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Autore: Francine    27/07/2017    2 recensioni
Elena ha rilevato il vecchio negozio di fiori della nonna ed è pronta ad iniziare un nuova vita nel paesino di Cala della Sirena. Ma il suo negozio fa gola anche a qualcun altro, che è disposto a fare carte false per sfrattare la piccola fioraia ed aprire un konditori in perfetto stile svedese...
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer DeathMask, Capricorn Shura, Pisces Aphrodite
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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11.





Il mattino seguente, dopo essere rimasta immobile per qualche minuto ad ascoltare il cinguettio dei merli, Elena si costrinse ad aprire gli occhi. Sbadigliò e controllò la sveglia sul comodino, una di quelle col quadrante grande e i numeri ben leggibili. Erano le otto e trenta.
Il soffitto color panna con la plafoniera dal bordo marrone le risultarono estranei e aggrottò le sopracciglia. Poi rammentò che si trovava a casa di Marco, nel suo letto, tra le lenzuola che portavano impresso il suo profumo.
Sbatté le palpebre e si passò una mano sul collo, ancora frastornata per il sogno che aveva fatto. C’era un bagnasciuga che si estendeva a perdita d’occhio, dalla curiosa forma a scimitarra. Il sole splendeva, l’aria era mite e i gabbiani volavano a pelo dell’acqua. Camminava sulla battigia, con un vestito di un bianco accecante e i capelli legati. La spiaggia era deserta, la marea giocava con le sue caviglie e si divertiva a bagnare l’orlo arrotolato dei calzoni di Marco. Nel sogno ridevano. Chiacchieravano e scherzavano, l’uno accanto all’altra, fino a quando lui non si era fermato, l’aveva afferrata per un polso e se l’era portata al petto, stringendola tra le braccia forti. E le aveva incatenato gli occhi nei suoi prima di chinare il viso verso di lei e baciarla.
Elena avvampò, tirandosi il lenzuolo sopra la testa.
È colpa del suo profumo, si disse, sbuffando. È stato un sogno. Uno stupido sogno.
Fuori i merli cinguettavano allegri e quel pizzicorino alla base della nuca l’avvisava di non illudersi: anche quel giorno avrebbe fatto molto, molto caldo.
In casa erano tutti svegli. Elena poteva sentire dabbasso la lavatrice occuparsi della centrifuga, il tramestio della colazione e delle voci che parlottavano tra loro.
Non posso restare qui in eterno, si disse, liberandosi dal lenzuolo. Non aveva progetti, rifletté. Decise che avrebbe affrontato quella giornata navigando a vista, perché la vita non procedeva mai secondi i piani, ma assecondando i propri capricci.
I lavori al negozio, ad esempio, potevano considerarsi come un pasciuto coniglio sbucato dal cilindro che si era messo a rosicchiare tutto ciò che i suoi incisivi incontravano strada facendo.
Non che ci fosse rimasto granché.
Le sarebbe piaciuto diventare un’insegnante. Niente di troppo pretenzioso. Una professoressa di una qualche scuola media, una à la Pennac, col magico dono di far innamorare della lettura i ragazzi più svogliati. Ma poi, ad un seminario di Filologia Romanza – Storie di amori infelici e sventurati – aveva conosciuto Andreas, che coi suoi occhi di ghiaccio le aveva raccontato le saghe nordiche di Thor, Loki e Balder, e l’aveva fatta innamorare del suo accento rigido e del cielo di Stoccolma. E il piccolo, timido sogno di Elena aveva assunto ben altri contorni: raccogliere in un saggio tutte le prove schiaccianti che collegavano le fiabe ai romanzi cortesi, prima di volare in Svezia per immergere il naso in antichi e polverosi tomi, e il cuore tra le braccia di Andreas.
Ma l’incidente in cui i suoi genitori avevano perso la vita aveva sparigliato le carte, mandando in frantumi il futuro tanto sognato, lasciandole una sorella minore a cui badare ed un negozio di fiori in riva al mare.
Ed era da qui che Elena aveva deciso di ripartire. Fare la fioraia non era poi così spiacevole – o sua nonna non avrebbe tirato su sua madre e sua zia con quel lavoro – anche se aveva speso una vita intera per prepararsi ad altro. Era pur sempre un punto di partenza, e da qualche parte avrebbe pur dovuto ricominciare per rimettere assieme i cocci, giusto?
Giusto, si disse, stiracchiandosi lenta lenta, come fanno i gatti. Scalciò via lenzuolo e sovraccoperta e si alzò. Indossava un pigiama a righe sottili di un deciso blu mare, castigato a sufficienza per non destare strani pensieri in un uomo. Le mancava soltanto una liaison affettuosa!
Marco è un bel ragazzo. Ma non hai né spazio né tempo per un uomo, adesso. Intesi?, si disse, prendendo un bel respiro profondo.
Infilò le ciabatte, prese il necessaire da toeletta e si diresse verso il bagno.
Scese le scale e il suo sguardo incrociò il divano-letto in cui aveva dormito Marco. Le tornò in mente il sogno, gli occhi di lui e la sicurezza che le aveva trasmesso il suo abbraccio.
È colpa del solco. Certo!
La sera precedente Elena aveva dovuto fare i conti con un piccolo particolare: il corpo di Marco aveva scavato nel materasso un piccolo solco che l’aveva accolta come in un abbraccio. Scosse la testa, come a scacciare quel pensiero inopportuno, e passò davanti al divano-letto senza degnarlo di uno sguardo, come se fosse un vestito troppo caro in una vetrina luccicante del centro.
Se il letto è vuoto, significa che lui è già uscito. O sta per uscire, si disse, pregando con tutta se stessa che fosse già andato a lavorare, perché altrimenti non ce l’avrebbe fatta a sostenere il suo sguardo indaco senza arrossire come una scolaretta.
Smettila! I sogni sono la discarica del cervello, ricordi?, si disse ciabattando verso la cucina. L’aroma del caffè appena fatto era un richiamo impossibile da ignorare, una dolce promessa che l’avrebbe aiutata ad uscire dal mondo dei sogni per iniziare una nuova, pimpante giornata, e lei aveva deciso di crederle. Ma quando arrivò sulla soglia, sgranò gli occhi e si ritrovò all’improvviso sveglissima.
Marco era ancora lì.
In piedi, davanti al tavolo, le dava le spalle – larghe – mentre beveva il suo caffè. Il completo grigio perla metteva in risalto il fisico atletico e le gambe lunghe. I capelli erano ancora umidi di doccia e il profumo del suo dopobarba si mescolava alle note speziate del caffè. E ha pure un bel sedere, pensò Elena stringendo tra le dita il suo necessaire rosa corallo.
Era una situazione tanto innocente quanto intima ed Elena si sentì come se stesse violando il suo spazio privato. Fece per tornare nel corridoio a marcia indietro quando Marco si voltò e i loro sguardi si incrociarono.
Sono perduta!, pensò la ragazza, mentre quelle iridi color indaco si concentravano sul suo viso.
No. Non ci pensare proprio, si disse. Michela è stata sin troppo esplicita, rammenti?, ed Elena tutto voleva tranne che essere il terzo apice di un triangolo. Lei aveva sempre odiato la matematica e ancor di più la geometria coi suoi teoremi da dimostrare per cui occorrevano diciotto gessetti colorati differenti che finivano per sovrapporsi sulla lavagna, facendole sanguinare gli occhi.
Ma allora perché il suo cuore batteva all’impazzata, nemmeno avesse deciso di sfondare sterno e costole per prendersi una corroborante boccata d’aria di mare e una tazzina di caffè?
«Oh, buongiorno», disse lui, scoccandole un sorriso sghembo. «Dormito bene?»
Elena mugugnò un «’giorno» in risposta, anche se le uscì fuori un mezzo rantolo. Il Kraaken avrebbe avuto una voce simile, se solo qualcuno si fosse preso la briga di starlo ad ascoltare.
«Benissimo», rispose Elena. «Tu?»
«Una meraviglia», rispose, dando una sorsata generosa.
«Davvero?», si sentì chiedere Elena.
«Davvero», disse lui.
«Dove sono gli altri?»
«Francesca è uscita, e Nonna è in terrazzo, ad annaffiare le piante dei pomodori», rispose Marco, indicando con un dito il soffitto.
«Da sola?»
«Da sola. Sì.» Le rivolse un sorriso sghembo, poi aggiunse: «Ne approfitta per fumarsi una sigaretta. Lei sa che noi sappiamo che lei sa, ma per quieto vivere chiudiamo tutti e tre gli occhi.»
«Ma, è sicuro lasciarla da sola?»
Marco scosse la testa, poi le versò il caffè. «Non provare a far sentire alla nonna gli anni che ha. Te ne farebbe pentire.»
«No, è che io…»
«Lo so, lo so», l’interruppe lui. «Viene naturale preoccuparsi delle persone anziane. Hanno il vizio di cadere e rompersi il femore. Ed è a quel punto, che iniziano i dolori…»
«Lo so. Anche mia nonna era così», rispose Elena. «Però mi hanno insegnato che quando si vive con qualcuno, ci si aiuta a vicenda. Altrimenti, si va in albergo.»
«Rilassati. Nonna sa quello che fa. Non se ne va mica in skateboard per le strade di Cala della Sirena.»
Elena sfarfallò le ciglia mentre un pensiero le attraversò la mente: Nonna Agata in jeans sfrangiati e canotta rosa acceso intenta a sfrecciare per i vicoletti tortuosi della cittadina su una tavola nera con delle fiamme, quattro teschi e tutto il resto.
«Anche se ne sarebbe capacissima», disse Marco posandole la tazzina davanti e terminando il proprio caffè.
«Sarei capacissima di fare cosa?»
Nonna Agata era apparsa alla base delle scale: indossava un ben più sobrio chemisier di cotonina a fiori rosso scuro e li fissava come se fosse spuntata ad entrambi una seconda testa.
«Tenerle testa», disse Marco, indicando Elena con un gesto del mento. «Sarebbe bello vedere chi delle due sopravvivrebbe, in uno scontro diretto. Secondo me, vinceresti tu. A mani basse e ad occhi chiusi», agginse, facendo l’occhiolino a sua nonna.
La quale stirò le labbra, gli regalò uno sguardo intenso e ribatté: «Risparmia il fiato. Con questo caldo non te li faccio i pomodori col riso.».
Marco sollevò le spalle. «Malfidente e malfidata.» Posò la tazzina nel lavandino, bevve un bicchiere d’acqua e recuperò la giacca dalla sedia. «Guarda che il caffè si fredda, Elena. Fai come se fossi a casa tua. Intesi?»
«Intesi», rispose Elena ritrovandosi in apnea di fronte agli occhi blu di Marco.
Indaco. Sono indaco!
«Torni a pranzo?», chiese Nonna Agata.
«Sì.» Le sorrise ed uscì, lasciandola a stringere il suo necessaire rosa corallo come se fosse l’unico appiglio in un mare in burrasca.
«Ruffiano», sibilò Nonna Agata guadagnando una sedia e lasciandovisi cadere. «Stai attenta, Elena. Mio nipote sa essere un grande adulatore, quando vuole. Ma con me, non attacca.»
«Gli piacciono davvero tanto i pomodori col riso?»
«Oh, sì. Ma con questo caldo… mi sento svenire solo al pensiero!»
«Posso pensarci io», si propose Elena. «Tanto, non ho molto da fare.»
Nonna Agata sorrise, ed Elena si sentì come una povera, piccola mosca caduta nella tela del ragno, che più si dimena e più s’invischia. Mi ha fregato, pensò.
«In tal caso, fai colazione, custodisciti e vestiti, ché usciamo.»
«Per andare dove?»
«Al mercato. O credi che i pomodori col riso crescano sugli alberi?»


Marco parcheggiò l’automobile e si massaggiò la nuca.
Maledetto Andreas, pensò. Il materasso del divano-letto era spesso quanto una sottiletta squagliata e durante la notte Marco aveva avuto modo di fare la conoscenza di tutte le molle che componevano la rete.
Ti metto in conto anche questa, stronzo, si disse, scendendo dalla vettura. Recuperò la giacca e gli oggetti personali dal sedile del passeggero, chiuse la portiera e si avviò verso l’agenzia.
Shaina stava sollevando la saracinesca, le dita a stringere le chiavi nel motore elettrico e lo sguardo verso le nuvole. Aveva pianto.
«Buongiorno», le disse quando le fu accanto. «Caffè?»
«Sembri uno di quei quarantenni che infestano internet», rispose lei con un tono che minacciava di farlo a pezzi e spolparlo fino a lucidare le ossa.
«Dormito bene anche tu, vedo», ribatté Marco, le mani in tasca e il sorriso di facciata.
«No. Ho dormito da schifo. E tutto perché sono una stupida.»
Aprì la porta ed entrò. Accese le luci, il condizionatore e premette l’interruttore per sollevare le altre serrande dell’agenzia. Marco l’ignorò. Si diresse nel suo ufficio, accese il computer, si liberò della giacca e si sedette alla scrivania. Non sarebbe stata una settimana facile: non c’era niente di nuovo all’orizzonte, e Marco non prevedeva che sarebbe successo qualcosa di nuovo. Anzi; si trovavano in quell’equilibrio così precario per cui una novità, seppure piccola, avrebbe potuto rivelarsi un problema.
Avrebbero fatto meglio a chiudere una settimana in anticipo, ma Shura s’era dimostrato irremovibile. «Se non stiamo aperti, ci rimettiamo. Magari un pensionato s’innamora della città e vuole acquistare una casa, hai visto mai?», gli aveva detto, ma Marco sapeva che l’amico stava cercando una valvola di sfogo, un’uscita di sicurezza da tenere a portata di mano.
I tempi erano cambiati. I pensionati erano pieni di acciacchi e malanni, e preferivano restare in città per entrare nel poliambulatorio sotto casa e farsi rivoltare come un calzino per scoprire di essere sani come un pesce.
Non ci sono più i vecchietti di una volta, pensò Marco. Dopo tutto, quella era una generazione che era sopravvissuta a quella mattanza che i manuali di storia chiamavano Seconda Guerra Mondiale. E quando li freghi, a quelli lì, si disse, le braccia incrociate dietro la testa.
La porta si spalancò senza preavviso e Shaina apparve nel riquadro.
«C’è Mu», disse. «Chiede se possiamo appendere la locandina del Festone.»
Appendere dove?, pensò Marco. E poi lo chiese: «Appendere dove?».
«Sulla porta d’ingresso. Credo.»
Credo? Marco si alzò, infilò la giacca e raggiunse l’ingresso dell’agenzia. Mu aspettava quieto davanti al bancone della segreteria, fresco come una rosa e con una tracolla piena di locandine. Ma questo non suda mai?, pensò Marco porgendogli la mano. Coi suoi capelli lisci e la casacca immacolata, Mu sembrava sempre appena uscito dalla doccia, placido come un laghetto di montagna. Forse era per questo che la sua palestra di yoga era sempre strapiena, colla pioggia o col sereno? Mu gli sorrise e ricambiò la stretta.
Placido un cazzo, questo sarebbe capace di spaccarmi la faccia.
«Il vecchio ti tiene al chiodo, eh?»
«C’è sempre molto da fare, tra le lezioni e il resto.» Marco annuì, intenzionato a voler ignorare quale fosse il resto di cui parlava Mu. «Disturbo?»
«Nessun disturbo. Scherzi? La pro loco è l’anima di questo paesello. Senza di voi, sarebbe un mortorio», ribatté Marco. «Che si fa di bello quest’anno?»
Mu estrasse una locandina dalla sua tracolla e la spiegò sul bancone.
«Il solito. Stand in piazza e sul lungomare, la processione della statua della Madonna sul mare e i fuochi d’artificio.»
«Squadra che vince non si tocca, eh?»
«Lo sai com’è fatto, Sion. Non vuole avere sorprese.»
«Ma qui c’è una novità!», esclamò Marco, indicando un nome sul programma. «Quest’anno non ci sarà l’orchestra di Loris!»
«Loris è andato in pensione.»
«E chi sarebbe questo Denim?»
«Suo nipote.» Pausa. «Sareste così gentili da appendere la locandina in vetrina anche quest’anno?»
«Nessun problema. Solo che noi chiudiamo per ferie venerdì prossimo, e le serrande resteranno abbassate fino al trentuno.»
Mu si strinse nelle spalle.
«È il pensiero che conta.»
Eliminò una piega inesistente dalla sua casacca di lino, poi aggiunse: «Pensa che c’è chi l’ha affissa lo stesso, nonostante stiano facendo i lavori.».
«E chi sarebbe questa persona di buon cuore?», chiese Marco, mentre Shaina prendeva dal bancone della segreteria il dispenser con il nastro adesivo e raggiungeva la porta d’ingresso.
«Un negozio in Viale Svezia. Un fioraio credo», rispose Mu, mentre la ragazza staccava un primo pezzo di scotch. «E poi la nuova agenzia di Viale Pegaso.»
Un campanello d’allarme risuonò nella mente di Marco e Shaina. Agenzia? Quale agenzia?
«Di che stai parlando?»
«Davvero non lo sai?» Mu scoccò uno sguardo confuso a lui e a Shaina, il dispenser in una mano e la locandina ancora da appendere. «La Domus Aurea aprirà una filiale qui a Cala della Sirena.»
«Sei… sei sicuro, Mu?»
«Sì. Hanno anche contribuito a far stampare locandine e volantini. Sai che Sion ha avuto da ridire col tipo della copisteria, no?»
«Doko? Ma non erano amici da una vita?», s’intromise Shaina.
Mu si strinse nelle spalle.
«È proprio per questo che hanno litigato. Ma siccome sono due vecchi testardi, non vogliono che la cosa si sappia.» Poi indicò la locandina. «Aspetta, ti aiuto», le disse, prendendole il dispenser dalle mani e staccando dei pezzi di nastro adesivo. «Ecco qui.», aggiunse, dopo aver fissato gli altri angoli della locandina sulla vetrina dell’agenzia immobiliare.
«Da quanto lo sai?»
Marco aveva ringhiato all’indirizzo di Mu, ma questi non sembrava essersene accorto.
«So, cosa? Del litigio tra Sion e Doko?», chiese Mu. «È successo davanti ai miei occhi…»
«Che me ne frega del litigio tra quelle due cariatidi?!», sbottò Marco. «Sto parlando della Domus Aurea! Da quant’è che sai che aprirà una filiale in città?!»
«Da quando si sono presentati alla pro loco e si sono assunti gli oneri di stampa», rispose Mu, con quell’espressione serafica sulle labbra che Marco detestava. «Ma pensavo che lo sapeste.»
«No, non lo sapevamo!»
«Accidenti. Mi spiace che tu l’abbia scoperto così!»
E così dicendo, Mu uscì dall’agenzia e da questa storia, lasciando Marco e Shaina a guardarsi sgomenti.

 
«Pomodori col riso? Con questo caldo?!»
La voce di Marin era sospettosa. Non me la conti giusta, ragazza, questo le stava dicendo tra le righe, offesa che Elena non si fosse confidata con lei. Marin era una cara amica, ma a volte tendeva ad essere un po’ troppo invadente.  Iperprotettiva, semmai, si sarebbe definita Marin, ma il succo del discorso non cambiava. Da quando Andreas le aveva spezzato il cuore, Marin si era preoccupata di fornirle tutte le bende e i cerotti di cui l’amica avesse bisogno. Ed Elena sentiva che Marin non era entusiasta all’idea che il suo piccolo cuore di cristallo andasse in mille pezzi un’altra volta, non dopo tutta la fatica che avevano fatto per assemblare i cocci. C’era voluto tempo, c’era voluto un mare di pazienza, c’era voluta una quantità imbarazzante di fazzoletti e barattoli di gelato.
Non voglio fare un altro giro di giostra, grazie, le stava dicendo Marin, tra le righe. Ed Elena si disse che aveva ragione da vendere, ma che no, non c’era alcun pericolo che la cosa si ripetesse. Marco era un amico. Improbabile, interessato a che il matrimonio di sua cugina filasse liscio, e con due occhi da infarto; ma Elena non si sentiva pronta per un tuffo dove l’acqua è più blu. O indaco. O qualsiasi sfumatura potesse assumere.
«Sì, la nonna di Francesca vuole prepararli per cena.» Stai raccontando una bugia a Marin? «E siccome è una signora anziana, l’ho accompagnata a fare la spesa.»
Non è una bugia.
«Uhm. Stai facendo il facchino, insomma.»
Ah, no? E che cosa sarebbe, allora, di grazia?
«Non sapevo che il mercato fosse così gremito, a quest’ora.»
Un’omissione, semmai.
«Devi vedere cos’è il martedì», rispose Marin dall’altro capo del filo.
Si pecca in opere e in omissioni.
«Non ho mai amato la ressa», si giustificò Elena.
Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.
«Ancora non mi hai detto come fanno di cognome…»
Eccoci al dunque. Lei aveva abbassato la guardia e Marin ne aveva approfittato per tornare alla carica.
«Che scema! Mi sono dimenticata di controllare sul citofono!»
«Elena… lo sai che nel mio stato non mi posso arrabbiare…»
«Fai bene. Con questo caldo è deleterio per chiunque», tagliò corto Elena. «Adesso devo scappare, il dovere chiama.»
«Ci sentiamo più tardi.» Non era una domanda.
«Okay, ciao!», ed Elena attaccò. Cercò Nonna Agata collo sguardo e la trovò intenta a contrattare sul prezzo dei pomodori. Il fruttivendolo armeggiava con la bilancia, spostando il romano, aggiungendo o togliendo i pomodori che l’anziana signora scovava sul banco. L’uomo sospirò, Elena lo sentì sbuffare fuori un «vabbene» tutto attaccato e il viso di Nonna Agata distendersi in un sorriso rassicurante.
Vorrei avere anch’io la grinta che ha lei, pensò avvicinandosi.
«Fatto?», chiese.
«Sì, cara», cinguettò la donna. «Da Otello trovi solo la qualità. Otè, lei è Elena, un’amica di mia nipote. Trattamela bene, mi raccomando!»
«Sarà fatto», rispose Otello, stritolando la mano di Elena in una presa forte e callosa, che profumava di terra e basilico. «Lo favorite un mazzetto di odori, signò
 

«Sei sicuro?»
«Sì. Quello stronzo di Mu ha detto proprio Domus Aurea. C’è anche il loro logo, in basso, sulla locandina», disse Marco soffiando fuori una boccata rabbiosa di fumo. «Questo cazzo di tempietto stilizzato!»
«Carramba!», e Shura assestò un pugno alla scrivania. «Quelli ci mangeranno vivi. Anzi, no. Ci hanno già mangiato, hanno bevuto l’amaro e si sono concessi anche un bel ruttino.»
Rodrigo era un tipo pratico. Testardo, lavoratore e caparbio. Nel suo vocabolario non esisteva la parola impossibile; tuttavia, alcune volte il suo buonsenso deragliava senza alcuna decenza, per sprofondare in abissi di rara cupezza, sferzati dai marosi più implacabili e inauditi che la mente possa concepire. Non c’era verso di smorzare l’umore nero che l’assaliva in questi casi; Marco sapeva per esperienza che l’unica cosa sensata da fare, in quelle circostanze, era aspettare che passasse da sé e tornasse la bonaccia.
«Abbiamo un’unica possibilità di salvezza. Che Elena decida di vendere. E a noi, non a loro.» Rodrigo digrignò i denti.
«Elena non può vendere a loro», gli ricordò Marco. «Abbiamo noi il mandato, ricordi? Anche se lei non lo sa.»
Rodrigo fece un gesto con la mano, come a dire «Fa niente», e tornò a fissarsi i piedi, come se sulle sue scarpe vi fosse la soluzione al loro personalissimo casino.
Marco lo lasciò sprofondare ancora un po’, pensando che avrebbe dovuto parlarne con Francesca, quella sera stessa. Se la Domus Aurea apriva i battenti a Cala della Sirena, sua cugina poteva dire addio al suo sogno di creare una società col futuro marito. Ma non poteva parlargliene davanti a lui; non ancora almeno. Ma in che casino mi sono andato a ficcare?, pensò Marco passandosi una mano sul viso. Poi il suo cellulare squillò, riempiendo l’aria delle note del Canone di Pacherbell.
C’era scritto CASA sul display. Marco corrugò le sopracciglia. Che fosse successo qualcosa a sua nonna? «Pronto?»
«Marco, sono io. Elena.»
Persona trista, nominata e vista. «Oh, Elena. Che piacere! Tutto bene? Scusami, ma adesso sono in riunione…»
«Ah.» La sentì tentennare dall’altro capo del filo. «Tua nonna mi ha chiesto di sentire dove fossi. Sta per buttare la pasta…»
«Accidenti!» Marco trattenne un’imprecazione tra i denti. Di mangiare non se ne parlava proprio, non quando una cosa viscida e dello stesso peso specifico del piombo s’era sostituita al suo stomaco. «Scusatemi, ma non torno a pranzo. Abbiamo avuto un imprevisto e m’è passato di mente di avvisare!»
«Ah.» Delusa, colombella? «Va bene. Avviso io tua nonna. Tu non ti preoccupare.»
«Grazie.»
«Figurati. Se posso fare qualcosa, non hai che da dirmelo.»
Vendimi quella cazzo di casa e quella cazzo di bottega, maledizione!, pensò Marco. Fu sul punto di sbottare e rispondere ad Elena raccontandole la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità, ma poi qualcosa - un'intuizione, un santo volante o chissà cos'altro - lo convinse a mordersi lingua, prendere un respiro profondo e dire: «Lo apprezzo molto, Elena. Davvero.».
«Figurati.» Pausa. «Sì, adesso glielo chiedo. Tua nonna vuole sapere se torni a cena.»
«Penso di sì», disse Marco. «Spero di risolvere questa grana il prima possibile. E adesso, devo proprio andare.»
Non attese una sua risposta. Riattaccò, abbandonò il cellulare sulla scrivania e lanciò uno sguardo a Rodrigo.
«Sai che dobbiamo dare un’accelerata al piano?»
«Sì. E so anche come.»


Note:
Pensavate fossi evaporata, vero?
E invece, no, eccomi qua ad ammorbarvi con un altro capitolo delle avventure di questa ciurma di disgraziati.
Buona lettura, e scusate l'attesa, ma, come diceva qualcuno, l'attesa del piacere non è essa stessa il piacere?

   
 
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