Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Minori Kuscieda    08/08/2017    0 recensioni
[Dal Testo]
"Perché non apri gli occhi, Bert?
Hai paura, forse?
Dove sono coraggio e sicurezza che avevi fino a poco fa? Ti hanno abbandonato nello stesso momento in cui ti hanno tirato via da quell’involucro di carne, muscoli e calore.
Sei tornato ad essere la persona insicura e timorosa di sempre, un metro e novantadue di nullità, dubbi e insicurezza.
O meglio, quello che resta dei centonovantadue centimetri.
Ti senti molto più leggero, ti manca qualcosa e lo sai."
Goodbye, my hero.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Berthold Huber
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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AUTORE: Minori Kuscieda
LUNGHEZZA: Oneshot (1260 parole)
PERSONAGGI: Berthold Hoover
CAPITOLI MANGA: 83/84
RATING: Verde
GENERE: Introspettivo; Malinconico; Triste
 
 
Papaveri
(Goodbye, my hero. 08/08/2016 – 08/08/2017)
 
 
“Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.”
[F. De Andrè – La Guerra di Piero]
 
 
Con gli occhi chiusi senti l’odore pungente e forte del sangue.
Probabilmente, il tuo sangue.
Poi alle narici arriva un odore diverso, di fiori.
Come possono esserci fiori in un posto del genere?
E’ tutto distrutto, bruciato, è impossibile che una cosa delicata e debole come un fiore sia sopravvissuta ad un disastro simile.
Sto impazzendo, pensi.
Lo dici a te stesso forse per autoconvincerti che questo è un incubo frutto della tua immaginazione. Uno scherzo, ecco cos’è.
Senti accanto a te persone parlare, ma non capisci di cosa. E nemmeno ti interessa.
Sai bene che questo è un sogno e domani svegliandoti non ricorderai più nulla.
Come ogni volta.
Incubi su incubi, sangue, dolore, le urla delle persone uccise che rimbombano nella tua mente. Come se decine di persone dalla pelle fredda si stiano aggrappando a te, chiedendoti il perché di tutto quello, il letto si fa improvvisamente troppo stretto, ti muovi, di qua e di là, sudi, vuoi svegliarti ma non ci riesci. I sensi di colpa ti tengono legato, attanagliato al mondo onirico.
Ti svegliavi quasi sempre di soprassalto la mattina, madido di sudore, il colletto della maglia bagnato.
Sospiravi. Speravi che nessuno ti facesse domande.
Ti chiedevi quando tutto quello sarebbe finito.
Ora hai la risposta Bert. Apri gli occhi e guarda: la fine di questa storia è davanti a te.
Anzi, per loro, la fine di questo incubo è la tua morte.
Illusi, pensi, con un piccolo sorriso.
Nonostante i 60 metri, il Gigante Colossale non è il problema più grande.
Dovranno scoprirlo, prima o poi.
Il profumo di fiori ti solletica di nuovo il naso.
Perché non apri gli occhi, Bert?
Hai paura, forse?
Dove sono coraggio e sicurezza che avevi fino a poco fa? Ti hanno abbandonato nello stesso momento in cui ti hanno tirato via da quell’involucro di carne, muscoli e calore.
Sei tornato ad essere la persona insicura e timorosa di sempre, un metro e novantadue di nullità, dubbi e insicurezza.
O meglio, quello che resta dei centonovantadue centimetri.
Ti senti molto più leggero, ti manca qualcosa e lo sai.
Ed è per questo che non vuoi aprire gli occhi: non vuoi guardare la situazione in cui sei. Inerme, incapace di muoverti, puoi solo respirare, sentire i battiti del tuo cuore e aspettare la tua fine.
Nella tua breve vita, c’è qualcosa per cui vai fiero? Per cosa verrai ricordato? Ma soprattutto, da chi verrai ricordato?
Tua madre e tuo padre si ricorderanno di te? Piangeranno quando sapranno che non tornerai più a casa? Quando sapranno che nessuno ti ha salvato ma che, soprattutto, non sei riuscito a salvarti da solo?
I tuoi compagni si ricorderanno di te? Chissà cosa penseranno quando scopriranno che ti sei fatto sconfiggere da una subdola e fin troppo furba trovata.
Chissà se qualcuno sapeva già come sarebbe finita, quale sarebbe stata la tua sorte.
Come l’avevi immaginata tu?
Ma che importanza ha, ti dici.
Era già stato tutto deciso, il destino era già scritto per te quando quell’ago ti ha attraversato la pelle per poi raggiungere la vena, quando lo stantuffo spingeva il liquido che andava a mescolarsi al sangue. Ed è lì che il fato che ti era stato riservato si è attaccato a te senza lasciarti mai, mentre gli occhi si appannavano, la vista si faceva offuscata e tutto diventava piccolo, molto piccolo, visto da quei due occhi un po’ troppo in alto per appartenere ad un bambino.
Eravate piccoli ma su di voi pesava qualcosa di davvero troppo grande per essere sopportato senza crollare.
Tutto quello che vi dicevano e che ascoltavate annuendo, alla vostra età risultava ancora incomprensibile.
E anche adesso, e un po’ ti reputi stupido per questo, ammetti di far fatica a capire tutte quelle parole, quelle frasi complicate.
Di quei tredici anni di vita che ti erano rimasti ne hai vissuti ancora meno.
Di cosa ti penti, ora, in punto di morte?
Di non aver mai creduto in te stesso? Di non aver mai dato agli altri motivi per cui potessero essere fieri di te?
Della tua vita forse non cambieresti nulla, di te, molto probabilmente, qualcosa…
Quando rinascerai, in un’altra vita, potresti essere diverso.
Ma se rimani con i piedi a terra sai bene che ora non puoi più fare nulla, non puoi più tornare indietro.
Non ci saranno medaglie, non ci saranno applausi, non ci saranno ringraziamenti e nemmeno i sorrisi dei tuoi compatrioti.
Non ci saranno fiori perché non ci sarà nessuna lapide su cui portarli.
Ma ti penti di qualcosa, ora, ad occhi chiusi, e ci pensi. A quella frase sul tetto, “non mi importa”, hai detto.
Che bugiardo, ti accusi.
Per trovare il coraggio hai mentito a te stesso. Con le tue parole l’avresti offesa, se solo lei fosse stata vicino a te… Ma non c’era, e non ci sarà più il momento in cui l’avrai vicina. Perché tu non ci sarai più. Ti auguri che almeno lei continui a vivere il tempo che le resta a testa alta, come ha sempre fatto. Un po’ avresti voluto essere come lei, vero?
Così avresti dimostrato anche a lui di essere capace di prendere in mano le situazioni, di scegliere per te stesso, di avere coraggio. Avresti preferito andartene dopo avergli dimostrato di cosa sei capace quando tiri fuori il meglio di te, a lui, la persona più importante che non rivedrai più e che stai lasciando sola. Vi eravate detti che sareste morti insieme, tu e lui, avreste vissuto in compagnia l’uno dell’altro fino all’ultimo giorno della vostra bizzarra –non triste, solo bizzarra- vita. Morire con il sorriso solo perché eravate insieme.
Reiner, Annie, perdonatemi, sussurri piano.
Quando di nuovo senti odore di fiori trovi, non sai dove, l’ultima briciola di coraggio per aprire gli occhi. Li schiudi piano, per prepararti allo scenario che ti aspetta.
Nonostante tu sappia già cosa ti attende trattieni a stento la sensazione e il bisogno di vomitare. Il gesto istintivo è quello di portarsi la mano sulla bocca ma sai che stavolta niente si poggerà sulle tue labbra. Vorresti che l’anima ti abbandonasse in questo momento, è inutile soffrire così.
Per la prima volta ti attraversa il pensiero di essere tu a meritare tutto questo dolore.
Nell’esatto momento in cui formuli questo pensiero vedi, con la coda dell’occhio, poco distante dalla tua testa un fiore, rosso, come il sangue, muoversi a ritmo del vento che soffia.
Lo riconosci: è un papavero, sopravvissuto alla distruzione, germogliato in quel ciuffo d’erba che cresce sul tetto. Qualche brezza avrà portato lì i semi e uno di loro, nonostante l’ostilità del luogo, è riuscito a sbocciare.
E’ legato alla sua terra, come tu sei legato alla tua patria, quella in cui speravi di fare ritorno, prima o poi.
E’ legato alle sue radici, come tu sei legato al tuo destino.
E adesso l’accetti, senza fiatare, senza batter ciglio, la fine che ti spetta.
Senti il vento sempre più forte solleticarti le guance, il corpo sotto i vestiti, scompigliarti i capelli.
Sotto il tuo sguardo il fiore si stacca, viene portato via, lontano dal posto che fino a poco prima gli aveva dato nutrimento e salvezza.
Con la testa poggiata sul legno chiudi di nuovo gli occhi.
Vedi te stesso nel nulla, l’oblio, un grande buco nero vuoto.
Vuoi immaginare che quel luogo senza spazio né tempo abbia l’odore dei papaveri.
Senti le forze abbandonarti, sorridi amareggiato, sconfitto.
Lasci che le lacrime ti solchino le guance.
Chissà quanto tempo ci metterà quel fiore ad appassire…
Chissà quanto tempo ci metterai tu a morire.
 
-Due due (forse) parole sui Papaveri-
Il Papavero Rosso è il simbolo dell’oblio, del sonno dei sensi e del cuore. Già nell’antichità rappresentava il sonno e non a caso Morfeo veniva raffigurato con un mazzo di papaveri tra le braccia.
I papaveri, nel mondo anglosassone, sono tradizionalmente dedicati alla memoria delle vittime sui campi di battaglia della prima e della seconda guerra mondiale.
Ma già in precedenza si narra che Gengis Khan, l'imperatore e condottiero mongolo, portasse sempre con sé dei semi di papavero che spargeva sui campi di battaglia dopo le sue vittorie, in ricordo e rispetto di coloro che vi erano caduti con onore.
A questo si ispirò, appunto, il cantautore Fabrizio De André per i versi della sua notissima canzone "La guerra di Piero".
 
Angolo Autrice
Ciao a tutti! Tornare qui dopo una settimana è una specie di record x3
Aveva pronta questa storia da un bel po’ ma non sapevo bene quando pubblicarla… Così ho aspettato questo anniversario. (Per me oggi è lutto cittadino del Fandom, eh, sappiatelo.)
Che dire, ho letto il capitolo 84 pochi mesi fa e non mi sono ripresa nemmeno un po’… E, diciamoci la verità, come ci si riprende? Per me è impossibile.
Non so se sia uscito proprio l’otto agosto ma siccome sul Calendar Wiki di Attack On Titan questo è il giorno indicato l’ho pubblicata oggi.
Davvero, non so più che dire, anche perché non voglio dilungarmi come mio solito.
Ho cercato di mantenermi il più possibile IC e spero di esserci riuscita.
Ringrazio chi leggerà la storia e chiunque vorrà lasciare un suo piccolo pensiero in merito.
Spero vi piaccia, alla prossima, Mino-chan :3
  
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