Binari
La
prima volta che l’aveva vista, appena qualche giorno prima, guardava fuori dal
finestrino, come assente.
E
anche in quei minuti che passavano, era immobile in quella stessa posa, quasi
una statua.
Non
parlava quasi mai, qualche volta leggeva o scriveva un paio di righe, ma la
maggior parte del tempo lo trascorreva osservando fuori, immersa chissà dove
con la musica nelle orecchie, e forse più a fondo.
Doveva
avere vent’anni, o forse venticinque, ma aveva una malinconia addosso che si ha
quando la vita sta per finire, e i suoi occhi erano immersi in un liquido scuro
di dolore che per alcuni secondi le toccò il cuore, facendola sentire a disagio
perché lei mai aveva provato nulla di simile nella vita, nemmeno adesso che
aveva anni più di lei.
Quanti
ne aveva, esattamente?
Troppi,
si disse, fissandosi per un attimo le mani, come se ci fosse scritta l’età
sopra la pelle, e poi la osservò ancora una volta distraendosi di nuovo subito
dopo da quell’aura così cupa che quasi le faceva male come una scottatura nella
carne.
Come
poteva una ragazza così giovane avere un tale peso dentro da vedersi persino
nello sguardo?
Avrebbe
voluto dirle qualcosa, ma rimase in silenzio rispettando il suo.
Il
treno dava qualche scossone, ma lei sembrava non curarsene e stringeva le
unghie della mano sinistra al tessuto del sedile, nervosa e tesa, anche se
continuava ad appoggiare il viso oltre il vetro sporco di colori.
Studiò
quelle unghie tagliate corte e, anche se le sembrava di ficcanasare nel suo
privato, non riuscì a non puntare gli occhi su di lei, su quella piccola
porzione di corpo che immaginò conficcata nel suo stesso palmo, a volte con
rabbia e altre con rassegnazione.
E
per un battito di tempo vide un rivolo di sangue scivolarle sul polso, e si
distrasse di nuovo altrove, cercando un punto dove non sarebbe arrivata
quell’angoscia.
Ancora
una volta voleva parlarle, anche solo un saluto, ma non lo fece, non ci
riusciva, anche se era sempre stata brava a parlare con le persone.
Evitò
ancora di fissarla e rimase muta.
E
il treno andava avanti, corse veloce e poi lento finché non arrivò a
destinazione.
Si
alzò di fretta e con altrettanto impeto afferrò la borsa e scese dal treno,
sentendo un bisogno quasi soffocante di aria, e non appena fu fuori, tra la
gente che le sfilava accanto, respirò tutto quello che poteva e ancora di più,
buttò dentro l’alito dei primi giorni di marzo, quando il sole scaldava la
pelle ancora timidamente, e le sembrò di essersi svegliata di nuovo, con quella
sensazione di serenità che si aveva poche volte nella vita.
Fece
dei passi avanti e poi si fermò, cercandola tra la folla.
Cercando
un po’ di quella malinconia, ma non trovò nulla, la ragazza era già sparita.
Mentre
camminava per quella banchina ormai vuota e poi oltre la strada verso il
proprio ufficio, non poteva fare a meno di pensare a lei, a quel viso quasi al
di là della vita stessa, come se non fosse pienamente presente sulla sua stessa
terra; ma forse era soltanto lei a scorgere tutte quelle cose.
A
notare per forza quello che in realtà non esisteva, e per lunghi minuti,
continuando ad avanzare, l’assalì il dubbio che anche lei fosse solamente nella
sua testa, un’immagine che aveva inventato come decorazione di ricordi ormai
troppo lontani e relegati in un cassetto che non riusciva più ad aprire.
O,
semplicemente, non voleva.
Sfiorò
il ciondolo nascosto sotto la stoffa e cercò con prepotenza di cancellare
quella pellicola dalla sua mente, di bruciarla completamente fotogramma dopo
fotogramma, ma il giorno dopo, quella ragazza era ancora lì.
E
anche quello dopo e quelli seguenti, e stringere la collana non le servì a
nulla, il suo viso era lì.
La
sua malinconia era lì.
E
ad ogni ora che passava, si scoprì impaziente di penetrare quella barriera che
sembrava avere attorno, distruggerla con le proprie dita mentre altre
continuavano a soffocare un piccolo ammasso d’oro.
Desiderò
prendere quel quaderno e leggerne ogni riga, divorarla quasi per poter divorare
ciò che si portava dietro come una pesante valigia senza serrature né maniglia,
ma rimase immobile guardando ogni tanto l’uomo accanto a sé, quel marito
sposato tanti anni prima e che era diventato quasi uno sconosciuto.
Quel
volto che le aveva fatto soffocare se stessa.
E
la ragazza di cui non sapeva neppure il nome, contemplava ancora ciò che c’era
fuori, ogni tanto le scivolavano i capelli sul viso, celandone una parte, e lei
si scopriva desiderosa di afferrarli e spostarli con leggerezza per continuare
a vedere quella malinconia che le faceva male. Quegli strati di esistenza che
voleva afferrare uno ad uno.
Sospirò,
cercando di cancellare tutto intorno a sé, persino l’uomo con cui aveva
condiviso il letto notte dopo notte dopo notte e che era stato capace di
conquistarla con un sorriso.
Volle
sforzarsi di tornare indietro, a quella sera di agosto in cui era rimasta
seduta ai piedi del letto a fissare lo specchio e l’immagine di codarda che le
restituiva, mentre qualcuno a pochi chilometri di distanza la stava aspettando
a quel tavolo poco illuminato del ristorante dove i loro volti si erano
incrociati per la prima volta.
Aveva
continuato a non muoversi, a studiare il suo riflesso, quegli occhi che non
provavano né dolore né altro erano fissi su quel volto che per lunghi minuti
non le era sembrato nemmeno il proprio, eppure le labbra erano quelle che
avevano baciato a lungo e altrettanto a lungo erano state baciate; e il naso
era quello che aveva sfiorato più volte la sua pelle.
E
quando il cuore aveva urlato più forte della ragione, di tempo ne era passato
troppo e il tavolo lo aveva trovato ormai vuoto. Spoglio. Soltanto una macchia
di vino rosso spiccava sopra la tovaglia altrimenti bianca.
E
in quell’attimo aveva desiderato piangere, ma le lacrime sembravano non
esserci.
E
fu in quel preciso momento che si era voltata per andarsene e lo aveva visto,
le sue iridi così grandi e quel sorriso che era stato capace di scioglierle il
cuore; aveva visto il viso di quell’uomo che aveva amato profondamente.
Quell’uomo
che non c’era più insieme a quel sorriso ormai perso tra tastiere di computer e
telefonate interminabili, in cene che consumavano a distanza e in parole che
ormai non pronunciavano quasi più.
Erano
due estranei nella stessa casa, eppure lei continuava ad amarlo in un modo così
profondo e diverso che faceva fatica
a spiegarlo persino a se stessa.
Si
toccavano a malapena, più per sbaglio che per reale intenzione, ma una parte di
lei insisteva ad amarlo, anche se un’altra voleva che l’orologio tornasse
indietro a quella notte, a quegli istanti in cui aveva deciso di stare ferma,
che tornasse lì e cambiasse tutto.
Come
sarebbe stata adesso la sua vita?
Piegò
la testa da un lato e accanto a lei, però, c’era suo marito, e davanti alle
proprie dita che desideravano sfiorarla, la ragazza era di nuovo immobile, di
nuovo fuori quel mondo che sembrava muoversi parallelo ai binari.
Quel
mondo che lei non aveva mai avuto il coraggio di vivere pienamente, e non
faceva che rimpiangere ogni singolo giorno quando avrebbe potuto, ma non aveva
fatto.
Forse
era questo ciò che provava quella ragazza?
Aveva
dentro di sé un tale rimpianto da essere diventato malinconia e dolore?
Dio
come avrebbe voluto chiederle ogni cosa!
Non
aveva idea del perché provasse quelle sensazioni, quei desideri, ma qualcosa
dentro di sé voleva conoscerla, desiderava scoprire ciò che nascondeva, forse
per alleggerire i suoi malumori o per condividerli, non lo sapeva. Ormai non
sapeva più nulla di se stessa.
E
ogni giorno che passava, i suoi dubbi aumentavano, e il riflesso di sé che
osservava era sempre più sconosciuto.
E
più i giorni passavano su quei binari e più pensava a quella ragazza, anche
quando era a casa o in ufficio o semplicemente fuori con le amiche, i pensieri
tornavano sempre a quel viso. Quando la vista sfiorava per un attimo quella di
suo marito.
Aveva
persino imparato a memoria i suoi orari, non avrebbe saputo dire quale fosse
stato il motivo, non le era mai capitata una cosa simile, ma lo aveva fatto e
ogni giorno cercava di prendere il suo stesso treno, uscendo qualche volta
prima dal lavoro, ma quel giorno in cui aprile era già caldo, desiderava
soltanto correre a casa. Buttarsi nel letto e piangere.
Era
stanca, terribilmente stanca di quella vita fatta di confusioni e poche
certezze. Di poche parole lasciate in un messaggio.
Credo che stare per un po’ lontani, una
pausa, faccia bene ad entrambi.
Come
poteva ridurre tutto ad un semplice sms? Anni passati insieme e condivisioni
gettati nel secondo in cui si premeva invio, un secondo soltanto oltre i pochi
spesi per scrivere.
Una
vita ridotta a caratteri sopra uno schermo.
Rilesse
ancora una volta quelle parole e, mentre il tempo passava, si ritrovò spaccata
a metà tra il dolore che l’opprimeva e una sorta di gioia che si faceva strada
dentro di lei: come poteva provare quei sentimenti così contrastanti?
Avrebbe
voluto che qualcuno le rispondesse e istintivamente si voltò verso la ragazza
davanti a sé, come se lei avesse potuto darle qualche spiegazione, delle
risposte che forse temeva.
Avrebbe
voluto chiederle come faceva ad estraniarsi dal mondo in quel modo, fissare ciò
che c’era oltre il vetro – o niente – e fare come se null’altro ci fosse
intorno a lei, ma, ancora una volta, rimase in silenzio e abbassò il mento.
«Tutto
ok?»
Alzò
di nuovo il viso verso di lei: aveva parlato? Lo aveva davvero fatto?
La
sua voce era così bassa che faceva fatica a crederci, era graffiante eppure
così dolce.
«Sì,
tutto ok» mentì.
«Non
è vero» spostò il corpo per osservarla meglio, lasciando per un po’ le immagini
oltre il vetro, fuori. «È diversa dagli altri giorni».
Non
seppe il motivo, ma in quell’istante le venne spontaneo sorridere.
Quel
momento, quel momento soltanto, cambiò tutto.
In
ogni parola che quella ragazza pronunciava c’erano due binari che
improvvisamente si deformavano per incontrarsi, e più le parole aumentavano e i
giorni scorrevano su quel treno, più i loro mondi sembravano avvicinarsi,
spostarsi in modo quasi impercettibile da quelle rette parallele e invisibili
che le attraversavano.
Rientravano
di un millimetro ogni volta che si scrutavano o sorridevano, e sbandavano
rapide quando in pochi frammenti di ore le loro parole si sovrapponevano.
Passarono
corse, e persone e vuoti sui marciapiedi, e continuarono a non sfiorarsi
neppure, soltanto voci o sguardi, ma lei avrebbe voluto prenderle le mani e
stringerle nelle proprie, riconoscere il calore o il freddo, distinguere ogni
sfumatura di ciò che toccava ed essere invidiosa, così tanto da sentirsi
bruciare.
Spesso,
quando la osservava, si chiedeva quasi con rabbia chi avesse visto prima di
salire sul treno; o dopo. Chi avesse toccato. E questa sensazione si faceva
sempre più soffocante senza che se ne rendesse pienamente conto.
«Che
ne dici» parlò all’improvviso per spezzare quell’asfissia. «Se un giorno di
questi ti offro un caffè? O una cena.» L’ultima frase la sussurrò, come
timorosa di aver osato tanto, in fondo il loro era un rapporto fatto solamente
di incontri sul treno e poche parole, di occhiate e qualche risata, e vedersi
al di là di quei binari era un po’ come tornare a casa dopo anni d’isolamento.
O
almeno lei lo viveva così.
Razionalmente
o irrazionalmente che fosse, lei aveva ormai in testa quel mondo chiuso in
quella scatola metallica che correva, lì dove c’erano nient’altro che loro due
anche se il treno era pieno di gente. Ormai, per lei, esisteva solo quella
ragazza che le sedeva di fronte; non solo su quei binari quel viso era
costantemente in lei, ma anche in ogni luogo in cui andava, era come averla
sempre accanto.
E
di questo ebbe paura.
Tornò
indietro nel tempo ed ebbe paura. Fu un solo istante sufficiente a stringerle
la gola.
«D’accordo.»
Quella risposta, però, le esplose dentro come mille spine di felicità che le
tolsero quell’oppressione, e nei minuti seguenti e nelle ore che scorrevano,
non faceva altro che pensare a quell’incontro, a quello che avrebbe detto o
fatto, ad ogni singolo secondo che voleva spendere a leggerle dentro, a
studiare ogni singolo segno che portava sulla pelle.
Poi
le ore passarono come una macchina da corsa, e il giorno si era fatto notte e
la notte di nuovo giorno e proseguiva, fissava il vetro senza andare oltre e si
sentiva sola, stringeva nella mano destra il ciondolo d’oro e si sentiva sola.
Vuota.
Lei non c’è.
Davanti
a lei non c’era nessuno, il sedile era vuoto, ma le sembrava di vedere il suo
corpo piegato verso il finestrino e sentire il suo profumo di una moltitudine
di fiori; lei, però, non c’era, il treno correva e la sua assenza era
intollerabile.
E
l’aveva baciata.
Aveva
avvicinato le labbra alle proprie e l’aveva baciata.
Era
rimasta spiazzata dalla vita che le aveva raccontato e dai sogni e di quelle
piccole parti del suo essere di cui aveva fatto tesoro e che avrebbe custodito
per sempre gelosamente, e poi l’aveva baciata.
In
quegli istanti in cui le aveva afferrato il viso, si era sentita nascere e poi
morire, e il suo respiro perso nel proprio le aveva cancellato ogni paura e
ogni immagine di un uomo e una donna che si erano sposati anni e anni prima e
che erano stati felici a lungo; in quel momento, però, quegli scatti tornarono
prepotenti nella sua testa come echi di tamburi che si facevano sempre più
vicini.
E
lei l’aveva baciata.
Ma
in quel luogo, dove i binari si allungavano sotto di sé, neppure il ricordo del
sapore della sua bocca sulla propria, servì ad estirparle quello stato di
confusione che le si era annidato come erba velenosa; nulla servì.
Lei
non c’era, e voleva soltanto piangere.
Un
altro abbandono che desiderava soffocare in un pianto che non poteva
permettersi, non lì né da nessun’altra parte, né con qualcuno perché nessuno
avrebbe capito che cosa si stava agitando dentro il proprio cuore.
L’aveva
baciata e voleva scendere da lì, da quel piccolo mondo che era ancora troppo
sommerso dai suoi colori, dal colore dei suoi occhi e delle parole che scriveva
e di quelle che non pronunciava mai.
Di
quelle che non avrebbe sentito mai più.
E
pianse all’interno del proprio petto mentre voleva strapparsi l’anima di dosso,
continuò a tenere il libro fra le dita senza leggerne una riga, e pianse
lacrime incorporee sopra quel treno che rallentava e si fermava, una due, dieci
volte; voleva scendere e non salire mai più.
Si
era soltanto illusa? Si chiese.
Illusa
di cosa, poi, non lo sapeva, era stato soltanto un bacio, solamente un toccarsi
di labbra che avrebbe potuto voler dire qualsiasi cosa nella mente della
ragazza, ma nella sua… nella sua era stato un boato così intenso da sentirsi
per chilometri, eppure continuava a domandarsi cosa c’era di reale in ciò che
era successo, se quello che provava fosse vero, tangibile o solamente
sensazioni e illusioni di ciò che non c’era.
E
mentre maggio sfilava per lasciare il posto ad un giugno troppo afoso, quelle
domande continuavano a stringerla come una collana troppo stretta e pesante,
mentre il pendente che aveva al collo si faceva sempre più leggero.
Che
significasse qualcosa?
E
d’improvviso la rassegnazione prese il posto di tutto il resto.
Quel
treno divenne solo ferro che correva sopra altro ferro, e quando la mente
sembrava svuotarsi di tutto, era di nuovo lì.
I
suoi occhi, il suo sorriso e le sue mani tese.
Stavolta,
però, il suo volto era fisso al posto vuoto davanti a sé, quello che avrebbe
dovuto occupare lei, e per un attimo, uno soltanto, fu tentata di passare oltre
o di scendere per attendere un altro treno, ma si fermò. Si bloccò alla sua
bocca sulla propria e si sedette, in silenzio guardando fuori.
E
i loro invisibili binari tornarono per alcuni secondi a stringersi, ma quando
lei la salutò, deviarono prepotenti per allontanarsi ad ogni parola che non
veniva detta, ad ogni sguardo non ricambiato.
«Mi
è capitato un viaggio improvviso» spiegò, ma lei non voleva sentire nulla,
voleva che la ragazza tacesse e basta. «Avrei voluto avvertirti ma non ho il
tuo numero» e continuò il silenzio. Opprimente. «Avrei voluto che venissi con
me.» Poi qualcosa la trapassò da una parte all’altra come un fulmine
incandescente, ma non si sentì come cenere, le parve di accorgersi pienamente di
se stessa come non le capitava da tempo.
E
poi il dolore l’attraversò.
Avrei voluto che venissi con me.
Perché
quelle parole le stavano facendo così male?
Era
stata davvero tutta colpa di cifre? O è era così che doveva andare?
Aprì
la bocca per dire qualcosa, ma il telefono squillò, distraendola, e quando vide
il nome sullo schermo, non sapeva se accettare o rifiutare quella chiamata, ma
poi ritenne che almeno quello glielo dovesse. Spostò il pollice e ascoltò tante
lettere una dietro l’altra, sentimenti che correvano attraverso l’aria fino a
toccare il proprio orecchio e poi oltre, e involontariamente il suo cuore si
riempì di qualcosa che le era mancato; poi, però, si voltò verso la ragazza e
sentì il cuore spezzarsi in due e farle così male che avrebbe voluto urlare.
Gridare
ancora una volta senza lacrime.
E
quando posò il cellulare nella borsa, il suo sguardo era lì, e la fece sentire
nuda, così esposta da stringersi istintivamente il foulard alla gola.
«Tutto
bene?»
«Sì.»
«Era
lui?»
«Sì.»
Nessuna
delle due disse nient’altro, ad ogni fermata il silenzio cresceva e persino i
loro occhi parvero non volersi sfiorare: era certa che quella ragazza avesse
capito ogni cosa prima ancora che fosse chiaro a lei.
Aveva
capito che non avrebbe potuto cancellare quegli anni così facilmente e che non
avrebbe mai avuto il coraggio di vivere qualcosa di così folle e sconosciuto.
«Non
posso farlo» e si sentì abbattere a terra quando quelle parole le uscirono
dalla bocca anche se erano del tutto inutili perché quella ragazza aveva capito
tutto ben prima.
Non
voleva rinunciare a lei e non avrebbe mai avuto il coraggio di allontanarla
dalla propria vita, lo sapeva, lo sapeva benissimo, ma cosa avrebbe potuto
fare?
«Non
credo di averti mai chiesto niente» parlò lei, spezzando quelle paure al suo
posto. «Quel che è successo è successo ed è stato bello, ma non ti ho chiesto
mai nulla e non intendo farlo ora.» Avvicinò una mano alla propria, ma si fermò
poco prima di prenderla e lei non fece nulla per incoraggiarla, rimase muta e immobile
anche se voleva che le afferrasse le mani e tutta se stessa e che l’avvolgesse
nei suoi profumi e nei suoi umori.
«Non
voglio che tu sia infelice.»
Come
poteva dirle che lei la rendeva tutt’altro che infelice? Come poteva farlo se
anche lei non sapeva con esattezza cosa stesse provando né cosa voleva davvero:
l’amava, se ne era resa conto da tanto tempo ormai, anche se soltanto in quel
momento era riuscita ad ammetterlo con se stessa e glielo avrebbe gridato sulle
labbra se non fosse stato così doloroso per entrambe.
E
amava anche suo marito, di un amore diverso, era vero, ma non poteva nascondere
quei sentimenti.
Avvicinò
i suoi occhi scuri al proprio viso, ma involontariamente si ritrasse mentre
continuava a stringere quel pezzo d’oro che portava al collo, a stringere
qualcosa di sicuro e forse soltanto un’abitudine.
Quel
gesto fu il suo modo di allontanarla da sé e la ragazza comprese e se ne andò,
mentre lei rimase immersa in quei pochi ricordi che aveva di voci e tocchi
fugaci, e di quel bacio che le aveva dato in quel vicolo buio e deserto dove
l’aveva trascinata all’improvviso facendola quasi inciampare.
Non
aveva nient’altro, anche se avrebbe voluto molto di più, avrebbe voluto
sfiorarle ogni centimetro di pelle e toccarle persino l’anima, e avrebbe voluto
altrettanto, con più forza e così a fondo da farla morire.
Fissò
il vetro sporco senza avere altro. E poi il posto vuoto davanti a sé.
I
binari continuarono a correre verso l’infinito senza mai toccarsi e quando aprì
le dita, una croce scintillava sul proprio palmo.
E
il treno riprese la corsa.