono che l'assassinio di Castore sia solo un bruttissimo incubo. È il trambusto all'esterno dei nostri alloggi a tradire questa mia erronea convinzione: i Cavalieri parlano di continuo dello scempio operato sul prigioniero e della follia di Polluce che ha osato accusare e aggredire il Grande Sacerdote. Nessuno si è schierato contro di lui, anzi, la maggioranza dei Cavalieri pensa che Hosoku della Bilancia sia l'assassino di Castore e non solo, anche il rapitore della dea Atena. Il Grande Tempio, nel giro di una gelida notte, ha perso la sua guida e la speranza. Io ho perso ancora una volta la mia ragione di vita: Castore è morto.
Che cosa mi resta?
Anche se ho mascherato i miei sogni con il nobile desiderio di proteggere la giustizia, io ho vissuto soltanto per lui, pensando che nel suo cuore risiedesse il mio destino.
Gli ho fatto tante, tantissime promesse e le ho tradite tutte. Volevo fargli rivedere il sole, ma per due estati l'ho deluso, e ho dovuto accampare scuse per nascondere la mia inettitudine. Lui non mi ha fatto mai pesare le mie difficoltà e la mia debolezza, non mi ha mai chiesto niente, mi ha soltanto donato tutto l’amore che una donna potrebbe mai chiedere al più bello dei suoi sogni.
Anche se i raggi luminosi mi illuminano insistenti, per me il sole si è spento. Tutto quello che resterebbe è  l'atroce e sanguinaria vendetta verso l'assassino, verso il mostro che ha cancellato la speranza degli uomini e molto probabilmente, insieme ai Cavalieri ribelli, ha spento anche la vita di Atena. Hosoku, il Grande Sacerdote, ha vestito i panni della carismatica guida per poi vendere l'anima alla violenza. Dhiren dell'Ariete ha voluto seguire le sue orme così come il Leone Esperante e il Sagittario Angelòs. Anche il Cancro, Sophos è scomparso dal Grande Tempio di Atene. Rimangono soltanto sei armature d'oro alle Dodici Case, visto che quella dei Gemelli è scomparsa.
Anche Sarya, assieme a diversi Cavalieri di Bronzo, ha deciso di lasciare questa terra. Fino all'ultimo tenta di convincermi del fatto che sia stata tutta una becera congiura contro Hosoku e la stessa Atena, creata ad arte per distruggere il Tempio dall'interno. Quando le ho chiesto chi avrebbe mai potuto ordire un piano simile, lei non mi ha risposto. Nessun nemico, per quanto infame, avrebbe attaccato un uomo in catene. Nessuno oltre alla dea e al Grande Sacerdote avrebbe potuto sapere dove si trovava la lama di Ares. Ares, il mio dio, disceso dall'Olimpo soltanto per me. Bruciano ancora sulla pelle le carezze e i baci. Più giorni passano e più il ricordo mi fa male come veleno che scava a fondo. Non trovo consolazione neanche nell'odio, anzi, esso mi isola e mi rende muta, anche se molto, molto più forte. Il mio Cosmo diviene pungente, tanto che ora le unghie possono fendere metallo e roccia, come se tutto il corpo fosse tramutato in arma.
Ho tanta rabbia dentro, ma so che anche lasciandola esplodere non otterrei nulla. I morti non tornano in vita e tutte le leggende che affermano il contrario sono inutili racconti tramandati dagli sciocchi e dagli illusi.
Non c'è più una guida in Grecia, perciò nessuno baderà al mio silenzioso allontanamento dalle mura del Tempio. Le sentinelle non hanno più niente da sorvegliare e ignorano i miei passi decisi che affondano sul ghiaccio inspessito dall'avanzare del terribile inverno. Arrivata alle mura che separano il Santuario di Atena dal resto del mondo mi do un ultimo sguardo indietro, ripercorrendo la scalinata delle Dodici Case con gli occhi. Venire qui è stata la mia dannazione. Se non avessi accettato di provare amore, non avrei sofferto in questo modo barbaro. Gli artigli della mancanza lacerano il cuore senza mai smettere. Rinasco ogni giorno solo per morire ogni notte. L'unica cosa che spero è che, una volta lontana da qui, questa sensazione si affievolisca fino a sparire completamente, anche lasciandomi vuota. Vuota, è questo che voglio essere, priva di voce e di anima, senza sogni o ricordi, senza alcuna debolezza.
Stringo tutte e due le mani sulle cinghie che legano lo scrigno d'argento dell'armatura alla mia schiena non appena percepisco il gelido Cosmo di Megara. I suoi passi hanno seguito i miei senza che me ne accorgessi.
«Dove stai andando, Ecate?» mi chiede, allarmata.
«Via» rispondo lapidaria, avanzando di qualche decina di centimetri.
«Non è scappando che troverai pace» afferma solenne, come una filosofa da quattro soldi. La sua sicurezza mi strappa una risata mesta.
«Non troverò la pace. Non la cerco.»
«Non vuoi vendicarti per quello che ti hanno fatto?» chiede, disperata.
«No. Non voglio vendicarmi. Non so contro chi sollevarmi. Hosoku...»
«Non pronunciare quel nome con tanta leggerezza!» mi taccia Megara.
«È l'assassino di Castore e il rapitore di Atena! Tiene prigioniera la dea chissà dove e ha convinto diversi dei Dodici a disertare! Covavamo una serpe in grembo e...» continua con enfasi, quasi fosse il predicatore fanatico di un nuovo credo.
«Spiegami perché avrebbe fatto una cosa simile. È la stessa domanda che ho fatto a Sarya prima che se ne andasse.»
«Lo ignoro» non esita a rispondere. «Ma è sicuro il suo coinvolgimento.»
«Niente è sicuro, assolutamente niente. Nel dubbio, me ne tiro fuori. Per quello che mi riguarda, qui non c'è più un'Atena da proteggere, né promesse da mantenere.»
Non mi volto nemmeno verso di lei, nonostante provi più volte a chiamarmi e a convincermi anche con un pianto assolutamente fuori dagli schemi del suo comportamento.
Potrebbe fare qualsiasi cosa, ma non la sento più, ho chiuso tutto il mondo fuori.
Scappo veloce e silenziosa, nell'oscurità totale della notte, senza una meta.
Il vento mi sferza il viso e sposta il pesante cappuccio nero dal capo, liberando di tanto in tanto ciocche di capelli bianchi come la neve. Non è il freddo ma la stanchezza a costringermi a una tappa nel villaggio più vicino. Non mangio e mi limito a bere per riscaldare il corpo. Vino in buona quantità, anche se questa affollata bettola mi offre poco più che acqua sporca. Prima di stordirmi con questa robaccia devo ingerirne un paio di litri nella totale solitudine dell'angolo più buio. Faccio fatica a rimettermi la maschera, visto che le mani tremano. Lancio i soldi sul banco e con parole biascicate chiedo una stanza all'oste sporco come un maiale.
Mi chiede un anticipo troppo salato per lo stipo che mi affitta, ma non ho lena di discutere. Sono alticcia e di pessimo umore. L'alcol ha sempre operato un pessimo effetto su di me, trasformandomi in una creatura ancora meno socievole del solito.
Senza aggiungere altro mi ritiro nello spazio che ho esageratamente pagato. Non ho voglia di spogliarmi e mi abbandono sullo scomodo giaciglio così come mi trovo. Mi avviluppo nel mantello nero e umido e serro gli occhi. La mia mente mi ripropone di continuo l'immagine del corpo riverso tra le lenzuola insanguinate. I suoi capelli blu, che in questi due anni ho accarezzato e pettinato, ho baciato e odorato...Quei bei capelli blu che tanto mi avevano colpito la prima volta che li vidi.
Scopro il braccio marchiato per vedere un leggero segno. Lo accarezzo con la punta delle dita.
«Mi manchi...» mormoro. «Mi manca anche la tua follia. Non lo hai mai accettato, ma io ti avrei amato comunque.»
Non ha senso parlare. Non può sentirmi, non potrà più farlo. Mi giro, in modo da arrendere il peso della schiena sul letto. Silenziosi singhiozzi mi sconvolgono il torace, ma serro le labbra in modo da non far trapelare nemmeno un lamento. Devo diventare dura come la pietra, fredda come il ghiaccio, solo a quel punto non sentirò più dolore. Eppure, anche se ci provo, gli occhi piangono lo stesso.
Mi addormento, sottoponendomi al tormento dei sogni: accozzaglie di ricordi amari che per una notte mi fanno rivivere tutti i propositi infranti.
«È qui, venerabile Astianatte. È arrivata ieri notte e da allora non è  più uscita da questa stanza. È ubriaca, forse è morta...Si sa, le donne non reggono l’alcol.»
Apro appena gli occhi alle parole dell'oste e mi volto verso la porta d'ingresso alla mia stanza. Le palpebre pesanti e il mal di testa mi impediscono di scattare in piedi e andarmene. Riconosco l'uomo mascherato che incontrai il giorno del ritrovamento del cadavere di Castore. Quindi è Astianatte il suo nome? L'ho sentito a lungo sulla bocca dei Cavalieri. A quanto pare, molti lo reputano abbastanza onorevole da ricoprire il ruolo di guida, proprio lui che è venuto a contatto con i guerrieri di Atena soltanto un paio di mesi fa. "Venerabile", " Nobile "...ma sconosciuto. Non mi fido di lui, per questo quando si avvicina mi rannicchio contro la sponda malconcia del letto.
«Il vostro è un atto di tradimento, Ecate di Tracia.  Disertori sono i guerrieri che abbandonano il fronte. Anche se il Grande Tempio è impoverito, non avete il diritto di lasciarlo a piacimento.»
 Tiro un profondo respiro e allungo una mano verso di lui. Tendo l'indice, indicando la maschera blu.
«Chi sei tu per parlarmi di tradimento? Togli la maschera e mostrami il viso. Solo così ascolterò le tue parole.» affermo, ridacchiando di scherno.
«State parlando con il futuro Grande Sacerdote di Grecia. Esigo rispetto» controbatte lui.
«E io voglio che tu sparisca come tutto ciò che riguarda Atena.»
 Ritiro la mano e la avvicino a viso dopo aver stretto il pugno.
«Allora volete costringermi a condannarvi a morte.»
La sua frase mi suona ridicola tanto che mi fa scoppiare a ridere, fragorosamente. Mi chino in avanti, e do sfogo alla mia frustrazione, prolungando il convulso di risa, che si fonde con la disperazione di un pianto mascherato. Sono felice che il mio viso sia coperto.
«Bene! Non voglio neanche un processo! Esegui tu o devo aspettare il boia?»
 Le mie parole suscitano una brusca reazione in lui. Le mani possenti si serrano sulle mie braccia e le appiattiscono contro la sponda. Il legno si ammacca a causa della pressione.
«Vi conviene smettere di irridermi, perché la morte sarebbe una dolce carezza vicino a ciò che vi farei passare.»
«Questa ipotesi mi incuriosisce, davvero. Stupiscimi» ringhio, mentre cerco di liberarmi, senza successo. Mi immobilizzo, quindi, fingendo di essermi arresa alla sua pretesa. Anche se di poco allenta la presa sulle mie braccia. Gli occhi rossi rubino della maschera coprono il suo sguardo che tuttavia sento pesarmi addosso. Lascio scorrere qualche secondo in modo che lui possa convincersi di aver vinto su di me, dopodiché, con un gesto brusco e veloce svincolo la mano destra e tiro un graffio deciso sul suo braccio. Strappo la stoffa scura e ferisco la sua pelle. Approfitto del fremito che scuote il suo corpo a causa del dolore per liberare anche l'altra mano. Rotolo sul letto fino a trovarmi per terra.
Mi alzo e di corsa raggiungo la finestra.
«Fermati!» intima lui, ma non intendo dargli ascolto. Balzo contro il vetro dell'imposta. La mia velocità unita al peso frantuma tanto la finestra quanto la copertura lignea oltre essa. Precipito per un paio di metri ma cado su miei piedi che affondano nella neve fresca e morbida. Corro il più veloce che posso senza badare alla direzione che ho preso.
È tutto bianco e sterile di fronte ai miei occhi, perciò non fa differenza. L'unica cosa che davvero importa è mettere distanza tra me e quell'uomo pericoloso. Il suo sangue ha lo stesso odore della paura. Mi fermo soltanto quando il villaggio appare piccolo e lontano ai miei occhi. Non avverto il rumore dei passi, né alcuna presenza estranea. Dopo aver ripreso fiato, riprendo a camminare verso l'infittirsi del bosco che mi garantirà copertura dai raggi rivelatori del pallido sole invernale.
«Un cerusico con la forza di una bestia che diverrà Grande Sacerdote?» chiedo ironica al vento debole che spazza freddo tra le fronde cariche di neve.
«Non ha senso.»
  Piego le ginocchia in modo da affondare la mano destra nella neve. Voglio lavare via il sangue dello sconosciuto mascherato che si è rappreso sulle unghie. Scuoto il capo. Ho lasciato l'armatura in quella bettola e mi rendo conto solo ora.
Il verso roco di un corvo mi distrae dai pensieri. Alzo lo sguardo verso le chiome degli alberi.
Anche se in lontananza li sento: passi nella neve. Mi guardo attorno, per poi voltarmi. Non riesco a percepire alcuna presenza. Tiro un profondo respiro e decido di girarmi verso le profondità della foresta, ma sobbalzo nel trovarmi davanti la figura alta e possente di Astianatte. Compio un balzo all'indietro e assumo una posizione di difesa, piegando entrambe le braccia fino a sollevare le mani all'altezza del petto.
«Che vuoi da me?» chiedo, con il cuore in gola. La sua risposta è una risata sinistra che suona familiare, anche se non riesco a collocarla nella mia memoria confusa.
«Avete giurato fedeltà al Grande Tempio, anche se la vostra fedeltà è labile quando si parla di dèi. Avete tradito Atena con la vostra fuga, rinunciando a combattere per salvarla dal traditore che l'ha portata via dal suo trono. Avete tradito Ares prima di lei, abbandonando il suo tempio: il segno sul braccio è chiaro simbolo della vostra infedeltà. Immagino che se voi aveste tenuto fede a...»
«Non continuare il discorso o ti strappo il cuore dal petto!» ringhio a denti stretti, caricando le mani del potere del Cosmo della mia costellazione.
«Se voi aveste tenuto fede alla vostra devozione nei confronti di Ares, nessuno avrebbe potuto imprigionarlo e dargli una morte così dolorosa. Una lunga e tormentata agonia che l'ha ucciso dopo ore e ore di sofferenza» continua, rigirando il coltello nella piaga. Sa di farmi male e sembra che questo lo diverta un mondo.
«Smettila» sibilo, sbattendo i denti come un cane rabbioso, mentre sollevo la mano destra verso l'alto. «Ricorda che il Cobra Incantatore non perdona nessuno!»
«È tutta colpa vostra. Siete stata voi a uccidere Castore dei Gemelli.»
«Non è vero...» controbatto alla sua accusa. «Non è vero» ripeto, abbassando bruscamente il braccio fino ad affondare gli artigli  nella terra umida sotto la neve, la quale si spacca, formando profondi crepacci di fronte a me. Sono convinta di averlo colpito, di averlo fatto sprofondare nell'angolo più remoto del Tartaro: non avverto più la sua presenza.
«Invece sì. Avete consegnato il pugnale all'uomo che lo voleva morto ed ecco il risultato. Siete stata voi ad armare quella mano, quindi siete stata voi ad assassinare Castore» continua a parlare Astianatte alle mie spalle. Come è possibile che io non riesca a percepire i suoi spostamenti? Che si muova alla velocità della luce come i Cavalieri d'Oro?
«Io volevo proteggere Castore da se stesso. Non ho mai pensato di fargli del male, mai. Non sei nessuno per muovermi un'accusa simile!»
Mi volto veloce con l'intenzione di squarciagli il petto e strappargli il cuore. Ho bisogno di vedere il suo sangue, di sentirne il calore e l'odore per placare la rabbia. Si allontana da me, schivando il mio colpo con un agile balzo all'indietro. Le mie unghie riescono però a colpirgli la maschera, che si incrina ma non si spezza.
«Mostrami il volto, vigliacco!» ghigno, pronta ad attaccare di nuovo. Astianatte tiene una mano sulla maschera che piano piano si sgretola, scoprendo le labbra e il mento che sono quelli di un uomo giovane.
 Vorrei colpirlo ancora ma la mano libera di lui blocca il mio braccio destro serrandosi sul polso. Vengo respinta, lanciata via. Cado violentemente sulla neve morbida che attutisce il colpo alla schiena. Il dolore non mi paralizza, perciò mi alzo in piedi.
Non riesco più a vederlo. È sparito, come se non ci fosse mai stato. Sono certa che in realtà sia vicino più di quanto possa pensare.
«Hai paura, vigliacco? Andiamo, fatti sotto!» affermo spavalda. Averlo colpito mi motiva a sperare di poter vincere, anche se è palese che siamo su livelli nettamente diversi.
«Io? Paura?» sussurra al mio orecchio. È dietro di me, sento il suo fiato sul collo. La sua voce mi mette i brividi. L'ho già sentita. No, forse mi sbaglio. Non può essere.
Mi toglie la maschera e la lascia cadere a terra. Le sue mani, stranamente calde si posano sulle labbra e gli occhi.
«Non ho paura di una donna, per quanto indomita ella sia. Non mi lasciate altra scelta, Ecate del Serpentario. Non avete nessuna intenzione di redimervi, per cui...»
 Cerco di agitarmi in un ultimo spasmo, prima di rassegnarmi alla paralisi. È come essere stretta tra le spire di un serpente.
«Sarò costretto a portarvi indietro  con la forza. Mi assicurerò che non vediate mai più la luce del sole. Chissà, magari rifletterete sulle vostre colpe.»
 Lentamente tutti i sensi svaniscono sebbene io sia ancora vigile. Sono intrappolata nel nulla dato dalla privazione di ogni percezione. Non mi rendo conto più di niente, nemmeno del tempo che passa. Sono sola con i miei ricordi, i miei pensieri e la paura di rimanere per sempre imprigionata nella negazione dell’essere. Non so più se dormo, se sono sveglia, se vivo, se ho smesso di esistere. Non sento più niente tranne il rombo assordante della solitudine. Cerco di metterlo a tacere aggrappandomi  ai ricordi, al calore di un abbraccio perduto, il suo. È proprio questa sensazione a placarmi, a rendermi sopportabile l'inferno, finché la luce tetra di una sparuta candela non mi ferisce gli occhi e il rumore regolare di gocce che cadono sulla nuda roccia mi richiama alla realtà.
Le mani toccano la pietra fredda. I capelli sporchi e inumiditi si appiccicano al viso. Non indosso la maschera né i miei soliti vestiti. Una semplice tunica di lino copre il mio corpo fino alle ginocchia. Sono scalza, ho le membra indolenzite e la bocca impastata dalla sete. Sono rimasta immobile in questa posizione per molto tempo. Finalmente riesco a guardarmi intorno. Noto pesanti sbarre verticali di metallo scuro che separano la stanza scavata nella pietra da un corridoio malamente illuminato. Sono in una cella? Mi alzo in ginocchio e come sposto le gambe e le braccia, sento il tintinnio delle catene. Mi volto in modo da trovare il punto in cui sono ancorate: il robusto gancio è fissato al muro irregolare e ammuffito.
«Bentornata tra noi, Ecate del Serpentario» mi saluta una voce maschile. C'è un uomo, immerso nella penombra, vestito di stracci. Vedo a malapena la sua sagoma. Solo dopo qualche istante sento il rumore delle catene che lo imprigionano e vedo la fioca candela avvicinarsi al volto giovane di un ragazzo. Ha lunghi capelli azzurri, lisci e folti. Le sopracciglia spesse sono tuttavia irregolari. Gli occhi blu e le labbra delicate e sottili disegnano il viso di un angelo sporco. La mia bocca si muove da sola sul suo nome.
«D...Demyan dell'Acquario?»
Conosco Demyan sin dai tempi in cui vivevo in Tracia. I miei genitori erano ancora vivi quando una donna era giunta presso la nostra splendida casa recando con sé un neonato in fasce. Fu difficile capire il suo strano idioma, straniero alla lingua usata dai greci, la lingua del mondo conosciuto. Solo dopo diverse ore di tentata comunicazione mio padre aveva compreso che la giovane gli aveva portato un figlio concepito durante una delle spedizioni militari a cui il mio nobile genitore aveva preso parte. Dall'alto della sua finta magnanimità, mio padre aveva deciso di prendere suo figlio bastardo con sé e sollevare l'amante dimenticata da ogni responsabilità su di lui. Mia madre   sembrava non volersi opporre alla sua scelta e solo quando il piccolo Demyan fu abbastanza grande da poter lavorare, capii il motivo del suo benestare. Aveva quattro anni quando divenne parte della nostra servitù, due meno di me. Né mia madre né mio padre si facevano problemi a comandargli compiti faticosissimi per quel corpo minuto. Con le manine ferite e la fronte imperlata di sudore continuava ad andare avanti senza fermarsi o lamentarsi. Mentre io e mia sorella vestivamo ricche vesti lui era coperto di stracci. Non potevo accettarlo. Il mio senso di giustizia a quel tempo mi impediva di tacere. Per questo approfittavo dei momenti di solitudine per trarlo da tutta quella sofferenza e fargli vivere un po' dell'infanzia che meritava. In tutto quel tempo non l'avevo mai visto sorridere. Lo aveva fatto per la prima volta quando gli insegnai a scrivere il suo nome. Per lui era una sorta di miracolo, mentre per me era un esercizio semplice. Al contrario io ero rimasta incantata nel vederlo trasformare l'acqua in ghiaccio soltanto sfiorandone il pelo. Il suo potete era meraviglioso e utile, specialmente in estate.
Oltre a esso, scoprii la sua sensibilità, nascosta dalla paura di essere ferito. Tutto era però finito bruscamente, quando i miei genitori erano scomparsi. Demyan era stato allontanato dalla casa dal furore del popolo, che lo vedeva come il responsabile della tragedia. Erano stati pronti a maledire i suoi occhi fieri, i capelli blu e le capacità ultraterrene, ma nessuno aveva mosso un dito per salvare dei bambini dalla vita di stenti che era scritta nel nostro futuro.
Non l’ho rivisto fino a qualche mese dopo il mio arrivo al Grande Tempio. Mi sono sempre sentita in colpa nei suoi confronti e anche avendolo vicino non ho mai raccolto il coraggio necessario per potergli parlare. Anche ora che è qui, accanto a me, non riesco a sostenere il suo sguardo. Eppure...è mio fratello. Ha lo stesso viso di mio padre e la medesima espressione rigida.
Annuisce alle mie parole e con una mano sposta una ciocca di capelli blu dietro l'orecchio.
«Sono stato incarcerato anche io. A quanto sembra, tutti gli ostacoli che intralciano l'ascesa di Astianatte finiscono qui, a marcire. Il primo è stato Castore, poi è toccato a Hosoku e i suoi che sono tuttavia riusciti a salvare il salvabile.»
Mi sollevo seduta e sconcertata scuoto il capo.
«Tu sei un Cavaliere d'Oro. Come hanno potuto sconfiggere te? Non c'è niente di superiore a uno dei Dodici tra i mortali.»
Mi rivolge una rapida occhiata prima di puntare gli occhi sul lume della candela.
«Ho accettato la resa senza combattere» risponde. «Ci sono cose per le quali un uomo rinuncia anche al suo onore» continua, distratto dalla fiamma tremula.
«Un affare di famiglia?» chiedo, dopo aver chiuso le ginocchia al petto.
«Sì. E tu sai bene che significa. Se non ricordo male ti sei ribellata a un capitano dell’esercito tracio per giocare a nascondino con un bambino della sua servitù» commenta, rivolgendomi un sorriso appena accennato. Ricordo perfettamente l’episodio a cui si riferisce, e lo faccio con un sorriso nostalgico.
«Avrei dovuto fare molto di più» replico.
«Ne dubito fortemente, sorella e se il tuo evitarmi deriva proprio da questo, allora sappi che è inutile. Non ti ho mai accusata di nulla.»
Chiudo gli occhi per qualche istante e serro le braccia ancora più forte. Lo sconforto viene affievolito dal piccolo fuoco di affetto latente e antico che non è perduto. Il viso di Demyan non si lascia dominare dall'emozione, ma quelle parole sono sincere e cristalline, un po’ come la sua anima.
«Chi hai protetto, Demyan?» gli chiedo.
«Mio figlio» risponde senza pensarci due volte.
Sgrano gli occhi e schiudo le labbra.
«Tuo...figlio?»
«Non condivido con lui nemmeno una goccia di sangue, ma l'ho cresciuto tra i ghiacci di una terra lontanissima, gli ho insegnato ogni cosa. È figlio dei miei insegnamenti e questo basta perché la sua vita valga la mia prigionia.»
Il suo racconto è profondamente tenero, anche se la sua voce non si articola in toni addolciti.
«Sono stato costretto a giurare fedeltà al nuovo ordine costituito per lasciar andare Nikanor.»
«Lasciarlo andare, per dove?»
Demyan si guarda attorno, scuote poi il capo a occhi chiusi. È il suo modo per dirmi che non può parlarmene. Oltre le sbarre, nell'ombra, si muovono le sentinelle.
«Astianatte ha ordinato che fossi spogliato dell'armatura e condotto qui. Narciso dei Pesci e Siddharta della Vergine si sono assicurati, con la loro sola presenza, che non opponessi resistenza. Solo un aspirante suicida sfiderebbe due Cavalieri d'Oro.»
Demyan sistema la tunica strappata sul suo petto. Cerca di coprire la sporcizia della sua pelle nuda. Da sempre ha avuto una cura maniacale della sua persona, anche quando era solo un bambino.
«Perché i Cavalieri d'Oro dovrebbero credere a Astianatte? È solo uno sconosciuto che non ha mai avuto parte nel Grande Tempio» chiedo, confusa.
«Perché Siddharta e gli altri pensano che Hosoku sia l'assassino di Castore e che stia plagiando la dea Atena.»
«Nessuno può plagiare un dio» affermo, curvando le labbra in un sorriso amaro al ricordo della testardaggine di Ares.
«Anche io la penso così, ma loro no. In questo momento di confusione hanno affidato la loro fiducia a un potere forte solo per credere in qualcosa che c'è sempre stato. Il Grande Tempio è un'istituzione sacra e loro non ammettono che possa essere governato dalle forze oscure.»
Si interrompe dopo un colpo di tosse.
«Stai bene?» cambio discorso.
«Ho visto giorni migliori» risponde. «Sono qui da una settimana e l'aria malsana inizia a darmi fastidio.»
Con un cenno del capo indica la cella che si trova dalla parte opposta del corridoio.
«Il giovane chiuso laggiù è malato. È probabile che il morbo che lo affligge possa condannare anche noi.»
Guardo le catene chiuse sui miei polsi. Il metallo arrugginito ha lasciato un segno sulla mia pelle.
«Tu puoi congelare ogni cosa, no?» chiedo, distratta.
«In condizioni normali potrei liberarmi di questa ferraglia congelandola e spezzandola, ma queste stanze sono protette da una barriera che impedisce al nostro Cosmo di espandersi. Non posso fare nulla.»
Faccio schioccare la lingua sul palato.
«Devo trovare un modo per farti uscire da qui» dico a denti stretti, mentre cerco di liberare i polsi dando rapidi strattoni alle catene.
«Il mio codice di Cavaliere mi proibisce di accettare aiuto da una donna, anche se si tratta di una sorella maggiore. A meno che...»
 Il rumore dei passi di un gruppo di persone che attraversano il corridoio ci interrompe. Quattro uomini, guardie comuni del Grande Tempio, si fermano di fronte alle sbarre della nostra prigione. Gli elmi calcati sul capo mi impediscono di vedere i loro visi. Dietro di loro fa capolino la figura di Polluce, che indossa la scintillante armatura del Centauro. La sua somiglianza a Castore mi prende a pugni lo stomaco.
«Ecate di Tracia, il Grande Sacerdote vuole vederti» afferma solenne.
«Non mi muoverò da qui» replico, atona.
«Invece lo farai.»
  Con un cenno del capo, Polluce ordina alle guardie di aprire le sbarre. Quando irrompono all'interno della cella io rimango immobile a fissarli.
«Ho detto: no» affermo, come se ciò che voglio o non voglio contasse qualcosa. Uno di loro si abbassa sul ceppo delle catene e le sgancia con l'ausilio di una chiave. I muscoli del mio corpo si tendono. Sono pronta a scattare e farmi strada verso l'esterno. Il tocco di Demyan sul braccio mi placa, però.
«Vai con loro» mormora, per poi annuire. Forse ha in mente qualcosa. La sua mente è più brillante della mia. Sento che devo dargli ascolto, perciò mi lascio trascinare via. Do uno sguardo truce a Polluce, alleato e confidente per mesi. Perché mai si mostra così asservito alla nuova figura che ha usurpato ciò che avremmo dovuto difendere?
È ora di trovare un modo per uscire da questa profonda confusione e rendere chiare le cose. Do un ultimo sguardo a Demyan, che rimane in silenzio quando le sbarre si richiudono davanti a lui. Non oso immaginare cosa mi attenda, ma non riesco ad oppormi alla forza dei miei carcerieri. Mi lascio trascinare, ma non mi arrendo. Astianatte, l’uomo che si nasconde dietro la maschera e che ha usurpato il potere al Grande Tempio, non mi spaventa. Non permetterò mai che mi calpesti.

 

RADAMANTE

 
Il mare è odioso anche di notte. La luna piena si riflette argentea sulla superficie calma dell'acqua e illumina le bianche pietre del tempio che gli abitanti dell’isola di Kanon hanno eretto in onore di Poseidone.  Lo sciabordio delle onde che si abbattono sulla spiaggia mi tormenta l'udito. Sono anni che siamo alla ricerca di una dannata entrata al palazzo del Re dei Mari, ma egli ci irride, dandoci vuoti abbagli attraverso i flutti e le false dicerie di uomini mendaci.
Non stringiamo null'altro che un pugno di mosche tra le dita. Inizio a pensare che la ricerca del Re dei Mari sia soltanto una perdita di tempo, un modo per occupare inutilmente le nostre forze. Dubito della lucidità del Sommo Ade, dopo due anni di gestione dissennata degli inferi. Per quanto io rimanga comunque fedele e riconoscente nei suoi confronti, ho notato quanto egli sia divenuto capriccioso, vanitoso e poco accorto alle manipolazioni della giovane donna che ha al suo fianco. Durante i vari rientri che hanno intervallato le nostre inutili ricerche, abbiamo trovato la corte sempre più sfarzosa, arricchita da inutili orpelli come musici e poeti rapiti con l'inganno tra gli esseri umani: tutto secondo le preferenze insulse di Persefone.
A ripensarci bene, il rumore del mare non è poi tanto pessimo a confronto dello stridio delle corde pizzicate e del soffio nei flauti.
«Ha detto che si sarebbe presentato qui, ma dubito che lo farà davvero» sento dire la voce di Minosse, verso cui mi volto. Sta parlando con Eaco, ma ignoro chi sia il soggetto della loro conversazione.
«Chi stiamo aspettando?» mi intrometto, innervosito.
«Un emissario di Poseidone. Un messaggero ci ha detto che si sarebbe presentato qui, ai piedi del tempio quando le tenebre sarebbero state più fitte»  risponde mio fratello maggiore.
«Immagino che sia il solito tentativo di raggiro. Molti pavidi esseri umani rispondono alla chiamata del Dio dei Morti che loro propone la vita eterna in cambio di informazioni e fedeltà. Spargere questa notizia è stato un errore» commento, senza far caso all'angolo delle labbra che si solleva in un sorrisetto beffardo.
«Eppure questa volta ho buone sensazioni, fratello» replica Minosse, infastidito dal mio tono.
«Esattamente come quando chiamasti Dedalo a corte. Le tue buone sensazioni non comprendevano il fatto che lui aiutasse la tua sposa ad accoppiarsi con Poseidone.»
 La mia frecciata lo fa infuriare, sebbene la sua reazione si limiti a un pacato silenzio. Eaco sposta velocemente li sguardo da me a lui. Sono mesi che tra noi c'è una tensione pesantissima. Mio fratello maggiore mi attacca a causa della particolare devozione verso Pandora, cosa che solo lui vede, e io faccio leva sull'infedeltà della sua sposa. Non è un comportamento molto maturo, lo riconosco, ma in qualche modo devo sfogare tutta la rabbia che accumulo a causa del suo comportamento.
«Non mi sembra il caso di rivangare ricordi simili, Radamante!» mi rimprovera Eaco.
«Tu non dovresti nemmeno parlare, Eaco. Non presto fede alle tue parole» lo attacco io.
«Ma..»
«Basta, Eaco. Non ho bisogno di essere protetto da nessuno. E poi, non sprecare fiato con lui. Lascia che quello stolto si diverta rimembrando le altrui disgrazie. Parla di infedeltà quando la sua sposa lo rifiutò per anni e la sua nuova passione lo tratta come un cagnolino» spiega con quella calma assoluta che mi fa saltare i nervi e mi costringe a raggiungerlo, con un braccio piegato e pronto a scagliargli un pugno sul viso.
Non riesco a portare a termine il mio intento, però, poiché un Cosmo estraneo si avvicina lentamente alla nostra posizione. È di forte intensità, non c'è che dire. Forse Minosse questa volta ha ragione, non si tratta del povero miserabile che ha giusto paura di morire: il potere che avverto appartiene a un guerriero di elevata potenza, decisamente superiore a me e ai miei fratelli.
La luce azzurra e accecante che lo avvolge lentamente si dirada, lasciandoci vedere i contorni della figura che la emana. È un uomo alto che indossa una pesante armatura di metallo prezioso, forse oro, oro rosso. I capelli azzurro chiaro scendono ricci fino alle scapole e gli occhi guardano fieri verso di noi. Il capo è chiuso da una voluminosa corona che non lascia dubbi se considerata assieme al tridente chiuso nella mano sinistra. Non voglio crederci, non può sul serio essere lui.
Lo sguardo di mio fratello maggiore è pesante su di me e mi costringe a voltarmi verso di lui. Mi mostra l'espressione soddisfatta che sta a dirmi: "Avevo ragione io."
«Inchinatevi di fronte a me» afferma lo sconosciuto mentre avanza verso di noi sulla spiaggia bianca.
«Noi ci inchiniamo soltanto di fronte al Sommo Ade» rispondo io. La spavalderia mi costa un peso assurdo sulle membra che mi paralizza, lasciandomi a malapena respirare. Le gambe soffrono ma non cedono, anche se sento il rumore dell'armatura che compressa stride come se stesse per spezzarsi.
«Siete al cospetto di suo fratello maggiore, Poseidone, re dei Mari, persino più potente del vostro signore. Esigo rispetto» tuona pacato il dio, mentre le iridi degli occhi si accendono di un'intensa luce azzurra.
«È che...» inizia a provocarlo Minosse, con un sorriso beffardo sulle labbra. «Non è molto agevole inginocchiarsi con la pesante armatura che indossiamo e poi la salsedine intacca le ossa, esattamente come l'umidità. Sapete, il ginocchio destro mi fa particolarmente male. Non sono più molto giovane, perciò...»
Li vedo. Le frasi ironiche e irrisorie di Minosse sono atte a distrarre Poseidone dal movimento delle sue mani. I sottili fili d'energia che usa per combattere si fanno strada fino al corpo del Re dei Mari. Insidiosi come serpenti stringono le spire attorno alle gambe e le braccia della divinità superiore.
«Sei solo un inutile cadavere rianimato da mio fratello minore» risponde Poseidone, alzando il braccio destro con un movimento brusco. In questo modo svincola dal Dominio Cosmico di mio fratello e, dopo avergli rivolto la punta del tridente, rilascia un potente fascio di Cosmo che investe Minosse in pieno.
Quando la luce accecante del colpo si dirada, mio fratello è ancora in piedi, anche se la sua armatura è lesionata in più punti: le ali del Grifone sono spezzate, i coprispalle polverizzati come parte dei bracciali. Solo i gambali e il pettorale hanno resistito. Non ha quasi più difese. Il potere di questa creatura è di una superiorità che mi atterrisce, ancor più di quello di Ade.
«Nessuno può prendersi gioco di me, Poseidone, specialmente tu, Minosse di Creta. Sei un infimo umano che ha avuto la fortuna di regnare su una ricca isola. Inginocchiati adesso.»
Minosse scuote il capo e piuttosto che inginocchiarsi si impettisce, fiero. Anche a costo di farsi ridurre in briciole continua a sfidarlo; tanto smisurato è il suo orgoglio.
«Non ho niente per cui riverirti, Poseidone. L'unica cosa che posso offrirti è la mia vendetta!» continua a tenergli testa, nonostante le ferite.
«Vendetta, dici? Per che cosa, dunque?»
«Quello che hai fatto al mio onore è imperdonabile, Dio dei Mari.»
«Ti riferisci a ciò che accadde con la tua sposa? Bizzarro e divertente, lo sottolineerei. Ricorda che voi umani siete nati appositamente per far divertire gli dei e credimi: questo divertimento va inteso in senso lato.»
Dopo un grido disperato, Minosse tenta di catturare di nuovo le membra di Poseidone, che a essi si oppone con la sola forza del Cosmo.
«Vuoi che ti schiacci come un verme? Anche se rinato a nuova vita con poteri superiori, non sei che un misero essere umano.»
Il dio torna a sollevare il tridente, ma la voce di Eaco blocca i suoi gesti e quelli di Minosse.
«Sommo Poseidone, Dio delle acque, perdonate l'irriverenza dei miei fratelli. Non volevamo offendere, poiché il nostro scopo è quello di portarvi un importante messaggio.»
A passo lento, il re dei Mari arriva a poco più di un metro da noi. Ci guarda dall'alto al basso come se stesse osservando degli scarafaggi.
«È proprio per questo che ho deciso di salire in superficie. Sono curioso di ascoltare i vostri deliri.»
«Deliri, dite?» fa eco Eaco, con le labbra leggermente curve in un sorriso, accennando un breve inchino, dannatamente grottesco. Lo sta elegantemente prendendo in giro.
«Accettare la nostra offerta è determinante per il vostro regno sottomarino, Poseidone» continua.
Le dita del dio dei mari si stringono con più forza sull'asta del tridente. È pronto a colpirci di nuovo.
«Né voi né mio fratello potrete mai essere determinanti al mio regno. Io comando i mari e le acque rifiutano voi spergiuri.»
Gli occhi di Poseidone si spalancano, mentre Eaco distende un braccio verso il male calmo.
«Eppure la morte raggiunge ogni lido, anche il più paradisiaco.»
Anche io mi volto verso l'acqua che, sotto la luce argentea della luna, perde della sua cristallina trasparenza e si tramuta in gorgogliante liquido nero. Pesci e altri animali marini risalgono fino in superficie e rimangono a galla esanimi, trasportati dall'acqua sporca fino a riva, a pochi passi dai nostri piedi. Tanto io che Minosse osserviamo stupiti ciò che avviene sotto preciso ordine di Eaco e non so chi altro.
«Ferma subito questo scempio, Spectre!» intima Poseidone a Eaco, rivolgendogli contro il tridente che si carica di splendente energia cosmica. Il Re dei Mari prova a compiere lo stesso attacco che ha rivolto a Minosse, ma stavolta esso si infrange contro uno scudo invisibile agli occhi
 Eaco tira un profondo sospiro di sollievo che contrasta contro la sicurezza che avrebbe dovuto trasmettere il tenue sorriso. Probabilmente non era sicuro di ciò che stava facendo.
«Pensavo che vi foste dimenticati di noi» afferma ironico.
Il cielo notturno divora velocemente le stelle, quasi oscura anche la luna. La tenebra si fa liquida e si fonde con la stessa oscurità che ha avvelenato l'acqua in un mesto incantesimo che dà origine a due altissime creature antropomorfe. Camminano sulle acque come se esse fossero di robusta pietra, mentre i raggi della luna fendono il velo oscuro. La luce argentea illumina la superficie delle arzigogolate corazze che coprono i colpi longilinei di due uomini altissimi dai lunghi capelli color dell'oro e dell'argento. I loro visi sono tranquilli e le labbra curve in un tenue sorriso.
«Hypnos e Thanatos? Siete voi i veri responsabili di questo gesto abietto, non è così?» grida Poseidone, indignato.
Hypnos e Thanatos: Pandora mi ha parlato di loro come ottimi alleati, dei sostenitori del Sommo Ade, figli della notte, parti di essa. Mi ha detto che il loro volere è strettamente collegato a lei. Mi chiedo se davvero Pandora domini su due creature di quel tipo.
«Ti vedo piuttosto spaventato, Poseidone. Ci aspettavamo che non fossi molto felice di vederci, per questo ti abbiamo portato un regalo» ridacchia il dio dai capelli d'argento. «Ma a giudicare dalla tua faccia, non hai apprezzato granché. Pensa che invece a me non dispiace per niente. La morte e la decomposizione sono uno spettacolo crudo ma così reale.»
Senza rispondere a voce, il Re dei Mari scaglia il suo tridente verso il suo ironico interlocutore, il quale con un gesto veloce schiva l'arma che finisce per conficcarsi a terra. L'impatto crea un fondo crepaccio che subito si riempie di acqua sporca di tenebra e morte.
«Siete dèi minori e non mi preoccupa la vostra misera potenza. Potrete anche aver evitato un colpo, ma il prossimo...»
Le labbra del dio rimangono schiuse su una parola che non riesce a fuoriuscire dalla gola.
Avverto la presenza familiare di Pandora alle mie spalle e di colpo mi volto. La vedo avvicinarsi con passo solenne, affiancata da una donna vestita da un'armatura verde come le acque del mare accarezzate dal sole. I lunghi capelli neri scendono mossi fino alla vita. Le labbra carnose sono schiuse e gli occhi verdi persi verso chissà quale direzione. Cosa stanno guardando?
«Anfitrite! Che cosa le avete fatto?» chiede Poseidone. Non conosco questa donna, il suo nome non mi dice nulla.
«Ancora niente. Per il momento è soltanto preda del un sonno della coscienza. Un mio incantesimo indebolito» risponde il dio dai capelli dorati.
«Ma dalla morte al sonno è un piccolo passo. La regina dei Sette Mari sottostà a questa norma, esattamente come qualsiasi altro Dio minore. Solo gli olimpici non possono essere colpiti  dal mio potere.»
«Per questo motivo» prende parola Pandora, accarezzando delicatamente una mano di Anfitrite. «La sua vita è nelle vostre mani, Sommo Poseidone. Avete due scelte. Potreste provare a ucciderci e scommetto che è quello che preferite, visto che ne siete in grado. In questo caso non dovreste firmare alcun patto con Ade, sarete libero di regnare sul vostro impero marino in decomposizione, ma privo della vostra preziosa sposa. Con Hypnos morto nessuno potrebbe risvegliarla; inizierebbe a deperire e morirebbe di stenti di fronte ai vostri occhi. In alternativa, potreste scegliere di aiutare il vostro nobile e magnanimo fratello e la morte risparmierà i mari, assieme alla vita di Anfitrite.»
«Nessun essere inferiore minaccia un dio e sopravvive abbastanza da poterlo raccontare. Lasciate andare Anfitrite! Ve lo impongo!» tuona Poseidone, allungando un braccio verso il tridente che dalla terra si distanzia e raggiunge la sua mano. La terra trema sotto i nostri piedi con una ferocia che non dà scampo a niente. Le costruzioni in lontananza crollano come castelli di sabbia. Le grida degli uomini spaventati si innalzano nel vento. Thanatos scoppia a ridere fragorosamente, mentre il fratello alza gli occhi al cielo, per nulla impressionato dall'ira del Dio dei Mari e dei Terremoti.
«Non è così che si negozia con noi» ghigna Pandora, mentre sposta tutte e due le mani sul collo di Anfitrite che non si oppone. Poseidone non aggiunge altro e senza esitare cerca di raggiungerla. Fa il mero errore di lasciarsi alle spalle tanto Hypnos quanto Thanatos, il quale approfitta della sua distrazione per colpirlo. Infausta Provvidenza si chiama il suo attacco che uccide i mortali e ferisce gli dei. Una fama in parte immeritata, poiché non scalfisce nemmeno l'armatura del dio dei Mari che si volta e, soltanto allungando un'ampia mano verso di lui, lo respinge con un imponente potere telecinetico. Hypnos invece non muove un dito. Osserva stoico la lotta, come se a lui non appartenesse. Si limita a osservare dall'alto verso il basso la sfrontatezza dei suoi simili.
«Fermati!» grido io, quando vedo Poseidone troppo vicino a Pandora. Sono uno sciocco, poiché è normale che non mi ascolti. L'unica cosa che posso fare è fermarlo di persona, contando solo sulle mie forze. Probabilmente è un tentativo vano, ma devo farlo. Devo? Perché? Non ho tempo di trovare una risposta poiché il metallo prezioso del tridente è difficile da trattenere nella presa delle mani. La mia armatura produce un rumore stridulo, fastidioso a contatto con la forza e la velocità dell'affondo che riesco a trattenere per miracolo. I miei occhi sono a pochi centimetri da quelli del dio maggiore. Ora posso vedere la sua disperazione, la paura. Un dio teme esattamente come un essere umano di perdere ciò che conta. Solo in quel momento capisco che io e lui siamo molto più simili di quanto abbia mai pensato.
«Lasciami andare, nipote!» sibila a denti stretti, mentre cerca di liberare l'arma dalla mia presa. Nonostante la sua forza metta a dura prova le mie braccia, non cedo e lo affronto, affermando un sofferto «mai.»
«Bravo, Radamante» mi gratifica Pandora con tono sprezzante. Volgo appena il capo verso di lei e la osservo con la coda dell'occhio. È intenta a strangolare la regina dei Sette Mari, resa fragile dal potere degli dei gemelli della morte e del sonno.
«Sbrigatevi, nobile Pandora... Non riuscirò a trattenerlo in eterno...» ammetto, mentre le lame del tridente si avvicinano al pettorale dell'armatura che indosso. Il tremore della terra concorre a minare la mia stabilità. Se dovessi cedere, morirei col cuore trafitto. La forza di Poseidone inavvertitamente si smorza. Lo sento gridare il nome della sua sposa, prima che il potente fascio d'energia prodotto da una nuova Infausta Provvidenza di Thanatos ci investa in pieno.
Questa volta veniamo entrambi spazzati via. Io accuso il colpo maggior mente e vengo sbalzato fino alle acque putride del mare. Lo scroscio dell'acqua contro la mia Surplice mi assorda per qualche istante. Tutto è confuso mentre sprofondo di metri e metri. Quaggiù l'acqua è ancora pulita e illuminata da una poderosa luce simile a quella del sole. È il Cosmo di Poseidone ad avvolgere ciò che si trova a queste immense profondità. Che sia questa la capitale del suo regno?
 Le mie labbra si schiudono, liberando l'aria consumata che tenevo stretta. Non ho forze per nuotare in superficie, poiché l'acqua purificatrice e fonte di vita abbatte il potere degli Spectre. I sensi lentamente mi abbandonano, assieme agli ultimi pensieri. Affondo in un mare di silenzio. Il boato del terremoto fa da eco alla battaglia. La mia memoria giunge a lei che mi ha portato via dalla distesa di cadaveri tra cui mi stavo spegnendo, mi ha fatto rinascere dalla morte e ha giudato i miei passi.
Pandora, forse la mia è solo riconoscenza? Che sia senso del dovere? Se così fosse non posso arrendermi. Voi siete in pericolo e io ho giurato di proteggervi in quanto sorella del Sommo Ade. Il Cosmo freddo e violaceo che mi caratterizza fa risplendere la Viverna di una luce rinnovata, combatte contro l'abbraccio dell'acqua, si espande e mi aiuta a risalire con una velocità pari a quella di una stella cadente. Riesco a ottenere l'accelerazione giusta per emergere e balzare fuori dall'acqua. Le mani di Pandora si sono allontanate da Anfitrite che adesso giace distesa tra le braccia del potente Dio del Mare. Eaco e Minosse fanno fronte compatto al fianco di Pandora, mentre gli dei osservano distanti lo spettacolo di disperazione e tristezza che ha Poseidone e come attore protagonista.
Un dio in ginocchio, che piange e recita parole d'amore alla sposa perduta. Ella è morta, è lui ad ammetterlo, eppure la stringe e la bacia come se potesse sentirlo. Arriccio il naso e contorco le labbra, mentre senza pensarci, allungo un braccio verso i decaduti signori dei mari.
«Patetico e vergognoso che nel mio cuore scorra sangue simile al tuo» lo schernisco, schifato dalla sua debolezza.
«Castigo Inferna...» non riesco a scagliare il colpo poiché la terra trema e si sgretola sotto i nostri piedi in seguito a un prolungato grido del dio dei Mari. Siamo costretti a arretrare di diversi metri, perciò stringo la vita di Pandora e la traggo in salvo, per quanto possibile. I flutti del mare si sollevano in titaniche onde che presto si abbatteranno sulla terraferma. La terra intera sembra volersi chiudere su di noi. Gli dei gemelli sono scomparsi, tornati a far parte della loro madre, la notte.
«Arretriamo fino al passaggio, Radamante!» grida Minosse. «Seguimi!»
 Ricordo perfettamente dove si trova il punto di accesso agli inferi, per questo vorrei rispondergli, ma non lo faccio. Il terremoto ha completamente cancellato il villaggio a ridosso della costa. Sarebbe un problema trovare il tempio che celava il passaggio tra inferi e mondo dei vivi senza l'aiuto di mio fratello. La sua memoria fa parte delle sue caratteristiche leggendarie.
«Io vi maledico» tuona la voce do Poseidone da ogni angolo dell'isola. «Al vostro passaggio il cielo collasserà sulla terra e vi schiaccerà. Tutti e tre nascerete e morirete assieme alle putride ambizioni di mio fratello. Che siate maledetti, tutti!»
 La sua voce si spegne nei tuoni sempre più insistenti e frequenti, mentre percorriamo le strade dissestate del villaggio completamente raso al suolo. Il lastricato, ormai distrutto, è tappezzato di cadaveri compressi dalle pietre e dalla paura.
«Come voleva lui...» afferma Pandora sognante, stringendo più forte la presa sul mio busto.
«Legherò un nastro su questo mondo e glielo regalerò» mormora, prima di chiudere gli occhi. Non dice più altro, nemmeno quando la trascino con me attraverso il passaggio che ci riporta negli inferi.
 Mai siamo usciti più martoriati da una missione da quando combattiamo per Ade. Dire che il nostro piano è andato in fumo è parlare per eufemismi. È questo che ci spiega il nostro Signore senza mezzi termini. La responsabilità del fallimento non è da imputare a nessun altro che a Minosse. Il suo rancore personale ha prevalso sullo spirito della missione. Mentre Pandora voleva solo mettere alle strette Poseidone, minacciandolo, Minosse non ha esitato a spezzare la vita di Anfitrite, rompendole l'osso del collo davanti agli occhi del marito. Se non fosse stato per l'intervento di Persefone, mio fratello sarebbe stato privato del suo ruolo e scagliato nell'oltretomba come un’anima corrotta qualsiasi.
Continuo a non credere alla pietà di Persefone, e più il tempo passa, più mi sento parte di un gioco, un disegno perverso, tracciato dalla regina degli inferi e da Pandora in persona. Il Sommo Ade è conteso tra entrambe.  Cercano in tutti i modi di accattivarsi i suoi pensieri, giocando con la nostra esistenza che, a quanto ho capito, non vale nulla. Non siamo che cadaveri rianimati, pupazzi dati in mano a marionettisti crudeli. Il mondo è sempre stato così. Gli dei combattono per noia, si cercano per ossessione e distruggono per divertimento. Avrei dovuto tenere in conto questa considerazione prima di dover sopportare il veleno che mi scava dentro, che porta con sé il colore dei suoi occhi e il profumo della sua pelle. Lei che ha diffuso i mali nel mondo, lei con l'anima nera come la pece mi ha rubato il cuore.
Per quanto provi a scacciarla dai pensieri, rimane sempre lì, come spina nel cuore.
So che questo gioco folle finirà per uccidermi o per rendermi patetico come Poseidone, ma non posso fare a meno di desiderarlo, almeno un decimo di quanto voglio lei.
   
 
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