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Autore: Melian    17/06/2009    4 recensioni
"Fu carne e fu sangue.
Fu sangue inghiottito in avidi sorsi, corposo, ricco d’adrenalina, ricco di piacere.
Fu sangue e fu estasi. "
[Quarta classificata e vincitrice del premio "Miglior coppia" al contest "Baci un po' ovunque" di Achi Sama sul forum di EFP]
[Quarta classificata al "Meeting contest" giudicato da DanzaNelFuoco sul forum di EFP]
Genere: Erotico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NEL SANGUE


«Lei si sentiva triste e sola; e per questo mi ha uccisa.» (Tokyo Babilon)

*

«Dall’erotismo di un freddo bacio, istantaneamente tramutato in orgasmo fatale, vittima e carnefice percorrono la legge dando vita al dualismo piacere-dolore, amore-odio, vita-morte. [...] In un rapporto che nulla ha di banale il sangue sgorga dai corpi orgasmanti, quasi come burattini in preda a forze arcane che pochi conoscono. L’ultimo amplesso dona l’energia, l’ultimo amplesso dona la morte. La coppa si innalza colma di oscuri segretiche mai saranno svelati all’uomo indignato.»
(Elizabeth Bathory)


 

 

Aveva percepito distintamente l’arrivo del tramonto, quell’attimo effimero in cui il sole cala inesorabilmente oltre l’orlo dell’orizzonte e lascia dietro di sé un cielo blu dalle sfumature violette, quel momento sublime in cui tutto pare sospeso e perfetto, mentre le prime stelle sbirciano giù, verso la città trafficata che pare affogare nel mare aranciato degli ultimi raggi solari.
Era stato come una sferzata d’energia, un godurioso formicolio rinvigorente lungo le membra fiaccate… e
il sopore diurno era sparito. Allora aveva aperto gli occhi sul mondo, aveva scavalcato la sponde di legno laccato del suo particolare letto.
Si mosse a piedi nudi sul pavimento freddo della cantina, senza tradire nemmeno un brivido. Beh, in realtà, erano almeno duecento anni che non avvertiva nessuna sensazione tipicamente umana, né fisica, né emotiva.
Indugiò nella cantina buia – in cui vedeva perfettamente, per una sorta di dote “naturale” – a fissare il giaciglio necessario al suo riposo: una bara foderata di seta, con chiusura ermetica, sia mai che qualche mortale intraprendente tentasse di scoperchiarla! Ma quell’ipotesi era, di per sé, altamente improbabile.
Quando ci rifletteva su, giungeva alla concluse che, per gli umani, il suo risveglio doveva avere un qualcosa di grandioso e poetico, romanticamente struggente, soprattutto se si guardava alla letteratura mondiale, zeppa di racconti e leggende straordinarie.
Ogni volta che leggeva uno
di quei libri che si trovano comunemente sugli scaffali delle librerie, sorrideva indulgente. Ma come dare torto alle eccelsi menti umane che avevano dato vita a quegli intricati e appassionati romanzi?
Lui, in effetti, trascorreva tutto il giorno immobile, avvolto dal gelo simile a morte, per poi rianimarsi, risorgere a nuova vita, come un’oscura Fenice in un’alcova di legno e stoffa pregiata. Ciò era quasi del tutto vero, se non fosse stato che molte volte si
era spostato anche di mattina – in luoghi bui e privi di finestre – per necessità, o per la curiosità imperante di mescolarsi agli esseri umani ed osservarli, imitarli. Ma in quelle occasioni, per lo più, era lento e torpido e nascondeva quella sorta di goffaggine dietro una lentezza calcolata, un’eleganza desueta da nobiluomo.
Sorrise, divertito davanti a quelle considerazioni. Scosse lievemente il capo bruno e si avviò su per le scale della cantina, con calma serafica. Attraversò il corridoio coperto di parquet senza lasciare alcuna orma dietro di sé, raggiunse la camera da letto e, come prima cosa, aprì le tende pesanti e scure della porta-finestre.
I tendaggi si gonfiarono alla gentile brezza serale e lo sfiorarono, come volessero carezzargli la pelle liscia e pallida, senza un pelo di barba e nessun poro, nessuna lieve imperfezione. No, un artista immortale aveva operato su di lui con perizia certosina.
Gettò un’occhiata all’esterno e venne accolto dai clacson delle automobili, dal vociare delle persone che passeggiavano e, soprattutto, dallo sciabordio delle onde marine. Con uno sforzo di volontà, s’impose di respirare e richiamò alle narici l’aria ricolma dell’odore di salsedine e di quello degli esseri umani, del loro sangue – e, in questo modo, poteva classificarli tutti, sesso ed età.
Per il momento gli bastò quella prima, superficiale analisi.
Tornò sui suoi passi e aprì l’armadio, tirandone fuori una camicia bianca, stirata e profumata di
pulito che indossò, abbottonandola lentamente. Si riassettò anche i pantaloni scuri, oscenamente aderenti ai fianchi magri, alle cosce dalla muscolatura scattante e compatta. Infilò la giacca, inforcò un paio di occhiali da sole dalle lenti scure e grandi, così che il viso fosse per metà coperto, e uscì nell’aria frizzantina della sera.
Sollevò il bavero della giacca e celò il mento, la bocca e parte del naso, come aveva fatto per gli occhi, di un blu troppo brillante e profondo per essere considerato “normale”. Cercava così di sviare l’attenzione dei mortali: non dovevano mai guardarlo troppo a lungo, o la classica vocina nella loro mente li avrebbe messi in allarme e suggerito che c’era qualcosa di profondamente innaturale nell’essere che stavano osservando.
Aveva un aspetto complessivamente piacevole, certo. Non poteva disdegnare il proprio viso dall’ossatura squisita, dalle sopracciglia leggermente incurvate a conferire espressività al volto altrimenti vacuo e profondità agli occhi ardenti d’una energia intrinseca. Aveva i capelli scuri che tagliava ogni sera e che regolarmente ricrescevano fino a lambirgli le spalle, come quando era ancora un uomo mortale, ondulati, selvatici e folti come una criniera leonina.

Quando il semaforo scattò sul verde, attraversò la strada assieme a un gruppetto di ragazzi, probabilmente stranieri visto l’accento. Si beò di ogni contatto casuale, delle voci musicali e delle risate; li osservò minuziosamente: carne, ossa, pelle delicata e calda e… sangue. Erano così belli, così fragili mentre camminavano e chiacchieravano al ritmo segreto del loro cuore.
Trattenne l’impulso della Sete, strinse con forza il pugno.
“Non così, non davanti a tutti…”
Continuò a camminare costeggiando il litorale, facendo lo slalom tra i bimbi urlanti, le coppiette abbracciate, la fiumana intera di persone che si affacciavano a rimirare il golfo di Napoli punteggiato di luci.
Forse, lui era l’unico che riusciva a distinguere nitidamente l’insenatura della baia, che altrimenti sarebbe apparsa ai comuni uomini solo come un’ombra frastagliata fusa col drappo del cielo. Più in là, scorgeva anche Capri e Ischia, gli ultimi aliscafi che rientravano al porto, i pescatori che sistemavano le reti sulla banchina, pronte per la battuta di pesca.
I suoi occhi chiari fendevano il buio perfettamente, come una lama lacera la carne senza incontrare ostacoli. La sua vista non era sottoposta alle restrizioni di quella umana, perché era evoluta e adattata alla caccia notturna. Tutti i suoi sensi erano sensi da predatore.
Non riusciva, comunque, a fare a meno di guardare con infinita compassione e tenerezza tutte quelle creature mortali, calde e deliziose che ignoravano la presenza del lupo pronto a ghermirle. E lui si beava dell’aria satura di profumi, si faceva cullare dal battito di tanti cuori, dal frusciare del sangue nelle vene…
Un tonfo.
Un bambino prese a piangere con la sua vocetta acuta e una donna in carne gli si avvicinò per confortarlo e rimetterlo in piedi, amorevole.
«Maaaammaaa! Mi sono fatto male!», il bambino versò copiosi lacrimoni e si avvinghiò alla madre.
Era solo un ginocchio sbucciato, una lieve ferita rossastra e qualche goccia di sangue. Solo qualche goccia.
Ma quell’odore ferroso lo fece scattare. Si voltò a fissare la scena. Socchiuse gli occhi così tanto che le pupille parevano due capocchie di spillo. «Rrrhh!», le sue corde vocali vibrarono in un ringhio improvviso e istintivo, animalesco.
Aveva fame e il suo olfatto era fin troppo stuzzicato, così tanto che quel lato brutale e ferale nascosto nelle pieghe dell’anima dannata bussava alle porte della coscienza. Ma lui non avrebbe aperto!
Oh no, quello era solo un bambino di non più cinque o sei anni: non lo avrebbe toccato, ma doveva andarsene da lì.
Si fece largo tra la folla con passi decisi, camminando a capo
chino perché nessuno potesse scorgerne il viso indurito, contratto, con le labbra aggricciate.
«Il Verso è tutto.». Ripeté più e più volte quella singola frase, fino a farla divenire una cantilena. «Il Verso è tutto e può tutto.» Continuò a salmodiare, nel tentativo di mettere a cuccia la Bestia, di distrarsi rievocando l’intera vicenda raccontata dal d’Annunzio in uno dei suoi più celebri romanzi, quello che era uno dei suoi preferiti in assoluto.
Distrarsi, sì. Imporre la propria volontà all’istinto, la ragione alla Sete atavica, sì! Ma era così dannatamente difficile resistere!
Doveva andare a caccia, doveva prendere una vittima al più presto o non si sarebbe più controllato.
Micael scivolò con la sua andatura da predatore, innaturalmente veloce, lungo la strada, infilandosi nei punti dove la luce dei lampioni lasciavano l’ombra. E l’ombra era il suo dominio, mentre si spostava in quella giungla fatta dallo strano connubio di cemento e natura e si beava del vento fresco sulla pelle levigata.
Si fermò solo quando fu lontano dalla calca e si spogliò
degli occhiali e del giubbotto: voleva sentire su di sé il fremito della libertà, voleva muoversi a suo piacimento.
Castel dell’Ovo troneggiava davanti ai suoi occhi.
Era un complesso che sorgeva su un isolotto di tufo chiamato dai Greci Megaride e dimora per gli Aragonesi e i Borboni in tempi storici relativamente più recenti. Si trattava di una costruzione massiccia e imponente, affacciata direttamente sul mare e collegata alla terraferma tramite una lingua di terra. Per anni era stata una delle residenze dei re di Napoli, ma oggi era adibito a sede per gli uffici municipali.
Il castello era vuoto, buio e silenzioso, come un gigante di pietra che si fosse guadagnato il suo giusto riposo. Micael ne osservava la facciata di solida pietra squadrata e il portone chiuso, che però non era un ostacolo per lui, come non lo era l’altezza considerevole della costruzione. Chiuse gli occhi, ricercò la concentrazione e il sangue dannato si espanse e migrò in ogni fibra del suo corpo, rivitalizzando le cellule, gonfiando persino i più piccoli capillari. La sua
forza si ingigantì, il suo potere crebbe e lui spiccò un balzo, felino e flessuoso. Ascese e comandò al suo corpo di scalare la fredda pietra, artigliandola con le dita e la punta dei piedi, approfittando anche del più insignificante appiglio. Raggiunse la terrazza e vi atterrò, accolto dalla risacca del mare e dal grido di qualche gabbiano solitario.
Era solo, lassù.
La solitudine a Micael non piaceva; lui amava tuffarsi nell’oceano brulicante dell’umanità, nelle sue passioni, nella vitalità sfrenata che ora idealizzava in ogni sfaccettatura. Ogni vita era così unica e preziosa per lui, come può esserla solo per chi si nutre di essa e contempla la morte rapirne la scintilla da almeno due secoli.
“Lei si sentiva triste e sola, e per questo mi ha ucciso.”

Rievocò vecchi ricordi, i giorni della sua vita mortale, quando era il secondogenito di un gentiluomo napoletano e di una splendida duchessa inglese e aveva conosciuto l’amore e la felicità, la passione travolgente per la musica e quella per una donna.
Il suo nome era Bianca e quel nome pareva cucito su di lei come un vestito confezionato su misura, perché aveva l’aspetto puro del bianco, la perfezione perlacea della neve, un fascino unico. Sembrava una creatura delicata e dolce, ma i suoi occhi scuri ardevano e lei riusciva a rivelare un cipiglio assai deciso quando desiderava qualcosa, un’aria che esaltava la voluttuosità della bocca e delle guance dagli zigomi alti.
La sua voce era musicale e lei sapeva renderla ricca di sonorità e di mille sfumature diverse come nessun'altra donna riusciva a fare. La sua voce era velluto.
Eppure, Bianca poteva diventare talmente inespressiva, poteva restarsene così immobile al pari di una statua di marmo, poteva rendere la voce talmente piatta da spaventare. La sua stasi poteva essere orribile, la mancanza di ogni ombra nel suo viso liscissimo diveniva raccapricciante, rischiava di farti urlare dal terrore e uscire di senno.
Ma quando rideva… ah, la sua risata cristallina! Ti riempiva l’anima, faceva tremare le vene, mandava in estasi l’udito. Micael aveva ancora l’impressione di sentirla risuonare nell’aria, quella risata, e mescersi col grido accorato e straziante dei gabbiani.
S’incontrarono ad un ballo, ad un ricevimento in una casa nobiliare in una piacevole e tiepida sera di giugno, e Bianca era vestita di seta – solo più tardi, Micael avrebbe saputo che lei vestiva sempre a quel modo – e passeggiava come una di quelle ninfe dei boschi dipinte dal Botticelli, coi capelli scuri acconciati come una corona, ornati di perle e fiori, e sembrava fluttuasse, talmente era leggiadra.
I loro sguardi s’incrociarono per un infinito istante, mentre le note salivano dagli strumenti dei musici, a scandire il tempo di quel gioco. Per un momento, negli occhi scuri di Bianca, Micael vide un lampo di malizia, una di quelle malizie lascive che ricordano tanto i movimenti sinuosi delle spire dei serpenti, e quella donna – sotto i vestiti eleganti e i movimenti aggraziati – ne aveva tutta la pericolosità e il fascino.
Lei lo attirò fuori, sulla terrazza che si affacciava sul mare, senza nemmeno parlare, con la sola forza della sua camminata, dei passi sensualmente ondeggianti.
C’era il profumo dei fiori misto a quello più pungente dell’acqua salata, c’erano le lanterne che illuminavano la notte, come petali luminosi di fiori appena sbocciati, c’erano mani che si sfioravano, le une gelide e candide e le altre calde, mascoline, avide.
Furono mani che s’intrecciarono, furono corpi che si cercarono e si strinsero. Furono labbra che baciarono una bocca rosea come un petalo, mentre un braccio possente strinse una vita sottile in un abbraccio colmo di desiderio. Micael tremava come un ragazzino alla sua prima esperienza amorosa, tremava e sentiva il cuore battere impazzito, ogni vena gonfiarsi di sangue e dilatarsi, minuscole gocce di sudore colare lungo la fronte, così stregato, rapito dal profumo di quella donna di cui non conosceva nemmeno il nome, ma di cui vedeva quel sorriso delizioso e la mano tesa.
Cosa nascondeva, lei?
Celava l’Abisso.
Il corpo forgiato dal Sangue, sottile come un giunco, possedeva una forza spropositata in confronto all’aspetto tanto delicato di cui si faceva scudo e, ben presto, immobile e monolitico, premette contro quello di Micael, sospingendolo contro la parete e togliendogli ogni via di fuga.
Furono, quindi, seriche e fredde labbra a scorrere come ghiaccio sulla guancia imberbe di quel ragazzo che non toccava i venti anni, che ne lambivano il mento e poi la gola vibrante di ansiti e respiri corti, fino a soffermarsi insistentemente sull’arteria pulsante, sulla carotide ricca di sangue. Fu la lenta e impudica tortura della lingua sulla pelle tesa del collo, sulla vena turgida e bluastra, come volesse anestetizzare quel punto preciso, prepararlo, coccolarlo, vezzeggiarlo prima del momento decisivo, un momento che sembrava non arrivare mai, che si dilatava a dismisura.
Micael si ritrovò a gemere, a respirare in maniera talmente accelerata che la gola gli bruciava e i polmoni parevano scoppiare. Oh, stava implorando quella donna di non fermarsi, la pregava con ogni fibra del proprio essere di andare fino in fondo, le trasmetteva tutta la brama di quel contatto nelle mani che le accarezzavano le curve voluttuose, la schiena piegata, i capelli soffici e le sussurrò il fatidico sì all’orecchio mentre premeva le dita contro la nuca di lei, per trattenerla.
Alla donna, tuttavia, non sfuggiva il battito furioso di quel cuore giovane e tenace, assorbiva su di sé il calore e l’aroma di quel corpo mascolino e compatto, mugolava estasiata alle carezze di quelle dita audaci, lo tratteneva contro quel muro intonacato con forza e possessività. Con le mani sottili strappò con foga e senza cura alcuna la camicia di seta, scoprendo quel torso ampio e scolpito, percorrendolo coi polpastrelli in strani ghirigori; l’altra mano carezzava l’eccitazione turgida della preda costretta nei pantaloni, infiammandone ancor di più le fantasie e il desiderio.
Era pronto, ora. Era pronto per lei, e lei lo prese.
Affondò i ferali denti nella carotide, lacerò carne, muscoli, tutto al suo passaggio selvaggio e preciso, fino a che il sangue zampillò
improvviso a riempirne la bocca, assieme al dolore che lui provava. Svelse i denti dalla ferita, ma non si staccò da quella fonte preziosa, abbracciandola invece con le labbra gelide.
Fu carne e fu sangue.
Fu sangue inghiottito in avidi sorsi, corposo, ricco d’adrenalina, ricco di piacere.
Fu sangue e fu estasi.
La Vampira gemeva per il suo impuro piacere, tremava quanto la sua vittima e la tratteneva con le dita contratte nell’affogare in quel liquido godimento, la trascinava con sé nel vortice lussurioso che solo quel contatto blasfemo poteva realizzare, creò per essa la splendida visione d’un mondo irreale e infuse tutto il suo potere perché si sentisse carezzata dalle piume candide di cigno, titillata dal calore di mille fiammelle, accesa dall’orgasmo pieno e fulminante, a cui seguiva l’oblio beato dove tutto ha senso e tutto appare luminoso.
Micael ansimava e la stringeva con veemenza, col capo inclinato contro il muro, la bocca schiusa in un rantolo soddisfatto, senza accorgersi di come il sangue lo abbandonasse, di come il suo organismo si indebolisse e le gambe non lo reggessero più. La vita intera gli sembrava contenuta in quel momento unico in cui il suo cuore galoppava furioso e poi rallentava improvviso, nella bocca di quella sconosciuta che sembrava prosciugarlo di ogni energia, come un’antica Menade in preda al parossismo.
Prima di scivolare nell’incoscienza e nel voluttuoso languore, gli spettò ancora una delizia da gustare: qualcosa di liquido e denso gli gocciolò sulle labbra e pareva avere un sapore poco gradevole all’inizio, fino a che la voce ammaliante della donna non gli solleticò l’udito: «Bevi.».
E lui dovette ubbidire, schiudendo la bocca e ingollando quelle gocce tanto dense di fluido alieno.
Ma era ambrosia, quella? Quel liquido, qualsiasi cosa fosse, era talmente dolce e caldo da invitare al pianto, talmente delizioso da provocare nuove e intense ondate di piacere che dall’inguine salivano fino al cervello, devastandolo con fitte di pura libidine.
Micael fu certo di aver sentito un dolore immenso quando quel cibo divino gli venne sottratto, tuttavia non ebbe il tempo di invocarne dell’altro, perché il deliquio scese su di lui come un drappo di velluto nero.

Trascorse un intero anno in cui Micael e Bianca s’incontravano ogni sera, precisamente allo scoccare dell’ora del tramonto, e passeggiavano, discutevano, leggevano, andavano a teatro a vedere l’opera, partecipavano ai ricevimenti nobiliari. E in tutto quell’anno Micael conobbe una felicità senza pari, l’amore più profondo e struggente che si possa mai provare e lo riversava tutto su quella creatura notturna che aveva al fianco e a cui era legato dal Sangue Oscuro.
Il Sangue operava una magia spaventosa su entrambi: quello umano rinvigoriva e deliziava Bianca come il più succulento dei banchetti, quello vampiresco dominava la volontà di Micael e lo fortificava, benché avesse gli stessi poteri dell’oppio nel causare una dipendenza viscerale, seppure fosse incommensurabilmente più squisito.
Talvolta, la Sete di sangue ingigantiva così tanto in entrambi, la voglia di dare e ricevere si faceva così pressante, che i due passavano notti intere nella lussuria più sfrenata, nel godimento più selvaggio e peccaminoso. Allor
a, il sangue scorreva a fiumi, entrambi se ne servivano fino allo sfinimento e Bianca piangeva lacrime cremisi mentre tratteneva la gola del suo amato Ghoul contro le labbra turgide e rese calde dalle continue trasfusioni.
La violenza che poteva scatenarsi in quelle notti di blasfema passione era unica.
Erano capaci di distruggere un’intera stanza coi loro giochi sadici, rincorrendosi come fanno due grossi felidi in caccia, lottando, sfidandosi, ferendosi e poi giacendo insieme nella frenesia della loro unione impura.
Se c’era una cosa che, però, a Micael non stava bene e lo rendeva frustrato, era il fatto che Bianca – per quante volte lui provasse ad accenderne la sensualità carnale in tutti i modi – fosse insensibile alle sue attenzioni meramente sessuali. Lei faceva l’amore nel sangue e col sangue e quello era l’unico piacere che ormai conoscesse da quando era stata creata; tutto quello che orbitava nella sfera della carnalità ordinaria tra mortali non la toccava minimamente. Rideva di Micael e del suo avvilimento e ne faceva strumento perfetto per rendere le loro lotte più piccanti, il suo sangue più speziato dall’adrenalina della rabbia, più saporito e godurioso: sapeva essere davvero crudele in quei momenti.

Poi, una notte, Bianca volle portare Micael sulla spiaggia.
Aveva scelto una serata davvero splendida, perché la luna piena troneggiava nel cielo punteggiato di stelle e tutto era tranquillo e il mare cullava col suo sciabordio delicato e continuo.
Lo fece sedere sul bordo di una vecchia barca lasciata sulla secca e restò in silenzio per un tempo che Micael non riuscì a quantificare, benché non si azzardasse a disturbarla mentre lei era immobile col viso color latte rivolto ai raggi della luna, assorta e rapita da quella argentea visione. Lei stessa svettava come un fuso di seta dai morbidi capelli ondulati e le caviglie sottili che sbucavano dal vestito sul paesaggio marino.
«Non ti ho mai parlato di quando sono stata creata, vero, mio caro?», finalmente Bianca parlò e la sua voce era suadente quanto una carezza audace.
Micael non le rispose, intuendo che lei avrebbe preferito continuare a parlare senza essere interrotta. Era chiaro che la Vampira volesse svelargli qualcosa di molto particolare, così lui optò per attendere che lei sciogliesse il bandolo della matassa prima di fare un qualsiasi commento.
«No, non ti ho mai raccontato di come aprii i miei nuovi occhi sul mondo. Vedi, quando fui trasformata avevo appena compiuto i sedici anni ed ero solo una giovane donna spartana che si allenava al combattimento quanto gli uomini e partecipava ai giochi nuda e coperta d’olio.», Bianca si voltò finalmente a guardare il suo Ghoul e gli sorrise dolcemente, come se non avesse mai ammesso di aver vissuto ai tempi dell’antica Sparta e di avere sulle spalle millenni di non-vita.
«Ero destinata ad andare in moglie a uno dei principi spartani, Chirone, per sancire l’alleanza tra le nostre due famiglie e dare loro un erede maschio che potesse divenire un valoroso guerriero e potesse portare Sparta alla gloria.
La mia vita mi piaceva, perché noi donne eravamo abbastanza libere e potevamo vantare una certa istruzione, a differenza di quelle ateniesi che erano confinate nelle loro case, accanto ai focolari. Eravamo anche noi atlete, guerriere come gli uomini, anche se tutta la cura che c’insegnavano ad avere per il corpo e lo spirito era meramente indirizzata a fare figli sani e forti. Sai, c’era l’usanza di gettare i bambini troppo gracili o malformati da una rupe…».
S’interruppe e scosse lievemente il capo, accennando ad una risata fatta solo di voce prima di riprendere a parlare: «Ma non sono qui per farti una lezione di storia, quanto piuttosto per parlarti di…» e si carezzò, con le mani che scendevano a lambire i fianchi stretti nel corpetto, prima di riprendere: «Colui che mi ha fatta così.».
Fissò Micael negli occhi, per essere sicura che lui la stesse ascoltando: «Venne su una nave leggera e veloce e attraversò il mar Egeo per approdare sulle coste dell’Ellade. E arrivò di notte, ovviamente. Aveva i capelli scuri come l’ossidiana e gli occhi che parevano gaietto, la pelle leggermente abbronzata testimoniava la sua provenienza egizia. E
dico leggermente perché gli anni che aveva già vissuto come Bevitore di Sangue ne avevano reso l’incarnato originariamente scuro solo di una sfumatura dorata: il Sangue Oscuro e la vita notturna avevano corrotto irrimediabilmente il colorito originario della sua carnagione. Accade a tutti quelli che vivono per millenni, e lui era Antico. Possedeva tanti di quei poteri che i neonati hanno solo in embrione sviluppati al massimo grado e possedeva un autocontrollo straordinario, unito alla freddezza e alla precisione del migliore tra i predatori. Quando la Bestia si scatenava, era sanguinario e invincibile; ma sapeva essere il più sensuale degli amanti e lo era solo quando si trovava dinanzi a un umano meritevole di essere considerato più che un semplice pasto. Diceva sempre che con certi uomini non si tratta solo di cibo, ma di unione e conoscenza.
Naturalmente, io all’epoca non sapevo niente di tutto ciò e lo avrei imparato solo dopo e compreso anche più tardi. Sai, quando si è giovani si è accecati dalle novità, dal potere, ci si sente invincibili e l’ebbrezza della caccia e del banchetto è il fulcro delle nostre prime notti.»
Bianca seguì i movimenti inquieti di Micael con gli occhi e sembrava una statua in cui solo lo sguardo fosse mobile e… vivo.
«Come… come per noi.», azzardò il ragazzo, guardandola a lungo e insistentemente. «Ma, se devo essere sincero, capisco poco e nulla di ciò di cui parli.»
«Sì, come noi. Tu non sei solo cibo. E non è necessario che tu capisca… per ora. Ti istruirò a tempo debito. Sarò la tua insegnante, vedrai.» La voce della Vampira era macchiata di malizia.
Fece un solo passo verso Micael, che non tardò a replicare: «Istruire?».
Bianca sorvolò su quel dubbio, enigmatica, e riprese il suo racconto: «Il nome di quel Bevitore di Sangue era sconosciuto persino ai suoi simili, perché per gli egizi il nome doveva rimanere segreto, in quanto racchiudeva in sé l’essenza vitale. Comunque, lui si faceva comunemente chiamare Meren, il Prediletto. E così lo conobbi anche io, quella sera in cui mi si presentò davanti.
Mi ero attardata al ginnasio ed ero sulla strada di casa, quando Meren mi chiamò con la sua voce sovrannaturale e mi attirò a sé. Mi rivelò di avermi osservata a lungo con gli occhi della sua mente, mentre combattevo e mi allenavo, mentre studiavo, mentre danzavo e attendevo alle faccende domestiche. Mi confidò di aver scorto in me la scintilla necessaria a divenire grande tra i grandi, quel fuoco che ha le potenzialità per ardere eternamente nella notte, la fibra necessaria della resistenza fisica e mentale, l’acume e la prontezza di spirito, oltre alla scaltrezza e alla decisione.
E, senza avermi mai violata prima nel sangue, Meren fece di me sua figlia e sua discepola, sua compagna, forgiò il mio corpo, affinò la mia mente e vincolò la mia anima. Dopo di che, io non fui più solamente una semplice ragazza spartana, né la sposa promessa, neppure la figlia diletta, ma una cacciatrice insaziabile che si muoveva rapida e letale nell’ombra, sotto la guida attenta del suo Creatore.»
Bianca fece una pausa, come se avesse bisogno di riprendere aria. Naturalmente, era impossibile e lei si era interrotta solo perché percepiva la tensione emotiva di Micael e ne aveva notato il cambiamento netto d’espressione mentre lui riordinava le idee.
«Bianca…» il ragazzo emise un gemito di disappunto e si prese la testa tra le mani. «Tu hai almeno un paio di millenni e… mio Dio! Non è possibile!» era così scosso e incredulo che faticava quasi a respirare. Si era illuso di conoscere tanto bene Bianca, quella donna dal viso d’angelo e i denti aguzzi, in realtà non ne sapeva nulla. Lei aveva visto le epoche susseguirsi e chissà quanti altri uomini aveva avuto accanto, magari lui non era nemmeno il più importante.
«Sbagli, mio caro. Pochi mortali hanno riscosso il mio interesse durante tutti i secoli che ho vissuto, come invece hai fatto tu. In te ho visto ciò che Meren aveva scorto in me tanti anni fa. Ora posso capire ciò che intendeva dirmi.» La Vampira non ci mise molto a spegnere ogni dubbio del suo giovane amico mortale, quasi gli avesse letto nel pensiero o il sangue stesso di lui le avesse parlato. E tornò ad incalzarlo: «Forza, fa’ le tue domande!»
«Che ne è stato di Meren?»
«L’ho incontrato per l’ultima volta cinquanta o sessanta anni fa, in Francia.» Bianca fu concisa stavolta e dedicò un’occhiata severa e penetrante all’umano. «Ma non era questa la domanda che volevi farmi. Non è da te indugiare o procrastinare, Micael. Sei cambiato, forse?» Lo sfidò con un sorriso sarcastico.
Micael si alzò di colpo e andò incontro alla Vampira, fissandola senza ritegno e con una sfacciataggine che gli sarebbe costata uno schiaffo indignato. Finalmente, si decise a parlare: «Voglio sapere come sei diventata... così.»
Sul viso di Bianca passò un lampo di crudeltà e sarcasmo, subito eclissato da una luce più morbida. Schiuse le labbra di rosa e gli rispose: «Mi sento sola, amor mio. L’eternità diviene un fardello, se non c’è nessuno con cui condividerla. Non puoi immaginare l’angoscia e il tedio che mi sono piombati addosso fino a che non ti ho incontrato. Tu, amor mio, hai risvegliato il mio interesse, l’ultimo barlume d’umanità e la massima espressione di sentimento che posso provare: con te sto bene e voglio farti stare bene.» e nel frattempo lei allungava la mano e lambiva il profilo dell’umano con una delicatezza assoluta, da artista che pizzichi le corde di un’arpa. «Vuoi sapere in che modo sono divenuta ciò che vedi? Hai già intravisto la via giusta. Vuoi essere mio compagno e alunno? Rinunceresti al sole e alla vita per me?»
Micael restò bloccato, fermo impalato come una statua di sale. Sentiva il cuore battere come un tamburo, le tempie pulsare e il sangue rombare nelle vene. Gli girava la testa e credette che il mare, la spiaggia, il cielo notturno, la figura stessa di Bianca venissero risucchiate in un caleidoscopio di colori e venissero annullate in un’esplosione di bianco e nero. Gli si poneva davanti una scelta e lui doveva trovare una risposta. Si fece risoluto e pronunciò un chiaro: «Sì.».
Bianca restò interdetta e affilò gli occhi per scrutare nel fondo dell’anima del suo Ghoul. Indugiò in quel momento in cui l’altro, al contrario, era tanto risoluto. Avrebbe dunque permesso che quel ragazzo rinunciasse al suo futuro umano, a una vita piena e soddisfacente come gentiluomo e padre, musicista e – magari – esperto di legge? Ma la solitudine bruciava troppo su quel cuore algido che non batteva più e la possessività che provava nei confronti di quel ragazzo era unica e troppo forte per resisterle. Scelse la strada del vizio ancora una volta.
Lo fece: la Vampira lo prese tra le braccia con una velocità inaudibile e calò i denti affilati su quel collo indifeso, sorbendo la linfa rossa in rapidi sorsi goduriosi.
Sangue venne preso e poi donato, ardente come lingue di fuoco a devastare le spoglie mortali, a radere al suolo le vecchie debolezze e le imperfezioni, ad innalzare e fortificare nella durezza adamantina della carne vampiresca quanto di più bello v’era. Un’anima mortale spirò e diede l’addio al mondo umano in un ansito sofferente solo perché venisse nobilitata e sigillata nel suo nuovo simulacro e affiancata dall’atavico e sanguinario istinto della caccia e della Sete.
Venne la morte pietosa a cogliere il tenero fiore che la vita irrigava giorno dopo giorno e fermò il cuore, prosciugò l’aria dai polmoni, offuscò la coscienza. Un’oscura coppa venne innalzata e da quella Micael bevve e in essa venne affogato, trafitto dal piacere più sfrenato quanto dalla sofferenza più scottante. L’ultimo amplesso gli donò la Vita in Morte.
E nacque nel Sangue che suggeva ingordamente dalla gola di Bianca, venne rigurgitato dall’Inferno perché calpestasse il suolo verde della Terra per tutti i secoli a venire.
Quando si svegliò dal suo languore, dopo l’estasi, si trovò disteso sulla sabbia, col mare che giocava sul suo corpo, lambendolo con piccole onde spumose. Scoprì che tutto era infinitamente diverso, tanto che riusciva a contare i granelli di sabbia con facilità, col tatto mille volte più sensibile e l’olfatto talmente sviluppato che riusciva a cogliere odori nuovi e particolari, che lo stuzzicavano in maniera sadica.
La baia di Napoli era stata la muta testimone dell’Abbraccio sensuale e mortale e fu il campo di caccia di un nuovo Vampiro, scaltro e veloce, micidiale nel portare il suo attacco.
La lussuria del primo sangue, del suo Battesimo, fu un idillio per i nuovi sensi di Micael e persino la riottosa Bestia nella sua mente pareva uggiolare beata e pacificata. Uccise e bevve e tutto il mondo si colorò di rosso e vorticò in una girandola d’estasi mentre stringeva la sua prima vittima tra le braccia.

Da quella notte era trascorso tanto tempo, eppure l’Eterno ricordava ancora il sapore della prima preda, l’ebbrezza della ricerca e quello della corsa sfrenata per porla con le spalle al muro. Ricordava il battito sordo di quel cuore umano e il sapore speziato della paura del pasto.
Ah, era stato un giovane Vampiro ingordo e impulsivo!
Sorrise
di sé, sorrise nella brezza marina che gli scompigliava i capelli, intanto che restava immobile sulla terrazza di Castel dell’Ovo, con le mani nelle tasche dei pantaloni come un qualsiasi ragazzo del ventunesimo secolo.
Dov’era Bianca ora? A lui piaceva pensare che, quando si erano separati almeno cento anni fa, s’era diretta in Egitto, alla ricerca di Meren, per apprendere i vecchi segreti che quella terra offriva come pochi altri luoghi al mondo. Gli piaceva anche immaginare che si sarebbero rincontrati presto, oltre che semplicemente scriversi lunghe lettere, e-mail e scambiarsi cartoline come due comunissimi innamorati.
Chissà, un giorno anche lui, stanco della fremente attività umana, del brulichio dei turisti, del passo inarrestabile della tecnologia, si sarebbe ritirato in un santuario di pace e silenzio e avrebbe ammirato gli affreschi sulle mura delle piramidi, e avrebbe dormito come un faraone in un sarcofago monumentale.
Ciò nonostante, Micael era profondamente convinto che non si sarebbe stancato tanto presto, né tanto facilmente di quel mondo così sensualmente pieno di contraddizioni e singolarmente affascinante. Trovava ovunque violenza, cattiveria, egoismo, le più infime declinazioni del sentire mortale; ma gli bastava voltarsi dalla parte opposta perché scorgesse l’allegria, la felicità e la nobiltà delle emozioni e degli intenti.
Le sculture, i dipinti, la musica, la politica, la moda… tutto ciò, per Micael, era intessuto in un arazzo dai colori magnifici e armonici e che non si stancava mai di ammirare. Non si sentiva solo come era accaduto a Bianca, perché - a dire il vero - aveva la possibilità di stringere amicizia con gli uomini dalla mente più fina e vantava numerose conoscenze in ogni ambito culturale; nel corso della sua lunga peregrinazione per il mondo, inoltre, aveva creato altri due Bevitori di Sangue, due figli preziosi che ora vagavano per l’Italia.
Era vero: non poteva fare parte della vita, quindi la osservava in ogni minuzia con oculata attenzione e ne ricavava un piacere sottile. Certo, il maggior piacere restava sempre e solo uno…
«A proposito di piacere…» stirò le labbra in un ghigno, un sorriso appuntito, dirigendo la propria vista preternaturale nelle strade, a cercare la preda adatta: le giovani donne erano le sue preferite.
Fiutò l’aria come il più sordido dei predatori e si leccò le labbra come il gatto che sta per avventarsi sul topo. Dopotutto, restava pur sempre il re incontrastato della notte e alla Sete non si comandava.
Un effluvio di sangue scuro gli colorò le sclere e un ruggito famelico risuonò cupo nella sua gola: la Bestia si era risvegliata ed esigeva il suo sacrificio.
«Ho un leggero languorino.»
E si lanciò con un grosso balzo oltre il parapetto del castello aragonese, ombra tra le ombre, calando come un fulmine nero nei vicoli isolati dove avrebbe trovato la sua prescelta. Non l’avrebbe uccisa, no, avrebbe semplicemente e inevitabilmente condiviso con lei l’estasi della sola cosa che gli desse energia e vigore e in cui credesse ciecamente: il Sangue.




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Note dell’autrice:


La storia era stata originariamente pensata per Temporal-mente indetta da Criticoni, solo che non sono riuscita a completarla per tempo e, quindi, la propongo ora alla Brigde Challange, nata dalle menti perverse di Criticoni e FanFic Italia. *_*
Resta il prompt tratto da Tokyo Babilon e leggibile sotto al titolo, nonché usato anche all’interno dello stesso racconto.
“Nel Sangue” è pensata per essere la prima di due storie imperniate sulla dicotomia het/slash.

Melian

   
 
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