Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Minori Kuscieda    26/08/2017    0 recensioni
[Riferimenti ai capitoli 39, 95 e 96]
Dal testo:
"[...] Aveva lasciato passare una macchina, poi aveva guardato a destra a sinistra e dopo essersi accertato che non passasse nessuna vettura si era incamminato verso l’altro lato della strada.
Che quella strada fosse pericolosa lo sapevano tutti, non solo perché era una delle vie principali, ma anche perché era preceduta da una curva.
Questione di secondi. [...]"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Reiner Braun
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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AUTORE: Minori Kuscieda
LUNGHEZZA: OneShot (2496 parole)
PERSONAGGI: Reiner Braun
RATING: Giallo
CAPITOLI MANGA: Riferimenti ai capitoli 39, 95 e 96
GENERE: Drammatico, Introspettivo, Malinconico
NOTE/AVVERTIMENTI: AU, Tematiche Delicate
 

Nuvole nere di ricordi
 
Quando si avvicinava quel giorno la voglia di fare lo abbandonava completamente.
Si sentiva stanco, abbattuto, vuoto.
Ogni anno aspettava che quel giorno arrivasse, passasse e se ne andasse lasciando in lui gli stessi sentimenti di rabbia e dolore che sparivano in un paio di giorni.
Una ferita che si riapriva ogni anno per poi richiudersi, ma mai completamente.
Quell'autunno era più freddo degli altri, uggioso, pioveva quasi tutti i giorni e anche se smetteva le nuvole continuavano ad essere nere e ad incombere sul paese.
E questo non lo aiutava a stare meglio.
Da nove anni quel periodo dell'anno era diventato davvero troppo difficile da affrontare.
Non perché avesse esami difficili in università, anzi, in quei giorni non metteva nemmeno piede in aula; tantomeno per l'assenza del padre, il fatto di saperlo, probabilmente, con la sua famiglia felice... A quello c'era abituato fin da bambino.
Erano i ricordi ad essere insopportabili, pesanti, opprimenti.
Provava a scacciarli usando tutti i metodi possibili ma quelli non volevano lasciarlo andare.
Era come se, in quel periodo, con l'arrivo delle nuvole uscissero allo scoperto anche le immagini di quel giorno che, riposte fino a quel momento in un contenitore della sua memoria a lungo termine, gli si stampavano vivide nella mente.
 
Quando si svegliò quella mattina ci mise un po' a capire che giorno fosse.
Accendendo il cellulare sperava, in cuor suo, di non vedere quella data sulla schermata di blocco. Desiderava di aver dormito per più di ventiquattro ore e che quel giorno fosse già passato.
"Lunedì, 16 ottobre 2017"
Una smorfia di disappunto si dipinse sul suo volto ancora mezzo addormentato.
Non era l'anno in sé a infastidirlo, anche se aveva da poco più di due mesi compiuto venticinque anni e raggiunto il "famigerato quarto di secolo", come diceva sua madre.
Nemmeno il fatto che fosse lunedì e che la temperatura segnasse 10 gradi, o che il meteo portasse pioggia nella mattinata-anzi, quelle erano scuse adatte per rimanere sotto le coperte o comunque in casa tutto il giorno-.
Trovò la forza di alzarsi dal letto, fare colazione, vestirsi, poi si buttò sul divano.
Sua madre entrò poco dopo nel salone e gli sorrise dolcemente.
Amava sua madre perché, a parte averlo messo al mondo e cresciuto da sola, sapeva quanto soffrisse in quel giorno e evitava sempre di fargli domande ed opprimerlo con richieste del tipo "esci a fare la spesa?" oppure "perché non fai un giro per il quartiere?" cercando invano di farlo distrarre.
I primi anni la donna aveva usato questa tattica ma aveva ottenuto in risposta l'effetto contrario: lui si chiudeva in se stesso e in camera sua con l'intenzione di restarci fino alla mattina dopo e uscire solo per mangiare e andare in bagno.
Non spiccicava una sola frase, se non semplici sillabe e parole qualora necessitasse di parlare.
Gli anni successivi aveva pian piano eliminato la scelta di mutismo ma comunque aveva evitato di mettere piedi fuori casa se non per servizi urgenti o per raggiungere, quello stesso giorno e solo se ne avesse avuto realmente voglia, la fermata dell'autobus che lo avrebbe portato in dieci minuti alla meta.
Stava scorrendo i vari messaggi ricevuti quando sua madre si sedette accanto a lui.
<< Non dovresti uscire a fare quella cosa? >>
Perché glielo stava chiedendo con parole criptate come se fosse un segreto nazionale?
La guardò un attimo indeciso sulla riposta da dare.
L'orologio segnava le undici e un quarto di mattina.
<< Tra poco... Forse. >> Rispose, senza nessuna espressione particolare in viso.
<< Ricorda l'ombrello, porta pioggia. >>
Si era limitata a dirgli quelle parole accarezzandogli la mano poggiata sulla coscia, allontanandosi senza aggiungere altro, come se sapesse che da un momento all'altro lui si sarebbe alzato per prendere la giacca e uscire.
Un quarto d'ora dopo dovette ammettere a se stesso che quella donna lo conosceva fin troppo bene.
 
Arrivato alla fermata dell’autobus il tabellone elettronico segnava dieci minuti all’arrivo del mezzo. Si mise ad aspettare, nessuno nei paraggi; quando nemmeno cinque minuti dopo venne a piovere la fermata si riempì di gente e, come se non bastasse, il tabellone segnò un ritardo di cinque minuti.
Aprì l’ombrello e si incamminò a piedi; dopo qualche metro sentì il telefono vibrare in tasca.
Lo prese e lesse scorrendo la tendina, senza aprire il messaggio.
 
“Anche se piove io e gli altri avevamo pensato di andare a pranzo in quel nuovo locale.
Ti va di venire? Se il tempo migliora ci vediamo alle dodici e mezza in piazza e facciamo un giro prima di andare.”
 
Rimise il telefono in tasca e sorrise. Nonostante la giornata fosse più che nera ricevere messaggi di quel tipo lo rendeva felice; il gesto quasi lo faceva commuovere, il fatto che il suo migliore amico cercasse di allontanarlo dai sensi di colpa e dai ricordi organizzando ogni anno qualcosa di diverso.
Ma, ogni singolo anno da quel giorno, lui aveva sempre rifiutato ogni invito.
Sapeva anche che quelle uscite servivano non solo a lui, ma anche agli altri… Dopo nove anni si sentivano ancora in colpa per quello che era successo dopo quel giorno.
Lo avevano accusato dell’accaduto, accecati dalla rabbia e dal dolore, e nessuno del gruppo gli aveva rivolto la parola per due settimane.
Poi un giorno i suoi amici erano entrati in camera sua senza preavviso, accolti in casa dalla madre.
<< A-avevamo solo bisogno di qualcuno da incolpare… Ma abbiamo scelto la persona sbagliata. Siamo stati tutti degli idioti ad allontanarci nel momento del bisogno. Ci dispiace, ti capiremo che non vorrai più rivolgerci la parola. >> Aveva detto uno, parlando per tutti.
Avevano fatto pace e da quel giorno erano tornati il gruppo unito di sempre, nonostante i piccoli litigi tra lui e la persona che aveva sofferto come lui e forse anche di più: Galliard.
L’astio che avevano nei confronti l’uno dell’altro era sottolineato dal fatto che entrambi preferissero chiamarsi per cognome.
Non che prima i diverbi non ci fossero, non erano mai andati d’accordo, ma dopo il rapporto era peggiorato sebbene spesso si limitassero a scambiarsi, con la giusta dose di acidità, occhiatacce e qualche parola non proprio delicata, complice l’età ormai matura che non permetteva loro di comportarsi come ragazzini di sedici anni e arrivare alle mani per ogni minima cosa.
Per giungere a destinazione doveva passare per quella strada, preceduta da una pericolosa curva.
Si strinse nella spalle, guardò a destra e a sinistra e attraversò.
Accelerò automaticamente il passo. Quando raggiunse l’altra sponda, sul marciapiede, si scoprì più agitato di quanto pensasse: sudava freddo, il cuore batteva forte e il respiro era pesante, come se avesse corso per metri e metri… Come se fosse sfuggito ad un pericolo.
Sfuggito, come quell’anno, come quel giorno.
Aspettò che le gambe gli smettessero di tremare, poi riprese a camminare, la mente a quel maledetto tardo pomeriggio: Giovedì, 16 ottobre 2008.
Aveva sedici anni; lui, Annie e Berthold erano tornati a scuola dopo pranzo per restarci fino a tardi per lavorare ad un progetto. Alle sette il bidello li aveva destati dal loro lavoro dicendo che a breve avrebbe chiuso la scuola; dopo aver riposto i materiali erano usciti lasciando la struttura che avrebbero rivisto il giorno dopo.
Camminando verso casa avevano incontrato un ragazzo di un anno più grande, loro amico, fratello maggiore del loro compagno di gruppo. Avevano deciso di tornare a casa insieme, avrebbero fatto il tragitto fino ad un certo punto per poi separarsi e prendere ognuno la propria strada.
Marcel Galliard, 17 anni, era un ragazzo d’oro. Era l’esatto opposto del fratello minore: affidabile, amichevole, altruista, capace di farsi amare. Era un po’ il collante del gruppo, cercava di far andare tutti d’accordo ed era quasi sempre lui a fermare le liti tra il fratello e Reiner. Teneva a tutti in egual modo, sebbene a volte mostrasse una leggera preferenza per il fratello anche se spesso era quest’ultimo in torto.
Ma nessuno gliene faceva una colpa, alla fine si trattavano sempre di piccolezze su cui si passava tranquillamente sopra.
Odiare Marcel era impossibile.
Ma Reiner l’aveva fatto. Forse non lo aveva pensato davvero, ma gliel’aveva detto quando nessuno, nemmeno il diretto interessato, poteva sentirlo.
Lo aveva odiato sul momento, con tutto il cuore, perché aveva preso il suo posto.
Quella fine spettava a lui, perché si era messo in mezzo?
Si erano fermati sul marciapiede per chiacchierare un altro po’, prima di dividersi. Quando si erano salutati l’unico a dover attraversare era Reiner.
Aveva lasciato passare una macchina, poi aveva guardato a destra a sinistra e dopo essersi accertato che non passasse nessuna vettura si era incamminato verso l’altro lato della strada.
Che quella strada fosse pericolosa lo sapevano tutti, non solo perché era una delle vie principali, ma anche perché era preceduta da una curva.
Questione di secondi.
Si era reso conto del pericolo quando i fari di una macchina lo avevano puntato e pochi secondi dopo qualcuno lo aveva spinto con la spalla per allontanarlo. Era caduto sull’asfalto ad occhi chiusi, mentre un rumore sordo gli riempiva le orecchie.
La spalla destra pulsava, doleva, evidentemente chi lo aveva spinto aveva preso una rincorsa e colpito con tutte le sue forze.
Dopo qualche secondo di smarrimento aprì gli occhi e si guardò attorno; vicino a loro si era raccolta un po’ di gente: qualcuno chiamava la polizia, qualcuno l’ambulanza, una signora stava chiedendo qualcosa a Bert e ad Annie che, con un’espressione sconvolta stampata in faccia, avevano assistito a tutta la scena. Qualcuno, invece, si era messo all’inseguimento dell’autista dell’auto che, scesa dalla vettura, era scappato.
Un signore si avvicinò e lo aiutò ad alzarsi, ma quando provò a camminare per raggiungere i suoi amici sentì una forte fitta alla gamba. Riuscì comunque a raggiungere il luogo in cui la gente si era raccolta nonostante l’uomo gli dicesse di non muoversi per evitare di peggiorare eventuali ferite.
Spalancò gli occhi quando vide il sangue a terra. Sperò di sbagliarsi ma la vista del corpo disteso sull’asfalto, privo di sensi, immobile, lo colpì come un pugno in pieno stomaco.
<< Marcel… Perché? >> Riuscì a bisbigliare prima di sentire le sirene che, in lontananza, si avvicinavano velocemente.
In ospedale li avevano raggiunti i signori Galliard e il figlio più piccolo appena venuti a sapere dell’accaduto.
Erano entrambi sconvolti, probabilmente non gli avrebbero rivolto nemmeno la parola.
Il figlio, invece, si era limitato a guardarlo con sguardo accusatorio per poi sedersi dalla parte opposta alla sua.
Erano passati dieci minuti di puro silenzio quando il dottore aveva aperto la porta della sala operatoria: si era limitato a scuotere la testa e a stringere la mano ai due coniugi.
Trauma cranico, emorragia interna. Non era molto sul colpo ma non c’era stato nulla da fare.
Marcel Galliard era venuto a mancare il 16 ottobre 2008, alle 20:36. Aveva 17 anni.
 
Ricordava come i suoi due amici se n’erano andati piangendo senza salutarlo, presi dai loro genitori. Quando era arrivata sua madre si era subito alzato per andare via con lei ma la signora Galliard l’aveva fermato e, piegandosi alla sua altezza, lo aveva abbracciato forte. Era solo scoppiata a piangere, poi l’aveva lasciato andare.
Lui, invece, aveva pianto solo quella stessa notte, non prima, rifugiandosi tra le braccia della madre.
Il giorno del funerale era riuscito ad andare al cimitero. Aveva aspettato che tutti si fossero allontanati per piegarsi sulla lapide e piangere di nuovo.
<< Ti odio. Non avresti dovuto farlo… >>
Prima di andare via una voce femminile l’aveva chiamato.
<< Hanno preso l’uomo alla guida, era ubriaco. Non pensare sia stata colpa tua. Nessuno di noi ce l’ha con te. >> Lo aveva attirato a sé. << Ti chiedo solo di non dimenticarlo, vivi per lui. >>
Lui aveva annuito, poi era tornato a casa.
 
A distanza di nove anni Reiner non aveva mai dimenticato né l’amico, né quel gesto.
Se era arrivato a venticinque anni lo doveva solo a lui.
Entrò nel cimitero e percorse le piccole stradine tra le lapidi prima di raggiungere quella che cercava.

“Marcel Galliard
10.08.1991 – 16.10.2008
Rimarrai sempre nei nostri cuori. Grazie di tutto.”
 
Si inginocchiò lentamente e rimase a fissare per un po’ la foto che, raffigurante il ragazzo, troneggiava sul marmo bianco con striature grigie.
Sorrideva in quella foto, scattata probabilmente mesi prima, ignaro della fine che il destino gli aveva riservato.
Reiner allungò la mano e con i polpastrelli sfiorò la cornice per poi accarezzare il viso del ragazzo. Il vetro che proteggeva la foto e il marmo erano freddi e ciò lo fece rabbrividire leggermente.
A parte qualche persona all’ingresso il cimitero era vuoto; guardò che non ci fosse nessuno e trovò, per la prima volta, il coraggio di parlare.
<< Lo ricordo come se fosse ieri e invece sono passati già nove anni. Non so perché sto parlando al vuoto, probabilmente mi sentirò un idiota a breve, e non so nemmeno se potrai ascoltarmi in qualche modo… >> Tirò un forte sospiro. << Ammetto di averti odiato all’inizio. Non trovavo una spiegazione al perché ti fossi buttato per salvarmi perdendo la tua stessa vita. Ma tu sei sempre stato così, no? Hai sempre messo al primo posto il voler aiutare le persone ad ogni costo e nessuno sarebbe mai riuscito a fermarti. La gente ti amava e ti ama ancora per questo, sai? Superare la tua morte è stato difficile, senza di te il gruppo ha rischiato di sciogliersi… Non penso che tuo fratello mi abbia perdonato ma siamo ancora tutti insieme e questo basta. Tu avresti voluto questo, vero? Comunque ora stiamo tutti bene, tutti sono rimasti pressoché uguali anche se sotto alcuni aspetti siamo cambiati. Anche io non sono lo stesso, tutti hanno notato questo cambiamento. Tua madre mi ha chiesto di non dimenticarti, il giorno del funerale, e ho voluto accontentarla… Volevo ringraziarti in qualche modo e ho pensato di seguire il tuo esempio: spesso se ho un problema da risolvere mi chiedo “cosa farebbe o direbbe Marcel?”. Ho scelto di diventare un po’ come te, spero possa farti piacere. >>
Passò alcuni secondi in silenzio quando un rumore di passi lo riportò alla realtà.
<< Ora vado. >> Disse alzandosi e pulendosi i pantaloni dalla polvere. Fece per allontanarsi ma si fermò a fissare il sorriso sulla foto. << Grazie di tutto, Marcel. >>
Uscì dal cimitero e prese la strada verso casa; alcune lacrime che non riuscì a trattenere gli rigarono le guance.
Arrivato allo stesso marciapiede di nove anni prima si ricordò del messaggio che aveva ricevuto dall’amico che ancora aspettava una risposta.
Si fermò sul ciglio della marciapiede, prese il telefono e aprì il messaggio rileggendo l’invito. Erano le dodici e venti.
Digitò qualcosa sulla tastiera e inviò il messaggio:
 
“Aspettatemi, arrivo.”
 
Angolo di Mino-Chan
Buongiorno a tutti. Si, sono tornata anche stavolta… Ultimamente ho sia tempo che voglia di scrivere così, appena ho l’ispirazione, mi metto al pc.
Ecco un’altra Alternative Universe con i personaggi di Attack On Titan (Vedi “Perfetto”). Stavolta basata su un avvenimento accaduto nel manga che io ho trasportato ai giorni nostri, senza giganti, senza mura da distruggere, solo semplici ragazzini che frequentano la scuola.
Anche questo argomento, che per sicurezza ho messo sotto ‘tematiche delicate’, è molto vicino a noi: notizie su incidenti automobilistici ce ne sono a bizzeffe, di uomini ubriachi che si mettono alla guida e finiscono per far del male non solo a loro ma anche agli altri.
Passando allo specifico alla mia storia le date citate sono casuali tranne giorno e mese di nascita di Marcel (10 Agosto).
Che Reiner e Poruko non si sopportino ormai è chiaro anche nel manga, ma dei signori Galliard nulla è specificato: nella mia mente, come avete potuto leggere, la madre di Marcel non ce l’ha con Reiner (e questo secondo me anche nella storia originale). Anzi, arriva ad abbracciarlo e a chiedergli di non dimenticare il figlio maggiore.
Il particolare di Bert e Annie (e Pieck, che però non viene mai nominata) che per un po’ non gli parlano è ispirato un po’ al capitolo 96 del manga, dove si vede che i due non prendono benissimo la morte del moro, un po’ ad un videogioco de ‘Il professor Layton’.
Non penso sia necessaria l’avvertenza Spoiler, metterò solo il numero dei capitolo ai quali è ispirata.
Ringrazio chi ha letto fino a qui, chi lascherà un commento se vorrà, e spero che la storia vi sia piaciuta.
Alla prossima, Mino-chan :3
  
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