CAPITOLO 3.
GIOVANNA MARCONI
Rita Levi – Montalcini
Il cielo si
oscurava sempre di più come in attesa di una tormenta, le
nuvole si
univano e arrivarono i tuoni, tanto terrificanti da aver spaventato
almeno una volta ogni bambino, e tanto rumorosi da riuscire ad
interrompere sogni beati riportando gli addormentati alla
realtà,
quasi bruscamente.
Non era il caso di Giovanna Marconi, i cui
sogni erano ben lontani dall'essere beati e anzi, erano tormentati e
agitati, e quando i suoi occhi azzurri si aprirono nel mezzo della
notte al ritmo dei fulmini, fu quasi grata al temporale di averla
scossa abbastanza da dargli la forza che gli serviva per
svegliarsi.
Iniziò a respirare affannosamente sia con il naso
che con la bocca, come se fosse rimasta a lungo senza la
capacità di
respirare, mentre i suoi occhi non la smettevano di roteare in ogni
direzione. Non si muoveva, sia il viso sia gli arti erano fermi,
inerti, come pietrificati dalla paura come lo era lei, e per quanto
sforzasse il suo udito, gli unici rumori che sentiva provenire dal
suo corpo erano i suoi sospiri e i suoi lunghi capelli biondi, le cui
ciocche si muovevano delicatamente sulle sue spalle, mossi dal
vento.
Non poteva assolutamente farsi prendere dal panico,
soprattutto se voleva restare viva. Aveva già affrontato
situazioni
pericolose, più di quante una donna di ventisette anni come
lei
avrebbe mai dovuto avere a che fare, ma se c'era una cosa che aveva
imparato nel corso della sua vita era che se voleva sopravvivere,
doveva mantenersi lucida, o sarebbe stata la sua stessa paura a
distruggerla.
Inizierò a muovere molto lentamente il suo
corpo, aspettandosi di trovare braccia e gambe legate al letto, ma
erano libere come l'aria. Nessun laccio, nessuna catena. Nulla la
teneva legata al letto, e per quanto ne fosse da una parte sollevata,
dall'altra ne fu confusa.
Sollevò le mani verso l'alto: le
sue dita affusolate erano sporche di terra, la sua terra.
Sì,
ricordava. Ricordava di aver lavorato nella terra di suo marito.
Giacomo era un contadino, ma era anche cagionevole di salute, e come
a volte capitava, era stato male e non era in condizione di lavorare,
così era andata lei al posto suo, come faceva ogni volta che
lui non
riusciva.
Ma a quando risaliva questo ricordo? Per quanto si
sforzasse, non riusciva a trovare risposta. Era un ricordo recente,
accaduto poco tempo fa, ma quando di preciso non lo sapeva. Due ore
prima? Il giorno prima? Una settimana prima? Il mese prima?
Ricordò
il sole accecante che in passato non l'aveva mai fermata ma quel
giorno era stato insopportabile, il mal di testa. Le sagome. Le
sagome di sei persone come dipinte sul terreno arido in cui coltivava
le verdure. E poi, lo svenimento.
E poi c'era stato quello
strano sogno. Quel Frank. E tutte quelle strane cose di cui parlava.
Cose a cui Giovanna non credeva, cose di cui era terrorizzata, cose
che un po' la incuriosivano.
Ora si ritrovava in quella
stanza. Una stanza accogliente, più grande e sicuramente
più curata
della camera da letto sua e di Giacomo. Il pavimento era in legno,
c'era qualche armadio, uno scaffale, un piccolo tavolo all'angolo e
una sedia. Non era legata. Non aveva ferite, e il mal di testa era
completamente sparito. Non era nemmeno nuda, perché si
tastò il
corpo con le mani e sentì la vecchia stoffa del suo abito.
Era come
se qualcuno l'avesse trovata e salvata. Eppure non era tranquilla.
Per niente.
Pensò alla sua famiglia. A suo marito Giacomo. Ai
loro figli, che voleva assolutamente riabbracciare. No, doveva
tornare subito da loro. Sarebbe sopravvissuta per loro.
Ma quando si alzò dal letto,
capì che forse non stava
bene come inizialmente aveva pensato. Sentì qualcosa sulla
sua
testa. Non era una ferita perché non sentiva dolore, era
come se ci
fosse qualcosa di nuovo, qualcosa che premeva. Infilò le
dita tra i
capelli cercando di capire con il tatto di cosa si trattasse, e
quando arrivò al punto dal quale proveniva il fastidio
sentì come
un puntino. Un neo. Eppure, non aveva mai avuto niente di
simile.
Nel preciso momento in cui allontanò le dita dalla
testa perché arrivata alla conclusione che toccandolo
più a lungo
non avrebbe comunque capito di cosa si trattasse, vide la porta
aprirsi. Si alzò frettolosamente allontanandosi il
più possibile,
maledicendosi per non essere uscita quando poteva farlo.
Sulla
soglia apparve un uomo anziano, ma con addosso degli abiti che
Giovanna non aveva mai visto, eppure aveva uno sguardo rassicurante.
Aveva i capelli bianchi e corti, era molto magro, e due occhi azzurri
chiari come i suoi. In mano aveva un vassoio, con del latte su un
piatto grigio. Sul viso, i segni indelebili di un trauma, una ferita,
un dolore passato ancora presente dentro di lui.
“Va tutto bene, non devi avere paura. Ecco..” disse, mettendo il vassoio sul tavolo e aggiunse “..avrai fame.”
La ragazza iniziò a muovere gli occhi sempre più velocemente. Prima erano sul vecchio e poi sul vassoio, poi di nuovo sul vecchio poi ancora il vassoio.
L'uomo tirò fuori un cucchiaio
che teneva in quegli
strambi abiti, lo infilò nel piatto e prese un sorso di
latte che
bevve davanti alla ragazza, per dimostrarle che non era avvelenato e
che poteva fidarsi.
“Vedi? E' buono.”
Giovanna sospirò. Non si sentiva
ancora al sicuro, ma
l'uomo era gentile e l'unica cosa sensata che potesse fare era
rispondere con la stessa gentilezza, ma senza abbassare la
guardia.
“Non posso accettare.”
“Perché?”
“Non ho monete, o niente di
valore da darle in
cambio.”
“Non voglio niente. E' gratuito.”
Giovanna lo guardò sorpresa.
“Non capisco.”
L'uomo prese il piatto e lo porse alla
ragazza.
“Se
volessi qualcosa in cambio, non te lo offrirei gratuitamente. So che
non mi conosci, che non hai motivo di fidarti di me e che sei
spaventata, ma non hai nulla da temere.”
La ragazza lo fissò
per un minuto abbondante, ma poi prese il piatto e iniziò a
bere il
latte, prima lentamente, poi tutto d'un fiato.
“Perché non
vieni con me nel soggiorno? Scommetto che avrai molte domande.
Cercherò di rispondere.”
Giovanna lo seguì continuando a guardarlo sospettosa come se si aspettasse da parte sua un gesto inaspettato, mentre continuava a tenere il piatto ormai vuoto.
Quando raggiunsero l'enorme stanza,
Giovanna si
pietrificò. Era davvero grande, quella sola stanza era il
triplo più
grande della sua intera casa, inoltre gli oggetti al suo interno
erano pochi se paragonati alle dimensioni del soggiorno, il che dava
l'idea che la stanza fosse anche più grande di quanto fosse
in
realtà. C'era un vecchio e polveroso tappeto, e nell'angolo
c'erano
una serie di grandi oggetti, alcuni mobili, altri erano oggetti che
Giovanna non aveva mai visto. Uno in particolare attirò la
sua
attenzione: era alto ma stretto, e completamente bianco. Sul davanti
c'era una specie di maniglia, simile a quelle che trovi sulle porte.
Ma fu ciò che era lungo la parete alla sua destra che la
lasciò di sasso. Un lungo tavolo e un paio di sedie. Il
tavolo
sembrava bianco, ma era difficile esserne sicuri perché non
era
facile vederlo dato che sopra c'erano talmente tanti oggetti da
coprirlo quasi del tutto. Gli oggetti in questione erano qualcosa che
Giovanna non avrebbe mai pensato di vedere, non sapeva neanche come
classificarli, come descriverli. C'erano tre grossi cubi, al centro
erano neri ma nei bordi bianchi. Davanti a loro, un oggetto dalla
forma rettangolare con dei simboli disegnati sopra, e il tutto era
unito da dei grossi fili neri. A rendere il tutto ancora più
inquietante agli occhi della donna ci pensava una grande poltrona
accanto al tavolo, vuota.
L'uomo accorse subito in suo aiuto.
“Non ti spaventare. E' un oggetto
che da dove vieni tu
non esiste ancora, è per questo che non lo conosci. Vieni,
sediamoci.” disse, prendendola gentilmente per un braccio e
accompagnandola verso alcuni divani al centro della stanza, che
Giovanna non aveva neppure visto.
“Da dove vengo io?”
“Ti
ricordi di una certa chiacchierata con.. Frank?”
La ragazza sgranò gli occhi e si
alzò immediatamente,
facendo cadere il piatto che andò in mille pezzi.
“E'.. è
stata opera sua?”
“Si può dire così, sì.”
Giovanna iniziò ad agitarsi.
Tutta la calma che aveva
fino a quel momento se ne andò all'istante e rimase solo la
paura.
Non le piaceva quella situazione. Affatto.
“Ti prego,
lasciami andare. Riportami a casa. Riportami dalla mia
famiglia.”
fece in tono supplichevole, sperando nella bontà dell'uomo.
Voglio
mio marito.
Voglio i miei figli.
Voglio la mia vita.
Gli
occhi dell'anziano si fecero lucidi, forse l'aveva commosso. Forse
l'avrebbe aiutata. Forse l'avrebbe portata a casa.
“Sei
libera di andare, potrai farlo non appena sarai pronta.”
“Non capisco.”
L'uomo andò verso un grande
portone, probabilmente
l'ingresso della casa. Per un momento, Giovanna pensò che
l'avrebbe
chiusa per impedirle di scappare, ma non lo fece. Fece l'unica cosa
che non si aspettava. La aprì.
“Non sei una mia
prigioniera, e questa non è la tua cella. Vuoi andare via da
qui?
Vai. Ma uscendo da questa porta, non riuscirai mai a tornare a casa.
E se ti ricordi di Frank, credo che una parte di te sappia
già il
perché.”
Frank.
Creature da combattere.
Viaggi nel
tempo.
Sei persone.
Anime spezzate.
Da quando era
cominciata quella storia assurda, per la prima volta, Giovanna
iniziò
seriamente a considerare che fosse tutto reale. Che ciò di
cui aveva
parlato Frank era vero. Non era mai stata una persona particolarmente
credulona, ma quella era l'unica spiegazione possibile. E se davvero
aveva viaggiato nel tempo, quell'uomo aveva ragione. Non era varcando
quella porta che sarebbe tornata la casa. E l'ultima cosa che voleva
era perdersi in un luogo e tempo lontano da quello che conosceva.
Si
sentiva inconsciamente stupida a pensare davvero una cosa del genere,
ma quella situazione era troppo assurda e poteva avere solo una
spiegazione altrettanto assurda.
“Dove siamo?”
“Dusseldorf,
Germania. Sai dov'è la Germania?”
La donna scosse la testa.
“E' sopra l'Italia. A
Nord.”
“E dov'è l'Italia?”
Questa volta era il turno dell'uomo ad
essere sorpreso,
ma poi rifletté un momento e si colpì la fronte
con la mano destra.
Cazzo Henrich, questi sono errori da principianti!
Non
fai altro che confonderla!
Come ho fatto a dimenticarmi che nel
1817 non c'era nessuna Italia?
E' lei viene dal 1817!
E'
naturale che non capisca!
Stupido stupido stupido!
Pensa
Henrich, pensa!
Com'è la sua Italia?
Eppure avevo cercato
informazioni al riguardo mentre li aspettavo!
Ah, già! Il
Congresso di Vienna!
Lei viene dalla zona Nord, Piemonte se non
sbaglio, quindi era nel..
“Regno di Sardegna?”
Giovanna
annuì con la testa.
“Devi perdonarmi. Il fatto è che, un
giorno, il Regno di Sardegna e altri territori vicini si uniranno e
diventeranno l'Italia. Mi sono confuso per questo.”
“E finiranno tutte le
guerre?”
Ehm..
No.
Ne inizieranno di peggiori.
Che faccio?
Non voglio
illuderla, ma non voglio neanche farla stare male per un futuro che
non vivrà nemmeno.
“Non divaghiamo.. comunque sì,
questa è la Germania. Anno 2086.”
La donna dovette sedersi.
“Due..
duemilaottantasei?”
“Ora sai perché ci sono così tanti oggetti che non conosci. Possiamo fare una pausa, se non te la senti..”
“No. Voglio sapere. Come sono arrivata qui? Ho.. ho viaggiato nel tempo?”
“Ti ho portato io qui. Per salvarti. Ricordi.. ricordi un forte mal di testa? E un successivo svenimento? E' successo perché nel tuo corpo è stato inserito un fluido che altera le tue cellule, e che ti dà questa capacità. La capacità di viaggiare nel tempo. Essendo una cosa che comporta grossi cambiamenti e che va ad influire sul mondo passato, presente e futuro, il tuo sistema immunitario non ha retto lo sforzo, ecco perché il mal di testa e lo svenimento.”
La donna ascoltava l'uomo con attenzione,
mentre muoveva
ovunque le braccia per il nervosismo.
“Una volta svenuta,
avresti dormito per tre giorni, e durante questo tempo il tuo sistema
immunitario si sarebbe adattato al fluido. Una volta sveglia, avresti
già potuto viaggiare nel tempo, ma non sapevi come, ed era
un
rischio troppo grande. E' come mettere un bambino che non sa nuotare
in una piscina. Finirà con l'annegare. Avresti potuto finire
per
caso in un epoca e in un luogo che non conoscevi, magari pericoloso.
Avesti potuto essere arrestata perché senza documenti.
Rinchiusa in
un manicomio per i tuoi abiti che rispecchiano la tua epoca e non
quella in cui ti ritrovi. Per questo sei qui. Io aiuterò te
e gli
altri cinque. Vi insegnerò come viaggiare nel tempo e vi
spiegherò
cosa dovete evitare per non alterare l'umanità.”
Tutto
iniziava ad avere un senso, e Giovanna ammise a sé stessa
che ciò
che diceva l'uomo era sensato, per quanto potesse essere
sensato
viaggiare nel tempo, e che sembrava davvero che volesse
aiutarla,
ma c'erano ancora tanti vuoti, e la donna voleva riempirli.
Stava
per fare un'altra domanda, ma si sentì un suono provenire
dal tavolo
con sopra tutti quegli aggeggi strani. Giovanna sobbalzò, ma
l'uomo
la rassicurò immediatamente.
“Stai tranquilla, non è
niente! Questo suono significa che un altro dei tuoi compagni si sta
per svegliare. Meglio che vada ad accoglierlo come ho fatto con te,
vorrei evitare che si spaventi e scappi dalla finestra. A breve si
sveglieranno tutti uno dopo l'altro, quindi non spaventarti se senti
ancora questo rumore.” fece l'uomo, andando verso i mobili e
aprendo quell'oggetto bianco con la maniglia e prendendo dal suo
interno quello che sembrava del cibo, per poi metterlo sul vassoio e
dirigersi verso una stanza, ma la donna gli andò
incontro.
“Aspettate! Io ho altre domande!”
“Quando saranno tutti svegli,
risponderò ad ogni
vostra domanda, così non dovrò ripetermi per
certe cose. Farò con
ciascuno di loro quello che ho fatto con te, e quando sarete tutti
insieme, riprenderemo il discorso.”
“E io cosa
faccio?”
“Quello che vuoi. Aspetta qui nel divano, oppure
se hai ancora fame vai in cucina. Presente quel grosso oggetto bianco
con la maniglia da cui ho preso il cibo? Si chiama frigorifero. Se lo
apri, ogni cosa che troverai dentro è cibo. Serviti pure.
Magari
evita di avvicinarti al tavolo dal quale provengono i rumori, ed
evita anche di uscire di casa. Una donna vestita come te non
passerebbe inosservata.”
La donna annuì, e si sedette
nuovamente nel
divano.
“Comunque il mio nome è Henrich. Henrich
Bauer.”
“Giovanna Marconi.”
“Lo so.” fece Henrich
con un mezzo sorriso,
salutandola con il capo e dirigendosi verso uno dei compagni della
ragazza.
Ok,
tanto per cominciare mi scuso per l'enorme ritardo con cui aggiorno.
Avrei voluto farlo prima ma sono stata impegnatissima, e inoltre questi
primi capitoli sono piuttosto difficili da scrivere perché
sono quasi un "prologo" alla storia vera e propria, quindi confido che
i prossimi aggiornamenti saranno più rapidi.
Ci tengo a ringraziare tantissimo chi ha letto i primi due capitoli (e
chi leggerà anche questo) e un grazie speciale a sissyaot01
per la recensione, spero apprezzerai anche questo capitolo!
E niente, ci risentiamo al prossimo capitolo (che spero non
tarderà ad arrivare) e ricordate, ogni recensione
sarà molto gradita! A presto.