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Autore: TwistedDreamer    02/08/2017    0 recensioni
«Cioè, fammi riassumere un attimo la situazione. Il famoso "punto" della questione è che Brian voleva solo scopare e tu ti sei innamorato?»
«Dom, perché nei tuoi riassunti io sembro sempre la ragazzina sedotta e abbandonata?»
«Perché lo sei, Matt!!! Sei una fottuta ragazzina! Come ti salta in mente di innamorarti di Brian Molko? Dopo che lui ti ha chiaramente intimato di non farlo, per di più!»
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Muse, Placebo | Coppie: Brian.M/Matthew.B
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9

Brian si aggira nervosamente nel backstage, aspettando che l’intro che hanno scelto per cominciare i loro concerti estivi gli dia l’attacco giusto per entrare. Dopo la chiacchierata con Matt, dopo aver rievocato quei pensieri tetri e quel periodo orribile della sua vita, salire su un palco davanti a cinquantamila fan – che aspettano i Muse, tra l’altro – è l’ultimo dei suoi desideri, ma gli tocca.
Steve entra in scena e la folla grida un urlo collettivo molto più forte di quanto Brian si aspetterebbe. All’ingresso di Stefan l’urlo sale di livello e quando, finalmente, entra anche lui e va a prendere il suo posto davanti al microfono, i decibel che provengono dal pubblico raggiungono il picco massimo. Brian è sinceramente stupito, ma forse avrebbe dovuto aspettarsi che molti dei suoi fan e di quelli dei Muse coincidessero, anche se, davvero, non è mai riuscito a spiegarselo.
Gli capita raramente di non aver voglia di tenere un concerto e salire sul palco come un automa gli ha sempre dato l’impressione di truffare il pubblico, ma tant’è. Le emozioni non si possono provare a comando e lui in quel momento avrebbe solo voglia di scappare e buttarsi a letto con la testa sotto il cuscino, non di gridare a tutta quella gente la carrellata dei suoi fallimenti che nel tempo ha sfogato nelle canzoni. Ha brevettato un metodo per quando la folla lo mette a disagio, per quando deve inserire il pilota automatico e cantare dalla prima all’ultima canzone senza assecondare i suoi istinti di fuga: trova una persona nel pubblico e ci si concentra, fingendo che non ci sia nessun altro ad ascoltarlo. Il metodo di scelta della persona in questione varia a seconda del luogo e dello stato d’animo. I palchi dei festival generalmente sono abbastanza lontani dal pubblico, creano un’atmosfera meno intima e non gli permettono di vedere bene neanche i visi in prima fila, per cui la ricerca stasera gli offrirà meno scelta, per non parlare del fatto che proprio davanti a lui c’è, appoggiata alla transenna, una bandiera spagnola con scritto “I LOVE MATT BELLAMY” che gli strappa un sorriso amaro.
Poco a destra della bandiera, appena fuori dalla sua portata, c’è una ragazza con i capelli verdi. Non sa se a colpirlo siano i capelli o il modo in cui lo sta guardando – con aria attenta, in attesa, emozionata, ma senza l’espressione adorante e innamorata che non manca mai di metterlo a disagio -, ma decide che è lei: è a lei che canterà questo concerto.

***
 
«Matt, non per metterti fretta, ma sono le tre di notte. Quanto è lontana la fine di questa storia?»
«Vorrei ricordarti che sei stato tu a chiedermi di raccontartela.»
«Ok, va bene, ma arriviamo al dunque, ti prego.»
«Non è che potevo raccontarti solo la fine, non avresti capito!»
«Se lo dici tu… A me sembrava di aver capito già prima di chiederti i dettagli.»

*
 
20 maggio
Kate Hudson si aggirava per l’appartamento di Matt osservando gli arredi con aria curiosa. «Mi piace come hai sistemato qui» disse, indicando una parete occupata da un’enorme libreria. Lui annuì distrattamente, mentre Bing continuava a blaterare qualcosa di poco intelligibile che aveva a che fare con una macchinina rossa e una gialla che si scontravano sulle sue gambe. Angus trotterellava indisturbato in giro per la stanza, annusando allegro tutte quelle cose e persone nuove che avevano invaso i suoi spazi.
«Papi bau!» disse Bing il bambino, accorgendosi finalmente della bestiola che era andata a fermarsi vicino a loro.
«Caro bau!»
«Lo vuoi accarezzare?» gli chiese Matt, rimettendo il bambino a terra, in modo da farlo trovare alla stessa altezza del cane. Angus era sempre stato un esserino affabile e dopo tutte le interazioni con Cody – e dopo tutti i tormenti che Cody gli aveva inferto senza riportare neanche un graffio – Matt si sentiva abbastanza tranquillo da farlo interagire con suo figlio. Infatti il cane reagì alla tirata di orecchie che il bambino gli inferse con una sonora leccata e uno strusciamento della testa sulla mano.
Kate andò a sedersi sul divano accanto a lui.
«Sicuro che non è un problema se restiamo? Ho già prenotato l’albergo.»
«Non dire sciocchezze. Sono contento che siate qui.»
Lo era davvero. Vedere la casa piena, vedere suo figlio aggirarsi tra le sue cose, giocare col cane, chiamarlo da una stanza all’altra era una boccata d’aria fresca.
«Mmh… non vorrei crearti problemi con la tipa che stai frequentando» ammiccò lei, togliendosi le scarpe e incrociando le gambe sul divano.
«La… persona che sto frequentando ha deciso di non arrogarsi il diritto di interferire con la mia vita»
La donna si accigliò. «In che senso?»
«Nel senso che la nostra relazione, se di relazione si può parlare, è di quelle che cominciano e finiscono in camera da letto.»
Kate scoppiò in una sonora risata.
«Certo!» gli disse, sarcastica, «Come se tu fossi in grado di reggere una situazione del genere, Mr. Miaffezionoancheallacartadacucina.»
«Ehi!» protestò Matt, fingendosi oltraggiato, «Quella carta era bellissima e in edizione limitata!»
Scoppiarono a ridere entrambi, di gusto. Era bello riuscire a parlare amichevolmente con lei, riuscire a lasciarsi alle spalle ciò che non aveva funzionato tra di loro per ritrovare il bel rapporto che avevano, l’amicizia che li legava. Non era solo per avere Bing vicino che Matt le aveva proposto di fermarsi da lui per quella decina di giorni che lei avrebbe dovuto passare a Londra per lavoro, gli faceva piacere che anche lei fosse lì, che la casa fosse piena e che si respirasse aria di famiglia.
Non avevano ancora ripreso fiato, che qualcuno bussò alla porta.

 
***
 
Capelli Verdi è una presenza stranamente tranquilla per essere a un festival. Non balla, non salta, sta semplicemente lì a cantare insieme a lui senza sbagliare neanche una sillaba. Non sembra intimorita dall’essere fissata con insistenza da Brian, anzi, ricambia lo sguardo quietamente: nel tempo di una canzone sono riusciti a creare una strana sintonia e ora sono perfettamente a loro agio a fissarsi reciprocamente. Le sorride, riconoscente.
Durante la parte strumentale di Every You Every Me, lui e Stefan hanno l’abitudine di scambiarsi di posto sul palco per un po’, prima di ritornare ai rispettivi microfoni, per andare a far visita all’altra parte di pubblico. Staccarsi dalla sua àncora verde, quella sera, è come uscire da una bolla protettiva ed entrare in un universo caotico, fatto di decine di migliaia di persone che gridano e agitano le braccia verso di lui. Torna a includere nel suo campo visivo quell’”I LOVE MATT BELLAMY” e istintivamente, nel camminare verso la parte sinistra del palco, lancia un’occhiata dietro le quinte.
Avrebbe dovuto immaginare che l’avrebbe trovato lì, seduto esattamente sulla cassa su cui l’aveva lasciato, ma non era pronto a sentirsi il suo sguardo addosso aderirgli come un guanto. Quegli occhi blu lo fissano come se volessero imprimerselo nel cervello, come se non volessero più lasciarlo andar via. Come se lui gli appartenesse. È insostenibile, Brian si sente soffocare, avverte un principio di attacco di panico e si ritrova ad avere nostalgia dello sguardo fermo ed emozionato di Capelli Verdi, che ora si trova dall’altro lato del palco rispetto a lui e non può riportarlo in quell’atmosfera riparata che Brian ha dovuto abbandonare. Per evitare di cedere al panico che lo assale, si concentra sulla musica, le corde della chitarra contro i suoi polpastrelli, il plettro nella mano destra e i tasti che sente con la mano sinistra. Gli accordi che deve suonare scorrono sotto le sue dita come se la mano li eseguisse ormai di sua spontanea volontà, senza bisogno di ordini impartiti dal cervello. La Fender Jaguar rossa tra le sue braccia è, ancora una volta, il salvagente a cui aggrapparsi quando il mondo esterno minaccia di sopraffarlo.
In pochi secondi, la parte strumentale finisce e lui deve tornare al suo microfono per cantare il ritornello finale, finalmente può tornare a concentrarsi su Capelli Verdi e dimenticare gli occhi blu che, adesso lo sa, non lo mollano un attimo, lasciando tra le sue scapole la sensazione di un brivido di allerta che non riesce a mandar via.
Si sistema davanti al microfono e torna a cercare la ragazza con lo sguardo, ma ora, al posto della tranquilla persona che cantava e basta, c’è una furia che balla e si dimena, privandolo di quel contatto visivo che l’aveva tenuto al sicuro per tutta la prima parte del concerto. Non capisce proprio cosa le sia successo rispetto a trenta secondi prima, quando l’ha lasciata, sa solo che quella strana danza lo disturba, non va a tempo e gli lascia una sensazione di disagio. Fa avanti e indietro con tutto il busto, riversa sulla transenna, attirandosi le occhiate infastidite delle persone intorno a lei, ma è quando batte la testa sul ferro davanti a lei e nonostante tutto non accenna a fermarsi che Brian capisce. La canzone è ormai finita e lui rimane congelato sul posto, impietrito, a osservarla senza sapere cosa fare. Non stava ballando: ha le convulsioni.
Si gira verso Stefan con aria allarmata, ma il bassista non capisce, non vede.
Istintivamente, prima che Steve attacchi la canzone successiva, si avvicina al microfono e chiama la sicurezza.

***
 
Cazzo, fu il suo primo pensiero quando vide Brian davanti alla porta, ho dimenticato un appuntamento?
Riuscì a fare mente locale e decise che no, non aveva dimenticato niente, almeno per questo era al sicuro. Brian doveva aver avuto improvvisamente del tempo libero, o qualcosa del genere.
«Matt, chi è?» chiese intanto Kate. Sul viso di Brian si dipinse un’espressione stupita e di allerta.
Ovviamente si era completamente dimenticato di avvertire l’altro dell’arrivo della sua ex. Ben fatto, Bells, si complimentò.
«Vieni, Brian, accomodati» gli disse, facendosi da parte per farlo entrare.
«Non importa, posso ripassare.»
«No, dai, vieni» insistette. Aveva l’impressione che lasciarlo andare via in quel momento, dopo avergli fatto sentire una voce di donna in casa e senza chiarirgli la situazione, non sarebbe stata una mossa vincente.
Riluttantemente, Brian varcò la soglia d’ingresso e lo seguì in soggiorno, dove Kate era ancora seduta sul divano a gambe incrociate e Bing e Angus giocavano sul tappeto. Matt sapeva che l’altro si era irrigidito, che nonostante tutte le belle parole e i buoni propositi, in fondo, era geloso e possessivo e l’arrivo di una ex non poteva che irritarlo a morte, ma sapeva anche che quello sarebbe effettivamente morto prima di darlo a vedere.
«Kate Hudson, questo è Brian Molko, il mio…» si interruppe. Il mio cosa? Panico.
«Vicino di casa» completò Brian per lui, con un sorriso di circostanza.
Sullo sguardo di Kate si dipinse uno sguardo dapprima stupito, poi di comprensione, che sparì immediatamente, mentre si alzava con grazia per venir loro incontro a stringere la mano al nuovo arrivato.
«Però, Matt! Non mi avevi detto che stavi fraternizzando con la concorrenza.»
«Non preoccuparti, non fraternizzerei mai con lui» si intromise Brian, «ero solo venuto a chiedergli una cosa riguardo alla prossima riunione condominiale» improvvisò.
«Oh, capisco». Kate decise di stare al gioco, nonostante quella fosse la scusa più improbabile dell’universo, «Allora, fate pure con comodo, io intanto vado a sistemare la mia roba. Matt, ci hai preparato la stanza degli ospiti, vero?» chiese.
«Sì, certo. La prima porta a sinistra è tutta vostra.»
La donna sparì nel corridoio, lasciando nell’aria una scia di Chanel.
Brian lo guardò inarcando un sopracciglio.
«Scusa, avevo dimenticato di avvisarti!» sussurrò Matt, per evitare di farsi sentire dal figlio, «È in città per degli scatti promozionali e mi ha portato Bing, così ho pensato che sarebbe stato meglio farli alloggiare qui.»
«Tranquillo, Bellamy, non devi giustificarti» fu la serena risposta, «Piuttosto, stai attento! Angus sta per rotolarsi su tuo figlio…» disse accennando ai due con un movimento del capo.
Matt si girò di scatto e, vedendo cane e bambino impegnati in una specie di contorsione generale, decise che per il momento la socializzazione tra i due poteva fermarsi lì. Raggiunse Bing e lo prese in braccio, tornando poi da Brian.
«Volevo presentartelo da tanto,» gli disse, sorridendo, «Brian, questo è Bing. Bing, questo signore è un mio amico. Dici Brian!»
Il piccolo allungò una mano ad afferrare una ciocca di lunghi capelli neri e disse uno stentato: «BAAA-IAAA»
A Brian sfuggì un sorriso intenerito e, accarezzando la testa bionda del bambino, gli disse: «Ciao, piccolo Bellamy.»
Bing emise un risolino e afferrò la mano di Brian con entrambe le sue manine, facendo su e giù e continuando a ripetere canticchiando il suo “BAAA-IAAA”. A vederli insieme, Matt provò un senso di completezza che gli era da tempo sconosciuto e gli sembrò anche che Brian si stesse rilassando. Quando incontrò i suoi occhi, li vide sereni e, per una volta, sinceri. Era incredibile l’effetto che un bambino poteva avere su di lui, quasi non riusciva a capacitarsene. Sorrise.
«Vuoi qualcosa da bere? Una tazza di tè?» gli chiese.
Brian sembrò riscuotersi. Fu questione di un istante, Matt non avrebbe saputo dire se fosse stata colpa del contenuto della frase, dell’attimo di pura sintonia e serenità che avevano condiviso o della sua voce che aveva spezzato l’incantesimo, ma vide qualcosa cambiare negli occhi verdi che lo guardavano, come se si fossero improvvisamente trincerati dietro un enorme portone.
«No…» mormorò, «No, grazie. Ora devo andare.»
Sfilò la mano dalla presa di Bing e fece un passo indietro.
«Ma sei appena arrivato!» protestò Matthew. Com’era possibile passare da un momento di assoluta perfezione a questo gelido dietrofront?
«Sì, ma sembra che oggi l’attività per cui ero passato sia impraticabile» sorrise Brian, la malizia nello sguardo a celare tutto il resto. «Ci sentiamo quando sarai più libero» gli disse, e in un attimo fu sul pianerottolo. La porta si chiuse dietro di lui.

 
*

«Ed è finita lì.»
«Finita cosa?»
«Tutto. È stata l’ultima volta che l’ho visto e che gli ho parlato. Ho provato a chiamarlo il giorno dopo e non mi ha risposto, quando Kate è andata via mi ci sono messo d’impegno: chiamate, messaggi, sono andato persino a casa sua, ma era come se si fosse dileguato nel vuoto.»
«Mmh. Hai provato ad aspettarlo fuori? Prima o poi uscirà di casa!»
«Il portiere mi ha detto che è partito.»
«… cazzo!»
«Ecco.»

 
***
 
L’area del festival adibita al pronto soccorso è in un angolo del backstage ed è costituita da un’anonima tenda bianca. Brian tentenna davanti all’ingresso, ma sa di non avere molto tempo a disposizione prima di essere riconosciuto da qualcuno di passaggio.
Dopo l’arrivo dei soccorsi e dopo che Capelli Verdi è stata portata via, ha dovuto proseguire il suo concerto senza un riparo morale, per di più cosciente dello sguardo di Matthew dietro di lui. Certo, avrebbe potuto trovare il modo di isolarsi di nuovo, ma per qualche strano motivo non aveva avuto voglia di sostituire la ragazza che aveva scelto, gli sembrava di farle un torto a rimpiazzarla solo perché era stata male, quindi si era fatto forza ed era arrivato alla fine del set consapevole di ogni paio di occhi che lo guardavano dal pubblico.
Una volta finito il concerto, si era fiondato in camerino a fare una doccia e cambiarsi prima di avere il tempo di assecondare quella strana voglia di rimanere nel backstage a guardare il concerto dei Muse. Si era abbandonato sotto il getto fresco che lavava via l’umidità e il sudore di quell’estate francese, ripercorrendo mentalmente gli avvenimenti di quella giornata che non sembrava finire mai – né migliorare, peraltro. Il pensiero di Capelli Verdi l’aveva ossessionato per tutto il concerto, forse a causa dell’istinto paterno o per il senso di colpa di aver aspettato troppo prima di chiamare aiuto. Non riusciva ancora a credere di aver pensato che stesse ballando, se avesse riportato danni permanenti non se lo sarebbe mai perdonato e quindi, dopo la doccia, contro ogni prassi del post concerto, aveva afferrato il cellulare e si era diretto all’area pronto soccorso.
Ora è lì davanti alla fessura nella tenda che funge da entrata e deve trovare il coraggio di affrontare le conseguenze della sua idiozia. Un rumore di passi e delle voci in avvicinamento gli fanno rompere ogni indugio e, prima che qualcuno lo veda, si fionda nella tenda.
L’interno è scarno e anonimo quanto l’esterno, c’è una flebile luce al neon in alto, qualche banale attrezzatura – siringhe, cerotti, ghiaccio sintetico… -  su un mobiletto traballante e il resto è nascosto da un séparé che giace nel mezzo della stanza. Brian avanza e lo aggira, per rivelare un lettino e una serie di macchinari dall’aria vagamente più professionale.
Almeno sono elettronici, pensa con un pizzico di sollievo.
Sul letto, attaccata a una flebo e a qualcosa che a lui sembra un elettrocardiogramma, giace scompostamente Capelli Verdi. Ha gli occhi chiusi, ma lui non saprebbe dire se stia dormendo o se sia solo troppo stanca per aprirli. Il fatto che l’abbiano tenuta lì e non l’abbiano trasferita in un ospedale serve a rassicurarlo sulle sue condizioni, ma vorrebbe tanto poter parlare con un’infermiera o con chi l’ha presa in cura. Un mugolio proveniente dalla ragazza lo distoglie ai suoi pensieri e gli fa riportare lo sguardo sul suo viso. Ha la fronte aggrottata in una lieve espressione di disappunto e mugola uno: «Merde.»
Brian, allarmato, le chiede piano, in francese: «Tutto bene? Chiamo qualcuno?»
«No… no…» è la debole risposta.
Segue un silenzio tanto lungo che Brian crede che si sia addormentata, finché la ragazza non mormora: «Tanti anni da fan ed ecco come sono ridotta quando incontro il mio cantante preferito.»
Brian sbuffa una risata, sollevato dal fatto che Capelli Verdi riesca a pronunciare delle frasi di senso compiuto, e si avvicina al letto.
«Posso sedermi?»
Lei annuisce, sempre con gli occhi chiusi, e lui occupa il più piccolo spazio possibile in fondo al letto.
«Allora, ehm…» esordisce Brian, «come ti senti?»
«Non troppo male. Ci sono abituata.»
Lui strabuzza gli occhi.
«Come abituata?»
La ragazza si muove a disagio, come a cercare una posizione più confortevole e poi sputa fuori: «Epilessia fotosensibile.»
«… cazzo!»
Brian conta fino a dieci prima di chiederle che cazzo ci faccia una ragazza che soffre di epilessia fotosensibile ad un festival rock - considerato che i cartelli che avvertono della potenziale dannosità delle luci sono ovunque - solo perché deve ricordarsi che lui non è nessuno per giudicare le scelte di quella ragazzina sconosciuta. Però, che cazzo!!!
«Come ti salta in mente di venire a un concerto?»
No, non è riuscito a reprimere del tutto il rimprovero nella sua voce e alla fine, se nessuno ha mai detto a Capelli Verdi che deve stare un po’ più attenta alla sua vita, è bene che glielo faccia presente lui. In qualità di “cantante preferito” dovrà pur avere una qualche influenza.
Lei apre gli occhi e posa su di lui uno sguardo fin troppo consapevole.
«La musica è l’unica cosa che mi fa andare avanti nella vita.»
«Sì, ma avresti potuto morire. O peggio…» obietta.
«Non si può rinunciare a vivere perché si ha paura di morire» è la lapidaria risposta che lo colpisce come un pugno nello stomaco. Brian non ha il tempo di assimilare quel concetto, che la ragazza riprende a parlare con voce flebile, probabilmente usando tutte le forze che le sono rimaste.
«Ascolto la vostra musica da anni, la tua voce è con me ogni giorno. Ho sempre desiderato venire a un vostro concerto, ma i miei mi stanno addosso a causa dell’epilessia e non mi farebbero mai viaggiare da sola per andare ai concerti. Quando hanno aggiunto il vostro nome al programma del festival che si tiene a tre chilometri da casa mia non potevo farmi sfuggire l’occasione… anche se, alla fine, me la sono fatta sfuggire lo stesso.» termina il discorso con una nota di rabbia nella voce. Brian si sente travolgere da un’ondata di tristezza per il sogno infranto di quella ragazza, per la lezione di vita che lei gli sta regalando nel peggiore dei modi, per quanto le sue parole da quattro soldi devono aver inciso nella sua vita, tanto da farle rischiare grosso pur di assistere a un suo concerto.
«Mi sbaglierò,» riprende lei, «ma non mi sembravi particolarmente in forma, stasera.»
Non solo questa ragazza ha rischiato letteralmente la vita per venire a un concerto che poi le è stato negato a metà, ma ha avuto anche la sfortuna di beccarlo in una delle serate peggiori della sua vita.
«Non sbagli: dire che ho avuto una giornata di merda è poco, anche se forse, paragonata alla tua, non fa così schifo.»
«Non è stata così male. Ho avuto mezzo concerto dei Placebo e una visita da Brian Molko… poteva andare peggio!» scherza lei.
Brian sorride. Non capisce come sia possibile, ma quella ragazza, attaccata alle macchine e distesa scompostamente su un tristissimo lettino, gli dimostra una voglia di vivere e una serenità che lui con tutte le sue accortezze e meditazioni non è mai riuscito a trovare.
Non da solo, per lo meno, è il perfido promemoria di una vocina nella sua testa.
È vero, ammette, ci sono stati momenti nel suo recente passato, particolari momenti in compagnia di Matthew, che gli hanno fatto vedere dei piccoli barlumi di speranza. Certo, prima che ricordasse a se stesso chi effettivamente fosse Matt Bellamy e che, rockstar o non rockstar, sarebbe stato meglio per tutti se la loro relazione fosse rimasta relegata alle lenzuola. Il peso di quella scelta, presa anni fa, lo schiaccia come non mai in quel momento. Non sa perché, ma parlare con quella ragazzina gli sta rendendo tutto più difficile.
Non si può rinunciare a vivere perché si ha paura di morire.
«Quindi anche i cantanti hanno giornate di merda.»
«Più spesso di quanto credi.»
«Ti dispiace se ne godo un po’? Almeno so di non essere la sola.»
«Tutti hanno dei problemi. Il fatto che io sia bello, ricco e famoso non mi grazia.»
«Ah-ah.»
«Chi c’è qua dentro?» irrompe una voce agitata, scostando il séparé. Brian si volta e vede un donnone in un camice da infermiera. Alta il doppio di lui e larga altrettanto, sfoggia un caschetto biondo, un rossetto rosso e un’espressione oltraggiata, come se l’avesse sorpreso a commettere atti di vandalismo.
«Chi è lei? Come si permette di disturbare questa ragazza?»
Chi è lei, Brian sghignazza internamente.
«Scusi, sono quello che ha chiamato i soccorsi, volevo accertarmi che stesse bene.»
«Può essere anche il papa, ma lei non può stare qui.» è la secca risposta, «La ragazza deve riposare e tra poco sarà trasferita in ospedale. La prego di andare via.» il suo tono è di quelli che non ammettono repliche e, onestamente, Brian non se la sente proprio di discutere con un tipo del genere.
«Vado via subito.» la rassicurò, «Ha un foglio e una penna?»
L’infermiera si allontana di qualche passo per prendergli quello che lui ha chiesto e glieli porge. Brian scarabocchia sul pezzo di carta un numero di telefono e lo passa alla ragazza: «Questo è il numero di Alex, la mia manager. Quando ti sarai ripresa, chiamala e ti farà avere un posto nel backstage per un concerto che vorrai.»
Capelli Verdi sgrana gli occhi, senza parole.
«Non fare quella faccia,» si schermisce lui, «ti devo un concerto. E speriamo che da dietro il palco le luci non ti diano fastidio.»
Il sorriso che accompagna il suo “Grazie!” vale ad accendere una scintilla di calore nel suo petto, poterla ricompensare per quel fallimento di serata è una piccola cosa che serve a migliorargli l’umore. È quasi all’uscita della tenda, quando si rende conto di un piccolo particolare.
«Non mi hai detto come ti chiami!» le dice d’istinto, voltandosi.
«Saphire.»
«Ciao, Saphire. E stai attenta!»
«Ciao, Brian. Spero che la tua giornata migliori.»
Appena fuori dalla tenda, con la coda dell’occhio percepisce un’ombra poco distante. Sussulta spaventato, il cuore a mille, finché l’ombra non entra nel cono di luce che proviene da quell’improvvisato pronto soccorso.
«Cazzo, Bellamy!» sfiata, portandosi una mano sul cuore a cercare di fermare dei battiti che, invece di rallentare, stanno accelerando. «Tu mi vuoi morto! Che cazzo ci fai qui?»
«Ti cercavo.» dice col tono di un’ovvietà, come se la rabbia dei giorni precedenti e il discorso di qualche ora prima fossero stati cancellati dalla sua memoria.
«Ma non hai un concerto?» chiede astioso, incamminandosi verso la roulotte. Matt lo segue.
«Ho appena finito. Ti avevo visto particolarmente scosso da quello che era successo durante il vostro set e sono venuto a cercarti in camerino appena ho potuto. Non trovandoti, ho fatto due più due e sono venuto qui.»
Brian non dice più niente. Vorrebbe cacciarlo, ma non ne ha il coraggio: le parole di Saphire gli riecheggiano in testa come un mantra. Non si può rinunciare a vivere perché si ha paura di morire. Ha ragione, non c’è dubbio. Ma se la posta in gioco non fosse solo la morte? Se lui rischiasse la sua salute, la sua sanità mentale, suo figlio?
«Allora, come sta?» Matt lo distoglie dai quei pensieri.
«Bene. Le è andata di lusso. Avrebbe potuto riportare seri danni al cervello.» il solo pensiero gli fa mancare il fiato. La verità è che ancora non riesce a credere che una persona possa rischiare tanto pur di sentirlo cantare, anche se sotto sotto sa che la questione è molto più profonda: è il principio di non lasciarsi schiacciare dal destino, è la lotta quotidiana per vivere, per non lasciarsi andare al corso degli eventi, per avere voce in capitolo.
Sono arrivati davanti alla porta del camerino di Brian.
Matt commenta: «Cazzo!», mentre entrambi si fermano.
«Sì. Pensa che ha corso il rischio coscientemente.»
«Cosa?» esclama l’altro.
«Dice che non si può rinunciare a vivere per paura di morire.» Brian lo dice facendo spallucce, fingendo che il concetto non abbia niente a che fare con loro due, ma sa che Matt non crederà neanche per un secondo al suo atteggiamento distaccato.
«Oh, oh! Abbiamo ricevuto una lezione di vita da una ragazzina.»
«Qualcosa del genere, sì.» risponde, aprendo la porta. Sale gli scalini che lo separano dall’ingresso e improvvisamente si sente spingere dentro. Matt lo fa girare, lo preme contro il muro e gli si avvicina pericolosamente, gli occhi negli occhi, le loro labbra separate solo da un respiro.
«Vivi, Brian. Cazzo, vivi! Com’è possibile che una bambina sia più saggia di te?»
Brian volta la testa per sottrarsi a quel contatto, per evitare di respirare l’aria di Matthew, per cercare un po’ di lucidità alla fine di una giornata che non ha fatto altro che scuoterlo ripetutamente.
«Ti prego...» lo implora con un filo di voce.
«Non hai neanche la forza di guardarmi negli occhi.» mormora Matt, allentando leggermente la presa sulle sue braccia.
Brian pensa a Saphire, all’ago nel suo braccio, allo schermo dell’elettrocardiogramma e a quello che gli ha detto. Fa appello a tutte le sue forze per tornare a guardarlo negli occhi, ma non riesce a trovare le parole per mandarlo via. Non riesce a trovare una ragione sensata per mandarlo via.
E quindi decide che, forse, è il caso di migliorare quella giornata.

 
  
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