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Autore: stormy    17/04/2005    7 recensioni
How do you pick up the threads of an old life? How do you go on, when in your heart you begin to understand there is no going back? There are some things that time cannot mend. Some hurts that go too deep, that have taken hold…
Genere: Malinconico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frodo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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AINADAMAR

Capitolo due

Porcellana

 

Frodo aveva incrociato delle quasi invisibili quanto attente Guardie Elfo notturne che, riconoscendolo, avevano chinato la testa biondo oro, in maniera elegante e quasi impercettibile, volendolo così salutare e riprendere poi a mimetizzarsi con la quiete notturna. Si era fermato, poco sorpreso dalla loro mansione, sebbene lì a Valinor fosse forse superfluo quel tipo di accorgimento difensivo, dalla loro presenza e dal fatto che l’avessero palesata in quel modo così tipicamente cortese. 

Aveva ricambiato il gesto, accennando un sorriso, per poi proseguire indisturbato. Nessuno gli avrebbe mai chiesto il perché di quella visita notturna non ufficiale, a distanza di una immediatamente precedente e sì regolata dai crismi del cerimoniale. 

Le gambe lo avevano condotto presso i piani inferiori, rallentando di fronte quella che sapeva essere la stanza che ospitava Gandalf.

Lo aveva immaginato sveglio, seduto sull’ampio davanzale di una delle enormi finestre che davano sui numerosi giardini della dimora, immerso nella contemplazione della notte, assorto nelle sue riflessioni, le folte sopracciglia corrugate dal cruccio, la pipa tra le mani, intento ad assaporare con voluttà il tabacco che bruciava lentamente e sperimentando nuove forme nelle quali far confluire lo sbuffo di fumo azzurrino. 

Durante la cena lo aveva ringraziato dell’attenzione nei suoi confronti, affidandosi ad uno sguardo di gratitudine, piuttosto che a gesti o parole. Forse per non guastare quello che era il protocollo elfico, forse perché a parole non sarebbe riuscito ad esprimere nemmeno un terzo di quanto i suoi occhi affranti, ma incredibilmente belli e sinceri in quel frangente, avevano lasciato trasparire, simili a due gemme dall’indubbia purezza. 

Aveva lasciato vagare lo sguardo sul legno immacolato della porta che separava la stanza di Mithrandir dal resto del Castello, accarezzandola virtualmente e mandandogli un messaggio in codice, un ulteriore segno di riconoscenza che sapeva sarebbe stato colto, senza indugio, da quella creatura incredibilmente solidale ed accorta nei suoi confronti. 

“Frodo…”. 

Lo guardo profondo del Maiar, infatti, aveva captato in contemporanea l’avvicinarsi e la sosta brevissima del piccolo Hobbit di fronte la parete lignea che li divideva. Aveva concentrato il suo udito finissimo sui passi felpati all’esterno della propria stanza. Da una sfumatura appena accennata aveva compreso che, nonostante la leggerezza, non era un Elfo a percorrere solitario i corridoi, ma uno Hobbit. 

Chi altri se non Frodo? 

Aveva avvertito la sua presenza, sorpreso per quel tornare sui propri passi. Era un dettaglio che lo aveva portato ad intuirne, ancora di più, se possibile, i pensieri amareggiati e recidivi, difficili da ordinare coerentemente, ma non si era mosso dalla finestra presso la quale aveva passato buona parte della nottata a fumare ed osservare il bosco rigoglioso che cingeva il lato Ovest della nuova dimora di Galadriel, andando a terminare in un declivio sabbioso che si gettava quasi direttamente nel Mare cristallino di Valinor. 

Si era reso conto del fatto che non poteva fare nulla di più per Frodo, se non fargli intendere, di nuovo, che ricambiava pienamente il suo affetto. 

“Non è abbastanza…”, aveva mormorato tra sé e sé, mentre una ruga più decisa delle altre aveva deturpato la superficie dell’alta fronte. Lo sguardo si era incupito dalla preoccupazione e la sofferenza, per quell’impossibilità di agire - i suoi poteri non avrebbero risolto nulla in quel caso, infatti - al punto da rendere impossibile distinguere il nero della pupilla dal blu notte dell’iride solitamente luminosa. 

Non è abbastanza… 

Tutti coloro che avevano partecipato all’Avventura dell’Anello e che adesso dimoravano al di là dei Porti Grigi, avevano espresso così la loro frustrazione nei confronti della situazione di Frodo ed egli stesso non poteva fare altro che annuire in quel senso. Elrond lo aveva ribadito ulteriormente, mentre si congedava dai suoi ospiti, una mezz’ora dopo l’uscita di scena di Frodo e Bilbo. Il vederlo cantare serenamente per alcuni istanti, non li aveva ingannati e solo parzialmente rincuorati. 

Il Signore di Gran Burrone si era così guadagnato un’occhiata grave, ma colma di assenso da parte di Galadriel, cosa che lo aveva rammaricato. L’ammirazione profonda che aveva sempre nutrito nei confronti della Signora dei Galadhrim, madre di Celebrían, sua sposa ritrovata, lo aveva fatto dispiacere. Il momento di impasse era stato superato grazie ai cenni di assenso da parte dei convitati che si erano trattenuti più a lungo e, confortato della stretta di mano di Celebrían, si era con lei eclissato nella quiete della notte, per raggiungere la propria dimora imperitura. 

Vedendo le due figure regali e luminose allontanarsi dal Castello, Gandalf aveva riflettuto sul fatto che quella comunanza di idee non lo faceva sentire meglio. Era ingiusto che il piccolo Hobbit avesse dovuto sopportare da solo, dapprima il fardello dell’Anello e adesso, le conseguenze di quell’insieme di circostanze che si erano intrecciate in maniera così inestricabile con la sua vita, al punto da continuare a segnarla. 

That wound will never fully heal. He will carry it for the rest of his life… 

Lo aveva predetto moltissimo tempo prima con il Signore di Rivendell, ma ora comprendeva appieno il significato di quella frase e desiderava fortemente di aver avuto torto.

Si chiese allora fino a che punto fosse stato positivo l’aver condotto Frodo al di là dei Porti Grigi. L’averlo condannato all’infelicità eterna lo faceva sentire enormemente colpevole. Non era questo che si era augurato per quello Hobbit che tanto amava. 

Queste erano state le riflessioni di Gandalf, mentre Frodo aveva proseguito il suo cammino notturno, fino a raggiungere il patio marmoreo e deviare poi in direzione della fontana dalle acque zampillanti. 

Ora avvertiva scemare poco alla volta il dolore alla spalla che era tornato a tormentarlo anche lì fuori, e se prima, nella sua stanza, aveva avuto forse senso uscire per cercare un qualche conforto nella vastità dello spazio aperto, adesso sarebbe risultato assolutamente incongruo allontanarsi ulteriormente o, peggio, tornare indietro, accalappiato e pressato da mura opprimenti. 

Rimase dunque lì.

Solo dopo aver preso quella decisione inconscia, ma determinata, sembrò rendersi conto della meta finale del suo vagabondaggio notturno.

Era tornato di nuovo nel Castello della Dama di Lothlórien. 

La gola gli parve incredibilmente riarsa ed una sete improvvisa prese a torturargli il palato, dal quale, da qualche minuto, il retrogusto, tanto familiare quanto detestato, del metallo della paura era scomparso. Facendo leva sulle braccia e sollevandosi così un po’ dal terreno, immerse la testa quasi completamente nell’acqua deliziosamente fresca e bevve sorsate lunghe e ravvicinate. Quando riemerse, una sequela di gocce simultanee gli cadeva sul volto, scendendo dai capelli grondanti come tante lacrime copiose. Vi passò allora le mani strizzandoli grosso modo, per poi chiudere per un attimo gli occhi, godere di quella sensazione di sazietà e pulito, come se l’acqua avesse mondato parte dell’umore melanconico che avvertiva costantemente, ed infine riaprirli, le ciglia brune imperlate da piccole gemme trasparenti, fissandoli sulle proprie mani adesso immerse a loro volta nell’acqua. 

Illuminate da quella luce notturna e complice la trasparenza del liquido vitale, apparivano quasi opalescenti, di un bianco-rosato difficilmente riscontrabile in natura. Forse solo alcuni marmi riuscivano a rendere l’idea oppure la carnagione sana sapientemente tinteggiata dai Valar, sul volto di qualche creatura particolarmente fortunata da questo punto di vista. 

Ormai avrebbe dovuto esservi abituato, ma non era ancora così. Non totalmente almeno. Ritrovarsi di fronte agli occhi nove dita anziché dieci, non poteva essere considerato normale. Non era una caratteristica degli Hobbit quella. Pippin, Merry, Sam, Bilbo e perfino quell’antipatica di Lobelia avevano dieci dita. A lui ne rimanevano invece nove, e a causa dello scontro più brutale e dell’attacco più selvaggio che avesse mai subito da Gollum.

Gli si erano stampati a fuoco nella memoria gli attimi di quel delirio finale, la bramosia dello Hobbit mutato in mostro senza razionalità, che era andato ben oltre la semplice volontà di strozzarlo, come era accaduto prima dell’attacco decisivo di Shelob oppure successivamente, quando era con Sam sul sentiero che avrebbe loro permesso l’accesso presso Mount Doom. 

L’attimo di incertezza che lo aveva colto, quando avrebbe dovuto invece gettare senza ripensamenti l’Anello, era stato fatale perché aveva permesso il ritorno di un Gollum inferocito, che gli si era aggrappato addosso nonostante il suo essere invisibile e gli aveva così strappato l’Anello dal dito, mordendoglielo con un odio spropositato e finendo con il recidergli nettamente una buona parte del medio. 

Il mio tesoro!

Il dolore era stato insopportabile. Sul momento però, aveva percepito solo il fluire del sangue dall’odore dolciastro e ferroso e reagito istintivamente, scagliandosi contro Gollum, facendolo finire nella lava. 

Deglutendo malamente al ricordo di quell’attacco cattivo e onestamente feroce contro la sua persona, sentì  tutta l’angoscia investirlo di nuovo, come se si fosse trovato in balia di un fiume in piena, ingrossato da piogge torrenziali. 

Sebbene il dolore fisico fosse adesso un ricordo e la ferita rimarginata, quel moncherino gli sbatteva continuamente sotto gli occhi che lui non era più quel Frodo Baggins. 

Ecco dunque a risposta alla domanda: 

Sono ancora io? 

No. 

Se lo era a questo punto solo formalmente di nome*, non poetava più esserlo di fatto. 

Frodo Baggins della Contea avrebbe abbracciato spontaneamente Gandalf o chiunque altro esprimendo gratitudine.

Frodo Baggins esiliato dalla Contea no. 

Si rivide solo, una volta fatto ritorno nel verde lussureggiante di Hobbiton, a Casa Baggins, i giorni che passavano, il tentativo di rimettere ordine nella sua vita normale, le ore trascorse a scrivere il suo manoscritto da aggiungere a quello dello stesso Bilbo, le stanze forse troppo silenziose nonostante la presenza di Sam, Rosie e della piccola Elanor, la casa all’improvviso troppo grande ed estranea, il malessere latente che diveniva sempre più palese, la decisione di abbandonare la Contea e usufruire così del posto vacante, sulla nave diretta a Valinor, che un tempo era stato assegnato ad Arwen Undómiel. 

I suoi ricordi vennero interrotti bruscamente da un rumore di sottofondo. L’eco intrecciata di centinaia di voci lamentose e piangenti. Sforzandosi di capire da dove venissero, ebbe come l’impressione che fossero le acque della fontana a produrle. Gli parve di riconoscervi anche dei singhiozzi a lui noti, sebbene non poté dare loro un nome concreto. 

Un po’ spaesato da quelle grida silenziose e forse frutto della sua mente non del tutto serena, percepì il frusciare appena percettibile, eppure inconfondibile, di lunghe gonne femminili. 

Prima di averla accanto, la riconobbe per via del profumo delicato di essenze di fiori di niphredil e miele che ne avvolgeva costantemente la persona regale. Voltandosi allora lentamente, ne scorse l’immagine per intero. 

Galadriel, Signora della Luce Sempiterna, sostava a meno di tre metri dal piccolo Hobbit. Magnificamente vestita con un lungo abito bianco di tessuto impalpabile e iridescente, stretto appena intorno alla vita sottile da una morbida fascia, con scollo quadrato e ampie maniche a sbuffo, ricamate con lo stesso tulle prezioso che adornava anche l’orlo della gonna e della sottogonna, si stagliava, come la creatura eterea che era, su quello scenario naturale e di innegabile effetto visivo. 

I lunghissimi capelli biondo platino le incorniciavano il volto dalla bellezza non comune e ricercata, seppur niente affatto costruita, scendendo come tante onde appena mosse nei pressi delle punte, perfettamente sfumate in una tonalità di oro purissimo. 

Il capo era privo di coroncine preziose o altri ornamenti e lo stesso manto setoso dei capelli era stato liberato dalle forcine che di giorno ne mettevano invece ordine e con un’arte particolarmente squisita. 

Il volto era esattamente di quell’incarnato che Frodo aveva ricordato qualche attimo prima, le guance lisce e ravvivate da una sfumatura pesca appena percepibile. 

Gli occhi, leggermente allungati nella forma, erano di un cupo blu oltremare, profondi, in grado di comprendere appieno e forse ancora di vaticinare, esattamente come lo specchio omonimo che le apparteneva, e frangiati da ciglia naturalmente lunghe e curve. 

Una silhouette alta, aggraziata e dalle tipiche orecchie a punta, ad indicare la sua natura elfica. 

I suoi lineamenti assunsero un’espressione particolarmente dolce osservando la figuretta tenera ed un po’ smarrita del piccolo Halfling. Sorrise incrociandone lo sguardo serio che aveva in quel momento un misto tra l’innocenza del bambino, la saggezza di un novantenne mortale e paradossalmente la grazia di un Elfo. 

Era una descrizione che corrispondeva perfettamente alla natura sfaccettata di Frodo e aveva avuto modo di pensarlo in più di un’occasione. 

Lo aveva amato da subito, sorprendendosi lei stessa per prima, di un amore puro, fatto di affetto profondo, empatia istintiva e qualcosa di simile alla cura materna o al desiderio di proteggerlo. Un sentimento dunque al quale era difficile dare un nome standardizzato, ma che ben stava sotto la categoria Amore, appunto, nella sua accezione più ampia. E questo di per sé era un fatto eccezionale, essendo lei un Elfo e quindi poco propensa alla manifestazione esplicita dei propri sentimenti, men che meno nei confronti di sconosciuti. 

Dopo aver superato la tentazione dell’Anello, in occasione del loro primo in contro in quel di Lothlórien, aveva deciso di sostenerlo con ogni mezzo possibile, avendo chiaro il quadro delle appena posteriori difficoltà della Compagnia che si sarebbe, infatti, di lì a poco divisa. 

Gli aveva donato la fiala vitrea contenente la stella di Eärendil affinché la utilizzasse nei momenti difficili, ma non lo aveva aiutato solo così. Era entrata nei suoi sogni, cercando di confortarlo con quel legame onirico, dandogli letteralmente la mano in alcune circostanze. Sperava di esservi in parte riuscita ed aveva accolto con gioia la notizia della sua traversata del sulla nave per Valinor. Lo aveva aspettato lì sull’imbarcadero, con Elrond e Gandalf e anche in quell’occasione lo aveva salutato con un sorriso rassicurante e pieno di calore, dispiacendosi di averlo trovato così provato e ancora molto coinvolto dall’eredità di quell’esperienza così deleteria per lui. 

E nessuno meglio di lei poteva capire cosa volesse dire solitudine, per via di una grande responsabilità.

Lei stessa era la Custode di uno dei Tre Anelli Elfici. 

Ne aveva ancora chiara l’immagine sul molo, intento a salutare commosso e diviso in due da più voci prive di comunanza di idee, gli Hobbit suoi amici. Poi c’era stata la voce di Gandalf a richiamarlo e a farlo salire sull’imbarcazione che lentamente aveva preso a solcare le acque limpide e di un verde dalle molteplici sfumature. 

Li ricordava appunto così gli Hobbit. Piccoli nella statura, ma dalla grandezza morale indiscutibile e dotati di una resistenza fisica che avrebbe fatto invidia al più grande degli Uomini. E relativamente a Frodo, lo vedeva ancora così: piccino, vicino la fontana; comprensibilmente sorpreso nel vederla lì, almeno quanto era sorpreso di trovarsi di nuovo nella sua dimora regale; confuso, perché colto nel bel mezzo di riflessioni che lo avevano estraniato dalla realtà circostante. 

Ore prima, dopo aver salutato due silenziosi Elrond e Celebrían, la figlia che aveva infine riabbracciato, e un pensieroso Gandalf, aveva raggiunto i pieni superiori del Castello. Accompagnata da un rassicurante e protettivo Celeborn, si era congedata da quest’ultimo con un’occhiata che aveva parlato per lei.

Voleva stare sola. 

Il Signore dei Galadhrim aveva sostenuto il suo sguardo ceruleo e, chinando appena di lato il bel capo color dell’oro più luminoso, le aveva sorriso comprensivo. Prendendole delicatamente una mano tra le sue, ne aveva baciato poi il palmo, augurandole così la buonanotte, e proseguito verso le sue stanze, situate appena qualche decina di metri più in là. 

Aveva aspettato che la figura reale e armoniosa di Celeborn scomparisse dietro la porta candida dell’appartamento, prima di entrare silenziosamente nei suoi locali. Subito, l’ancella deputata al suo servizio personale, l’aveva accolta andandole incontro con un bel sorriso ad illuminare i lineamenti giovani del viso sbarazzino. Nel giro di pochissimo, un’altra ancella le aveva preparato un bagno caldo. Sulla superficie dell’acqua fumante galleggiavano fiori di niphredil essiccati e dal profumo intenso. 

Improvvisamente più scoraggiata che stanca, aveva lasciato che le due giovani si prendessero cura di lei, godendo anche del massaggio che le dita abili di Miriel, la più anziana, stavano portando avanti, aiutate da un olio essenziale. Dopo aver indossato la sua veste da notte, le aveva congedate, sentendosi augurare la buonanotte e vedendole scomparire silenziose dai locali illuminati dalla luce soffusa di diverse candele aromatiche e dalla forma panciuta. 

Di fronte lo specchio ovale, che faceva bella presenza sulla toilette di legno intarsiato poco lontana da una delle numerose finestre, aveva preso a spazzolarsi i capelli, appena umidi per il vapore del bagno, sciogliendo così abilmente i nodi che si erano formati e rilassandosi con quell’operazione che amava tanto fare. 

Appoggiando la spazzola d’argento sul ripiano di alabastro del mobile-toilette, aveva avvertito la fragranza inequivocabile della vegetazione che nasceva poco lontana dal Mare. Ne aveva dedotto che spirava una brezza appena accennata da Est. Piacevolmente presa da quell’odore così salmastro, ma al tempo stesso attenuato dalla nota più dolciastra delle gardenie che facevano orgogliosamente mostra di sé, sottoforma di cuscino vellutato e bellissimo a vedersi, nel giardino sottostante, avanzò lentamente verso la finestra. 

Uno lembo consistente di spiaggia e Mare erano visibili da quell’angolatura.

Il riflesso argentato di Ithil tracciava una scia luccicante sulle tranquille acque salmastre.

La sabbia invece appariva bianchissima per via del riflesso lunare. 

Bianchissima come le gardenie che stava appunto fissando dall’alto del suo appartamento, orgogliosa di tanta perfezione.

Bianchissima come la stoffa della camicia indossata dalla piccola figurina che sostava nei pressi della fontana. 

“Frodo…”, aveva mormorato a voce bassissima, stupendosi di vederlo di nuovo lì. Sembrava quasi che la sua mente lo avesse chiamato, facendogli abbandonare la nuova Bag End di Valinor in favore di quel Castello così simile, eppure così diverso, dalla sua dimora di Lórien, forse ancora più incantato e bello se possibile, data l’aura di regalità che sembrava caratterizzare ogni singolo essere, elemento o cosa nelle Terre al di là dei Porti Grigi.

Lo aveva osservato a lungo, non vista, dalla finestra della camera nuziale. A cena invece, ne aveva annotato, dissimulando, le espressioni del volto, i gesti e la conversazione all’apparenza distesa con Gandalf. Nonostante la serenità ostentata, nonostante il sorriso che aveva aleggiato su quel volto fanciullesco durante il canto dolce che avevano composto in suo onore, nonostante il rossore che aveva ridato vita a quelle guance altrimenti pallide durante l’applauso dei commensali tutti, non si era lasciata ingannare da quelle apparenze e aveva notato a malincuore la sua sostanziale insofferenza, al punto da darne per scontato il sonno intermittente, forse agitato. La conferma era stata lo scorgerne la silhouette infantile, emersa pochi attimi prima dal patio inferiore e direttasi verso la Fontana, incantata a suo modo e lattea sotto la luce di una Luna che sapeva per lui di poco conforto. 

La decisione di scendere e fargli compagnia era stata logica quanto naturale. 

Frodo aveva spalancato gli occhi arrossati dalla stanchezza e a questo punto ombreggiati da tracce violacee, avendo conferma che l’ambasciatrice che era stata annunciata dalla delicata fragranza che le sue narici ancora avvertivano, si trovasse esattamente lì, in carne e ossa. 

I lamenti sembravano essersi volatilizzati come una bolla di sapone nell’aria. 

Deglutendo con difficoltà, riuscì a spiccicare parola, salutandola. 

“Mia Signora…”. 

La vide avanzare verso di sé, dopo avergli sorriso nell’esatto momento in cui i loro occhi si erano incontrati. Un sorriso che non era riuscito a ricambiare e che invece spesse volte gli era stato rivolto dall’Elfo. 

La Dama lo aveva raggiunto dopo aver reso nulla la distanza tra loro due con la sua tipica andatura forgiata nell’eleganza più pura e naturale che potesse mai esserci.

Vedendola praticamente a suo lato, chinò rispettosamente il capo bruno ancora umido e poi sollevò lo sguardo ad incrociarne il volto sereno. Allora accennò un sorriso, spontaneo per quanto non esente dall’usuale malinconia. 

“Frodo…”, modulò la voce melodiosa e senza tempo di Galadriel, toccata dal rispetto insito nel gesto di saluto. 

“Non riuscivate a dormire, Mia Signora?”, chiese lo Hobbit, scrutando tracce di difficoltà o pallore innaturale sul viso invece assolutamente privo di cruccio della sua ospite. Si era immediatamente preoccupato per il suo stato di salute, pregando che non fosse stato un malessere a turbare il suo sonno. Solo un attimo dopo si rese conto che non si era minimamente scusato per quella sua visita così poco rispettosa del protocollo. “Scusate, Dama Galadriel…”, rimediò allora, profondamente contrito per quel suo atteggiamento irrispettoso e poco consono alla sua natura di Gentilhobbit. “Non era mia intenzione disturbare il vostro riposo, presentandomi di nuovo al Castello senza preavviso…”, cercò di spiegare, rendendosi però conto che, affermare di non essersi recato lì in propria coscienza, ma come un sonnambulo poco consapevole di quanto lo circondava, avrebbe voluto dire ammettere pubblicamente i suoi problemi di insonnia. 

Galadriel si sforzò di mantenere l’espressione serena, simulandola però evidentemente in quel caso. Era preoccupata, ma temeva che esternarlo non avrebbe aiutato. Piuttosto, rimase colpita dalla preoccupazione di Frodo nei confronti della sua salute. Le era stato riferito che durante la sua convalescenza, le aveva fatto visita ogni giorno, domandando alle sue ancelle oppure a Celeborn notizie sui suoi miglioramenti. Era un essere incredibilmente buono d’animo e generoso e la riprova era che aveva subito messo da parte i propri pensieri per interessarsi di cosa le avesse fatto abbandonare il proprio letto a quell’ora poco consona. 

Era stata poco bene, era vero, ma nessun malore propriamente fisico le aveva fatto lasciare il proprio appartamento quella notte. I suoi occhi cerulei si soffermarono sulla massa di riccioli bruni e lucidi del Mezzuomo, prima di rispondergli. 

“Non c‘è bisogno di scusarsi. La mia casa è sempre aperta per te”, lo tranquillizzò vedendolo inquieto e capendo che si era mentalmente rimproverato per il fatto di essersi ritrovato lì, senza poter fare nulla per evitarlo. “No”, aggiunse poi, rispondendo così cripticamente alla domanda postale. 

Era la verità.

Non era di fatto riuscita a prendere sonno. 

“Mi dispiace…”, considerò Frodo, la sincerità negli occhi che ne palesavano il rammarico. “Posso fare qualcosa per Voi?”, s’informò poi volendola aiutare.

“No, piccolo Hobbit”, negò di nuovo Galadriel, con una sfumatura affettuosa palese nella voce ed un sorriso ora mesto sul volto, mentre notava le gocce trasparenti che comparivano qua e là su quel bel volto tormentato. “No”, disse ancora accompagnando con un movimento della testa il diniego. “Mi chiedevo però se potessi fare io qualcosa per te. Se così fosse anche il mio cruccio scomparirebbe”, concluse seria in volto. L’apparente tranquillità abbandonata. 

Frodo abbassò lo sguardo, comprendendo immediatamente l’allusione. 

“Non era mia intenzione quella di… farvi preoccupare per me”, si scusò, tornando a focalizzare il volto dell’Elfo. “Non voglio che nessuno si preoccupi per me. Né Voi, né Gandalf, né nessun altro”, continuò sentendosi a disagio ed in qualche modo in colpa per aver creato motivi di dispiacere in quelle persone che stimava e amava moltissimo allo stesso tempo. 

“Non devi preoccuparti per noi”, scandì dolcemente la Dama del Bosco d’Oro, scossa da un moto puro di partecipazione. “Il peso che ti sta schiacciando è unicamente sulle tue spalle. Il nostro dispiacere per non poterti aiutare è poca cosa se paragonato alle memorie difficili con le quali convivi”. 

Frodo tacque, riflettendo su quell’analisi stringata ma precisa.

“È il risultato della convivenza forzata con l’Anello…”, parlò brevemente, esternando così la sua non troppa voglia di affrontare l’argomento. Nessuna nota lamentosa o di avvilimento aveva accompagnato quel discorso essenziale. 

La Signora di Lothlórien sedette allora sul bordo della vasca della fontana, i piedi sollevati un palmo da terra, in una posa curiosamente poco regale trattandosi di lei, il piccolo Hobbit silenzioso al suo fianco, con lo sguardo fisso davanti a sé. 

Era vero, annuì mentalmente. L’Halfling era l’erede primario di quel periodo incredibilmente colmo di sventure, sofferenza, morte e influssi violenti e negativi, contro tutta Middle-Earth e contro la sua stessa persona nonché il suo carattere fiducioso e privo di cattiveria. 

Sebbene ne fosse già a conoscenza, sentirselo dire in quella maniera così diretta e priva di autocommiserazione, le fece un certo effetto. Poteva essere piccolo di statura, ma sulla levatura morale pochi avrebbero potuto concorrere con lui, si disse ancora una volta. 

Even the smallest person can change the course of the future… 

Questo era quanto aveva avuto modo di dirgli a Lórien, presso il mallorn.

Parole profetiche, in un certo senso. 

“Non avrei mai voluto che anche le conseguenze di quanto hai dovuto portare avanti da solo, fossero, ancora una volta, tutte per te…”.

Frodo si strinse nelle spalle.

Facendo poi leva sulle braccia e sollevandosi con una certa fatica, sedette a sua volta sulla fontana, i piedi ad almeno cinque palmi dal terreno.

“È l’Anello”, ripeté monocorde. “L’influsso negativo più considerevole è stato assorbito da me in quanto Portatore. Lo stesso vale per le conseguenze. È una conclusione logica, immagino”. 

Logica…”, ripeté Galadriel lentamente, come saggiando il senso intrinseco di quella parola. “Immagino anch’io che lo sia”, aggiunse poi, senza che la sua proverbiale retorica elfica le venisse incontro in quel frangente. “Ma non sono completamente certa che sia anche giusta”, parlò sentendo all’improvviso un malessere profondo coglierla di fronte all’inutilità di quel ragionamento, che esprimeva però indubbiamente il suo coinvolgimento. “Avremmo dovuto impedirlo… impedire che fossi tu il Portatore dell’Unico Anello”. 

Strano che fosse lei a dirlo.

Lei che aveva saputo prima di chiunque altro cosa sarebbe accaduto. 

Frodo parve comprendere ugualmente perché, contravvenendo ogni legge, sfiorò appena la mano bianca della Dama, dalle lunghe dita sulle quali spiccavano unghie di media lunghezza curatissime, appoggiata sul marmo della fontana. “Non si può cambiare…”, mormorò in un soffio, semplicemente, esprimendo una considerazione assolutamente obiettiva e volendo quasi consolare la sua ospite con quel gesto impercettibile. 

L’Elfo sentì un groppo in gola ascoltando quella sentenza inequivocabile e percependo all’improvviso la gravità e il peso dell’angoscia del piccolo Hobbit, intrisa di disillusione. Si concentrò istintivamente sul gesto gentile e appena timido che aveva fatto e ne osservò la mano a un centimetro dalla sua. Una mano piccola davanti ai suoi occhi, in grado di vedere andando ben oltre la semplice apparenza. Una mano candida, sulla quale non era possibile non scorgere l’assenza del medio, deturpato selvaggiamente da quella creatura che corrispondeva al nome di Gollum. 

Le venne da chiudere gli occhi, agghiacciata di fronte a tutto quello che Frodo aveva vissuto con la sola compagnia di Sam, ma si trattenne. Non era stata lei ad aver vissuto quell’orrore, non aveva il diritto di mostrarsi scioccata se Frodo affrontava invece tutto con quella maturità coadiuvata da una nota di dignità solenne, che lo rendeva così diverso da un qualsiasi altro abitante della Contea. 

Un modo di rapportarsi agli eventi quasi cerebrale.

Contro natura?

Questo era quanto traspariva in quegli istanti.

Capacità quasi meccanica di affrontare quanto accadeva ed era accaduto.

Contando semplicemente sulle proprie forze.

Non poteva però credere che la fiamma insita in ogni spirito, anche in quello del più miserabile degli Orchi, fosse del tutto spenta nello Hobbit.

Non poteva essere.

L’idea era atroce.

Frodo non poteva essersi trasformato in un fantasma privo di umanità e totalmente svuotato di volontà o sentimenti.

Era certa del fatto che soffrisse terribilmente, dunque questo avrebbe dovuto polverizzare i suoi dubbi, ma quell’accettazione così matura e appunto disillusa, le trasmetteva un senso di oppressione ed angoscia che la spaventava. 

L’aspetto era ancora quello dolcissimo di sempre, ma all’improvviso le parve come sottilissimo, fatto di materiale impalpabile, uno spettro contornato da un’aura opaca che veniva così a macchiarne l’usuale candore e bellezza. 

Mossa da un’ondata pura di amore, unito a quella specie di malessere che la impauriva contraddittoriamente, nei confronti di quell’esserino straordinario, alle prese con quella gravosa lotta interiore che lo stava sfinendo, gli strinse gentilmente la mano menomata e, con un gesto premuroso, se la portò alle labbra, stampando un bacio tenero sul palmo morbido ed incrociando uno sguardo stupito, quanto all’improvviso lucido, su un volto ora tornato concreto davanti alle sue iridi. 

“Ti ammiro, mellon nîn**”, sussurrò osservandolo spalancare gli occhi, enormi in quel momento. 

“Mia signora…”, mormorò in maniera appena udibile Frodo, abbassando lo sguardo sfocato dalle tracce salate trattenute caparbiamente, sulla mano che iniziava a scaldarsi perdendo parte della rigidità che la caratterizzava e tenuta ancora dalla stretta affettuosa dell’Elfo. 

Si rese conto all’improvviso di come sentisse la necessità di un qualche conforto altrui, di sentirsi dire in maniera infantile e semplicistica che sarebbe andato tutto bene.

Un piccolo autoinganno. 

Aveva bisogno di un qualche contatto fisico, per quanto non intimo. Non era di quest’ultimo che necessitava, ma di un calore diverso, che arrivava comunque diritto in fondo all’anima. Realizzò che ne era stato privato troppo a lungo, e per scelta personale e per incapacità, visto il suo malessere costante e per l’ambiente per lo più elfico e formale nel quale viveva. 

Galadriel, dopo il primo impatto immediato a Lothlórien, che lo aveva onestamente turbato, aveva avuto un effetto rassicurante su di lui. Lo aveva preso sotto la sua ala protettrice, riempito di un calore che non poteva definire come sincero. E adesso era lì. In carne ed ossa. Non il prodotto onirico della sua mente in difficoltà. E anche il suo calore era reale. Poteva percepire l’aura di positività che la circondava e rendeva particolarmente luminosa e bella la sua figura. 

“Ammiro il tuo coraggio…”, confermò lei specchiandosi nelle iridi cristalline dello Hobbit che scuoteva la testa come a voler dire non mi sento coraggioso. “Vorrei che ognuno di noi, coinvolto nella vicenda dell’Anello, portasse con sé parte della pena che stai trascinando da solo… se così fosse, le singole percentuali sarebbero così piccole da non incidere negativamente su nessuno… ma così non è, e tanto meno esiste un incantesimo che possa cambiarlo…”. Galadriel fece una pausa prima di continuare. “Non negare di possedere una straordinaria forza d’animo. È evidente a noi tutti. Nessuno escluso”, lo invitò quindi.

Il volto di Frodo si contrasse allora repentinamente in una smorfia incredula e al tempo stesso derisoria, a suo stesso indirizzo, negando con la testa. “Non è corretto. Senza Sam al mio fianco, non sarei riuscito a distruggere l’Anello, né avrei raggiunto il Monte Fato…Senza Aragorn, Legolas, Gimli, Gandalf, Merry, Pippin e tutti coloro che hanno lottato di pari passo al mio viaggio con Sam, i miei sforzi non sarebbero valsi a nulla. Sarei un altro Gollum, adesso. Non sono coraggioso, Mia Signora. Ho rischiato più volte di soccombere all’invito dell’Anello e forse in fin dei conti è stato così. Non so nemmeno adesso se mi sia scagliato contro Gollum per gettarlo nel Monte Fato oppure se l’abbia fatto solo per cercare di riprendermi l’Anello… se ho visto in lui un rivale, esattamente come ero io per lui… Ho avuto paura. Tantissime volte. E continuo ad averla. Io sono solo uno Hobbit, non sono un eroe”, scandì in maniera chiara, lenta ed udibile. 

Arrabbiato con se stesso e per quell’apprezzamento, che a suo giudizio non meritava pienamente.

Lui aveva fallito.

Perché altrimenti continuava a vivere quegli incubi? 

La risposta dell’Elfo non si fece attendere. Una punta di amarezza e anche sorpresa nel tono di voce, man mano che il suo pensiero veniva espresso. Di certo non si era aspettata una reazione negativa per via di quel suo commento, che aveva avuto come intento un obiettivo diametralmente opposto a quel risultato. 

“Quello che dici è vero... Compi però lo sbaglio di sminuire il tuo ruolo. Il tuo elogio nei confronti dei Membri della Compagnia e degli Eserciti di Rohan e Gondor è legittimo, ma dare loro il giusto merito non vuol dire pensare alla tua impresa personale come ad un fallimento. È una questione di giusto mezzo. Tutti hanno avuto la loro parte attiva nell’Avventura. Samwise the Brave, come tu stesso lo hai ribattezzato, primo tra tutti. È stato un lavoro di squadra. Cementato dai legami fortissimi di amicizia e rispetto reciproco che vi hanno unito, nonché dalla comunanza di ideali. Ma non posso non valutare positivamente quello che tu hai fatto in prima persona. Quello che stai vivendo, Frodo, dovrebbe farti capire il tuo ruolo eccezionale. Lo intendo in maniera etimologica.

Chi sta soffrendo le conseguenze di quell’Azione contro il Male di Mordor?

Tu, piccolo Hobbit della Contea.

Tu solo.

L’aiuto degli altri è stato di inestimabile valore, ma perché credi sia stata creata la Compagnia?

Nessuno si aspettava che ce la facessi da solo.

L’oscuro potere dell’Anello ha irretito me stessa; Mithrandir; ha plagiato un saggio come Saruman… chiunque lo avvicinasse. Non devi sentirti di aver sbagliato, solo perché anche tu sei stato tentato. Guarda oltre questo, Frodo. Tu hai resistito e hai distrutto l’Unico Anello, scagliandoti contro Gollum e rischiando di cadere nella fornace di magma del Monte Fato. Come puoi non definirti coraggioso? Tu sei uno Hobbit, è vero, ma anche un eroe a mio avviso. E non perché non hai avuto paura, ma perché hai portato a termine la tua impresa, investendo tutto te stesso, rischiando di vedere distrutti per sempre e da un giorno all’altro, la tua purezza e il tuo mondo”. 

“Ho sempre creduto di aver fallito… ho sempre ritenuto il mio malore un sintomo del mio fallimento, non della mia vittoria su Sauron”. Le parole erano state accompagnate da un diniego del capo ed una voce che aveva perso ogni nota d’asprezza, finendo in una specie di sussurro inintelligibile. 

“Tu non hai fallito”, rimarcò fermamente Galadriel. “Le mie parole sono sincere, ma devi considerarle tali anche tu. Non sono un tentativo sterile di rassicurazione. A sostegno di quanto ti dico ho tra le mani un’oggettività che tu non puoi avere adesso, in quanto coinvolto in prima persona e ancora succube delle memorie. Credimi, Frodo. Cerca di sfare uno sforzo in questa direzione… Capisci cosa voglio dire?”, concluse  in un soffio, all’improvviso sconfortata davanti il muro di amarezza e disinganno che aveva di fronte e che le sembrò incorruttibile, nel suo impianto saldo e rinforzato da un punto di vista manifestamente erroneo, a suo avviso, eppure contro il quale non era certa di poter lottare alla pari. Inoltre, iniziava a temere una seconda reazione ostile e neanche questo rientrava nei suoi obiettivi. Il ritardo poi di una risposta che invece sperava, contribuiva ancora di più a farle preventivare l’idea di un fallimento.

Tutto intorno a loro era immutato ed ugualmente privo di suono, tranne l’instancabile flusso acquatico alle loro spalle. Frodo rimase immobile per qualche istante, totalmente immerso in quella cornice sibillina e lunare, facendo proprie quelle parole, per infine parlare ancora. 

“Hannon le***”.
 
Le parole sussurrate in un elfico dall’accento quasi inesistente, si resero udibili timidamente, colme di emozione frammista ad assenso. Frodo appariva incredibilmente indifeso in momento, nonostante lo sguardo fosse mortalmente serio e brillasse di fredda luce adamantina, senza recare più traccia alcuna di lacrime represse. Come a rallentatore, e seguendo un qualche istinto dettato dalla frustrazione e dalla solitudine interiore che lo stavano soffocando, abbassò il capo bruno, avvicinandosi a Galadriel. La cinse con il braccio libero all’altezza della vita e poi, lasciando che la stretta delle loro mani si sciogliesse, permise anche all’altro arto di scivolarle delicatamente dietro schiena. Si ritrovò così accoccolato contro il suo corpo diafano. Caldo come un furetto rannicchiato su se stesso, la stringeva forte, la fronte contro il suo seno, il volto affondato nel suo ventre, esercitando una pressione appena percepibile e non invadente. 

La Signora del Bosco d’Oro rimase per un attimo ferma, trattenendo quasi il respiro, colta da un’emozione fortissima, paragonabile solo a quella che provava quando erano Celebrían oppure Arwen a stringerla in quella maniera così intima e speciale, come a voler rimarcare quella sorta di legame tellurico che aveva stabilito anche con Frodo e del quale adesso ne stava avendo ulteriore conferma, per poi chinarsi sulla chioma castana e morbida che si stagliava contro il candore della sua veste da notte e circondargli a sua volta, con le sue braccia flessuose, le spalle esili. 

Lo Hobbit si era quasi del tutto rilassato, adesso che il calore della Dama di Lórien lo avvolgeva completamente. Tranquillizzato dal fatto che lei avesse ricambiato semplicemente il gesto, senza sentirsi offesa per quello slancio forse poco riguardoso, rimase quasi scioccato dallo stupore, quando percepì la pressione del capo regale di lei chino sul suo e poi la dolcezza di un bacio stampato sui suoi capelli, mentre mani gentili gli accarezzavano la schiena, come tempo addietro aveva fatto sua madre Primula, per consolarlo di un qualche cruccio o delusione infantile.

Seppe allora con certezza che il suo inconscio lo aveva guidato sin lì per un motivo ben preciso.

Come se nella Dama dei Galadhrim risiedesse parte della chiave di volta della sua situazione.

Era davvero possibile?

C’era davvero una chiave di volta, se non miracolosa, almeno in grado di fargli squarciare il velo opaco che minava l’effettiva fondatezza delle sue percezioni e allontanava ogni speranza positiva per l’Eternità?

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* “Frodo” in Old English significa “peaceful”.

** “Amico mio”. Inserisco questa nota per i non LotR dipendenti.

*** “Grazie”.  Ibidem 

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Grazie per i commenti graditissimi! Ho trovato splendide le vostre metafore.

Un abbraccio speciale va a Lothiriel. :) Non mi aspettavo minimamente che qualcuno mettesse la storia nel topic dei consigli (anzi ne ignoravo proprio l’esistenza, eh!).

Rispondo ora alla domanda sul titolo, più che lecita. Mea culpa – ho dimenticato di inserire una nota nel primo capitolo. Dunque, “Ainadamar” è una parola araba e vuol dire “Fontana delle Lacrime”.

Cosa c’entra con Tolkien e Frodo a Valinor? Apparentemente nulla, sennonché è stato leggendo “Poeta en Nuova York” di F.G. Lorca che mi sono decisa a scrivere. È una delle mie raccolte poetiche preferite, dai toni surrealisti, piuttosto cupi. È rileggendo le note sulla sua morte che l’occhio mi è caduto sul luogo della fucilazione, appunto Ainadamar oppure Fuente Grande in spagnolo, nei pressi di Granada.

È una parola suggestiva, che mi comunica una grande tristezza, insita ad un male di vivere che mi taglia un po’ le gambe ogni volta che la ricollego a quelle poesie. Mi è sembrato un titolo adatto in qualche modo. In merito alla pronuncia, l’accento va sull’ultima /a/.

  
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