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Autore: Wawes    10/08/2017    3 recensioni
I suoi ricci erano spettinati, gli occhi contornati da occhiaie viola. Un lembo della camicia gli fuoriusciva dai pantaloni. Trascurato, era questa la parola per descriverlo ma non fu la prima che le venne in mente. Pensò invece che la sua voce non rendeva giustizia nemmeno ai suoi occhi. Era come musica.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Irene Adler, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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«No, non Bach. Chiaramente non hai capito. Suona te».
Sherlock fissò Eurus.

«Me?»
«Te».
Sherlock capì. Cominciò a suonare, gli occhi puntati sul violino.
«Oh» disse Eurus, maliziosa. «Hai fatto sesso?».
Sherlock guardò sua sorella, colpito.

 

***

 

«Non dovresti essere qui».
Non era nemmeno entrata nella stanza. Neppure la punta delle sue scarpe laccate di rosso si trovava sul palchetto di legno del salotto. Era ancora sull’uscio, appena prima della porta, sospesa.
Lui era in piedi al centro della stanza, di spalle, immobile. Si chiese se la stava aspettando. Un forte odore di tabacco le pungeva le narici.
«Come fai?» sussurrò lei, a bassa voce, appoggiando una mano sullo stipite della porta.
«Il tuo profumo» rispose lui, secco. Poi si voltò.
Quello che lei sentì le ricordò la sensazione che aveva provato, molti anni prima, facendo paracadutismo. Cadere senza alcun pensiero riguardo all’atterraggio, il cuore in gola, le mani a cercare di stringere aria, il ricordarsi che non fornisce appigli.
«Salve, Miss Adler» disse Sherlock Holmes, guardandola negli occhi.
I suoi ricci erano spettinati, gli occhi contornati da occhiaie viola. Un lembo della camicia gli fuoriusciva dai pantaloni. Trascurato, era questa la parola per descriverlo ma non fu la prima che le venne in mente. Pensò invece che la sua voce non rendeva giustizia nemmeno ai suoi occhi. Era come musica.
«Ciao, Sherlock» rispose. Entrò nella stanza piano, un passo dietro l’altro, senza perderlo mai di vista.
«Non dovresti essere qui» ripeté lui.  
Irene sospirò.
«Lo so».
Era tornata a Londra per qualche giorno, per affari che non si potevano raccontare a nessuno, e non aveva resistito. D’altronde come avrebbe potuto?
Si avvicinò lentamente, fino quasi a fronteggiarlo. Il profilo spigoloso di Sherlock era pallido.
«Starò pochissimo» aggiunse.
Lui la guardò per qualche istante, poi i suoi occhi verdi rotearono. Per qualche lunghissimo secondo tutto restò immobile nel silenzio della stanza, poi Sherlock cadde all’indietro, finendo coricato a terra.
Irene Adler si era immaginata di tutto: non trovarlo in casa oppure trovarlo e non essere minimamente calcolata; scoprirlo in compagnia di Watson e perdere il privilegio di godere della sua presenza da sola; addirittura, e questo l’aveva sentito in certi punti del suo corpo, la vaga aspettativa di poterlo finalmente avere. Se immaginava il suo corpo nudo avvertiva parti di sé infiammarsi: non c’era nulla che desiderava più di quelle mani e quegli zigomi, quella voce nelle sue orecchie e quei ricci scuri a solleticarle le guance. Lo voleva così tanto perché era l’unico uomo al mondo a non averla chiesta, aveva concluso in mesi di riflessioni. Ammettere invece che in realtà le faceva male lo stomaco al solo pensiero della sua figura era un’ipotesi scartata fin dal principio. Il prezzo di quell’ammissione era folle, i debiti che l’avrebbero perseguitata insostenibili.
Per l’occasione aveva comprato un vestito in una boutique a Kensington, appena due ore prima. Si era tolta la veste da viaggio e l’aveva abbandonata nel camerino per indossare un abito nero. Aveva speso 250 sterline per arrivare da lui con qualcosa addosso che non avesse storia. Desiderava che lui la guardasse senza leggerla, voleva che lui la analizzasse per ricordarla meglio e non per ricostruire le sue ultime ore.
Aveva preso il taxi e buttato la ricevuta perché non capisse come fosse arrivata; si era ripulita le scarpe sulla porta, eliminando qualsiasi traccia di polvere; aveva strofinato le mani in una salvietta per eliminare l’odore della tazza di caffè che aveva stretto poche ore prima. Si aspettava di essere accolta in una varietà di modi che spaziavano dal felice all’arrabbiato all’indifferente, e aveva già fatto i conti con ognuna di esse, decidendo che l’avrebbe accettata a prescindere.
Per cui, con tutta questa panoramica di possibilità e aspettative, Irene Adler spalancò gli occhi quando Sherlock Holmes le svenne davanti. Lo guardò dall’alto: il detective era a terra, la bocca semi aperta e le palpebre socchiuse a mostrare la sclera arrossata, segno che non dormiva da probabilmente giorni.
Assolutamente impreparata si abbassò, chiedendosi che cosa si faceva in questi casi. Gli schiaffeggiò delicatamente le guance e gli tastò la fronte per carpirne la temperatura. La sua pelle diafana era fredda e umida di sudore. Fece scivolare una mano sotto i bottoni della camicia bianca, cercando di sentire il battito del cuore. Irregolare. Si ritrovò a sorridere nello scoprire che anche lui ne possedeva uno.
«Sherlock! Sherlock!» lo chiamò dopo qualche istante, impaziente. «Sherlock!».
Ci volle ancora qualche secondo perché l’uomo sbattesse le palpebre. Irene osservò gli occhi di Sherlock passare dall’incoscienza alla consapevolezza, nel metterla a fuoco. Alzò una mano a mezz’aria, spalancandola come a voler afferrare qualcosa.
«Stai bene?» sussurrò Irene, osservandogli le dita affusolate, chiedendosi se avrebbe dovuto stringerle.
Sherlock fece leva sui gomiti, sollevandosi appena. Irene si sedette sul pavimento polveroso, scoprendo che non gliene poteva importare meno di sporcarsi l’abito nuovo. Lo guardò ancora, confusa.
«Perché sei svenuto?» chiese.
Non ci fu bisogno che rispondesse. Come chiamata da una forza superiore, Irene alzò gli occhi. Sul tavolino accanto alla poltrona c’era, su un piattino d’argento, una siringa, un cucchiaio e un laccio; si scoprì sorpresa. Sherlock Holmes non le sembrava un personaggio incline a scendere a patti coi vizi umani. Eccetto per le sigarette, ma sapeva che utilizzava cerotti al tabacco per sfuggire alla dipendenza.
Con tutta la delicatezza di cui era capace gli aprì il bottone della manica destra della camicia e, impressionata del suo non opporre resistenza, gli arrotolò la manica, scoprendo una piccola macchia rossa in prossimità della vena a sporcargli la pelle candida, vicina ad altri puntini più scuri, già rimarginati.
Lo guardò di nuovo, stupita, e si stupì ancora di più quando lesse nei suoi occhi la colpa dell’ammissione.
Fu in quell’istante che Irene Adler capì due cose. La prima era che qualcosa di orribile doveva essere successo: la stanza disordinata, Sherlock Holmes ridotto ad un’ombra e nulla che rimandava a un recente passaggio di John Watson.
La seconda cosa che Irene Adler capì fu che la folle caduta che le era parso di fare, appena entrata nella stanza, era finita. Era atterrata. Lo guardò ancora, e scoprì di essersi fatta male. Si avvicinò di qualche centimetro, e seppe, con assoluta certezza, che non avrebbe mai fatto parte dei suoi buchi, esterni ed interni.
Allora abbassò il volto e posò le labbra sul suo braccio, schiudendole come se fosse pronta a bere. Baciò le sue ferite a lungo, felice che lui, immobile, non la stesse mandando via. Con una leggera pressione sul suo petto lo fece appoggiare nuovamente a terra, poi con il naso seguì il profilo prima del braccio e poi delle sue spalle, desiderando che la camicia non ci fosse solo per scoprirgli l’esatta angolazione della clavicola. Con le dita gli aprì il primo bottone, poi il secondo e poi il terzo, mentre il respiro di Sherlock era sempre più rado, come in attesa di qualcosa, forse della fine.
Quando il petto dell’uomo fu nudo, Irene Adler lo guardò negli occhi. Si chiese come fosse possibile che quel colore che aveva nelle iridi fosse reale, si domandò quale pittore gli aveva dipinto le labbra e con malizia avesse scelto proprio quella forma. Incurvò appena la testa.
«Posso?» chiese, a bassa voce.
Sherlock non disse nulla, limitandosi a guardarla. Irene lo prese per un sì.
Lo baciò, scoprendo che era anche meglio di come immaginava. Sherlock Holmes odorava di tabacco e colonia e aveva le labbra secche. Con le mani gli carezzò le guance e i capelli, col corpo cercò di memorizzare la sensazione che stava provando, certa che non l’avrebbe risentita mai più.
A un certo punto avvertì le dita dell’uomo salire sulla sua schiena fino a raggiungere la cerniera. La spogliò piano, attento a respirare lentamente, non smettendo nemmeno per un istante di guardarla. Quando Irene fu nuda lui le sondò il corpo con gli occhi, riconoscendolo.
Fecero l’amore in silenzio sul pavimento del salotto del 221b di Baker Street.
Irene gli accarezzò le braccia e la schiena, guardando quegli occhi e accettando ogni colpo che lui assestava; si impegnò al massimo nel memorizzare il più possibile dettagli del suo corpo; lo strinse forte per rendere quel momento più reale, calcando con le unghie, sperando di lasciargli i segni per farsi ricordare. A un certo punto, da sopra di lei, lui la guardò negli occhi con un’intensità che la fece tremare. Inclinò appena la testa di lato, schiudendo le labbra e Irene capì che la stava implorando. Si distese a terra, stringendo i pugni. Sherlock fu rapido, veloce, disperato; raggiunse il suo culmine stringendole forte i fianchi, sfiancato dall’intensità degli ultimi minuti in cui, ne era certa, aveva riversato tutto il suo dolore nello sforzo di possederla.
Coricata sul palchetto, nuda, Irene sorrise.
«Lo volevi anche tu» sussurrò.
Sherlock si voltò a guardarla.
«Ti conviene andare» rispose, afferrando la camicia riversa sul pavimento.
Aveva ragione. Irene Adler si rivestì in silenzio, partendo dalla calze a rete fino ad arrivare ai capelli, che raccolse in uno chignon. Sherlock era seduto sulla sua poltrona, con la camicia aperta e i pantaloni a fasciargli i fianchi: la stava fissando.
«Qualsiasi cosa ti sia successa -».
Sherlock la interruppe bruscamente, sollevando la mano sinistra a mezz’aria.
«Tu non ne fai parte. Penso che il tuo taxi sia appena arrivato».
Irene lanciò un occhiata fuori dalla finestra. Una luce che arrivava dal basso sembrava indicare la presenza di fari. Sospirò. Anche in questo, Sherlock Holmes aveva ragione: non ne faceva parte. Si domandò, distrattamente, perché si sentisse triste. Aveva avuto quello che voleva: lui. Eppure non bastava.
«Ho fatto il mio lavoro, quindi prego».
Sherlock socchiuse gli occhi.
«Scusa?» chiese.
Irene sorrise.
«Questa volta, sei tu che mi hai implorato»
«Non penso proprio»
«Io credo di sì».
Afferrò la pochette color rubino e si voltò verso l’uscita, scegliendo volontariamente di non guardarlo.
«Per quando vorrai di nuovo essere trovato, conosci il mio numero. Arrivederci, Sherlock Holmes».
Uscì dalla porta senza aspettare una risposta che, ne era certa, non sarebbe arrivata.
 

***

 

Il cellulare si illuminò nella penombra della notte. Si girò su se stessa, impigliandosi nelle lenzuola fresche. Allungò la mano e afferrò il cellulare, appoggiato sul comodino.
Il messaggio appena arrivato era di un uomo conosciuto la settimana prima durante una mostra; le stava chiedendo di raggiungerla. La donna bloccò il cellulare e lo riappoggiò sul tavolino di legno. Era tarda notte e probabilmente in un altro momento sarebbe andata, ma ora non ne aveva alcuna voglia. Si voltò nuovamente su se stessa, seguendo con gli occhi le increspature della luce della luna sulla parete. Pensò distrattamente al fatto che non aveva abbassato le tende, cosciente che la mattina dopo si sarebbe svegliata presto, illuminata dal sole freddo che sporcava l’acqua dell’oceano Atlantico. Poco importava, non aveva voglia di alzarsi neppure per fare quel semplice movimento.
Continuò a fissare il riflesso della luna, sbattendo le palpebre sempre più debolmente, vicina al sonno. Un fascio di luce artificiale illuminò la stanza quando ormai era quasi tra le braccia di Morfeo.
Si voltò di nuovo, chiedendosi quanto doveva essere forte la voglia di vederla di quell’uomo.
Sbloccò il cellulare e non appena lo fece sentì tutta la stanchezza abbandonarla. Improvvisamente vigile e attenta, lesse il messaggio impresso sullo schermo.
Sai dove trovarmi - SH.
Si guardò la mano che stringeva il telefonino. Stava tremando. Irene Adler sorrise.

 

 

 

 

 

 

 

Ci ho provato anche io, dopo una totale esposizione alla serie e una letale attrazione nata verso questi due – Irene e Sherlock.
Una piccola notazione, anche se penso sia ovvio: la parte centrale è ambientata durante la dipendenza del nostro detective e la rottura del rapporto con John, a seguito della morte di Mary.
Spero sia di vostro gradimento.

 
Wawes.

   
 
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