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Autore: LaFormicaElettrica    29/08/2017    1 recensioni
"Forse sono un fantasma, un fantasma di un ragazzo morto qui dentro tempo fa, di cui però non conservo nessuna memoria affettiva, solo memorie pratiche su come funzionano le cose. O forse sono un tipo di animale molto raro, che l'uomo non ha ancora scoperto, un animale senziente. O forse ancora una specie di semi dio, un angelo caduto, o un demone emerso dal sottosuolo, o dalle fogne."
Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ci siamo conosciuti per caso tramite Facebook. Io le ho inviato la richiesta di amicizia, come del resto l'ho inviata a tanti altri volti e nomi sconosciuti in quel periodo, lei l'ha accettata e dopo qualche giorno mi ha scritto.

Le nostre prime conversazioni erano banali e stereotipate, andavano avanti per inerzia, sfumavano quasi nella noia. Io ero ben attento a rispettare i confini del personaggio che mi ero inventato. Uno studente di scienze delle comunicazioni di ventun'anni, amante del cinema e della musica metal. Lei, per quanto il suo personaggio non fosse completamente immaginario, seguiva un copione abbastanza simile. Diciannove anni, al primo anno di giurisprudenza, studentessa fuorisede.

Parlavamo dei nostri hobby, dei nostri film preferiti, dei viaggi che avevamo fatto e via discorrendo.

Poi, gradualmente, in modo spontaneo, la nostra relazione ha iniziato a trasformarsi. Ho iniziato a parlarle di certe mie angosce, di certe mie paure, della mia disperazione. L'ho presa alla larga, inizialmente circumnavigando il nocciolo dei miei discorsi con un linguaggio quanto più possibile astratto, filosofico, parlando della condizione esistenziale dell'essere umano, e sciocchezze simili. Poi mi sono messo ad inventare storie sul mio passato, su come fossi stato adottato da una famiglia che non mi voleva bene, su quanto i traumi del passato mi rendessero difficile avvicinarmi alle altre persone. Le prime volte riassumevo queste storie in poche righe di chat, poi, non ricordo neanche più con quale pretesto, ho cominciato a dargli una forma narrativa, a stenderle su Word inviandogliele poi come allegato. Ho cambiato nel tempo i contorni del mio personaggio, abbattendo delle pareti, aggiungendo delle stanze, creando labirinti, inventando trame che a volte arrivavano anche a contraddirsi tra di loro.

Anche lei, reagendo ai miei discorsi, iniziò a cambiare.

Tanto più irruento di faceva il modo in cui riversavo contro di lei le mie angosce, tanto più lei allargava lo spazio in cui riusciva a contenerle. Diceva di capirmi, che non ero solo, che anche lei a volte si sentiva così, che andava bene sfogarsi, che con lei lo potevo fare ogni volta che volevo, ogni volta che mi serviva. Io ero un mare agitato e violento, lei la scogliera che, dopo essere stata scavata per secoli dalle onde, si trasforma in una caletta accogliente.

Infine, una notte, decisi di dirle tutta la verità. Ero stanco di incartare il mio tormento interiore in quei brutti involucri di patetismo, stanco di proporle quelle insulse trame da soap opera, che lei assorbiva con una pazienza che io non avrei mai avuto nei confronti di spazzatura simile.

Così stesi il mio racconto. Lo scrissi di getto nel giro di una mezz'ora, senza neanche il bisogno di pensare a ciò che scrivevo, come se le lettere sgorgassero fuori l'una dopo l'altra da una vescica in cui le avevo trattenute per fin troppo tempo.

Quando ebbi finito glielo inviai. Non le scrissi niente, non le spiegai il significato di quel file aggiungendo qualche riga di introduzione, non la salutai neanche, non volli neanche sapere se l'avrebbe letto subito o l'indomani.

Semplicemente inviai il file, gettai la mia verità, nuda e assurda, contro di lei, sperando che anche stavolta lei aprisse le braccia e il cuore per raccoglierla al volo.

 

 

Qualsiasi informazione che ti ho dato su di me è falsa. Le foto del profilo le ho rubate da altri account, e anche il mio nome è inventato. È inventato perché me lo sono dato io, non è scritto su nessun documento di nascita, perché quando sono nato non c'era nessun altro a darmene uno. Sono nato quattro mesi fa, circa un mese prima di conoscerti.

La prima cosa di cui ho preso coscienza, nascendo, è stato il dolore delle mie gambe incastrate dentro la tazza del cesso. È da lì che sono venuto fuori. Me ne stavo lì con le cosce strette dentro l'anello della tavoletta e il busto ripiegato su queste, rannicchiato. Strabordavo fuori come un enorme escremento biancastro. Con le mani mi sono spinto oltre il bordo della tazza , ricadendo sul pavimento e trascinandomi fuori. Ricordo l'angoscia crescere e articolarsi dentro di me insieme ai miei sensi e i miei organi, come fosse un organo anch'essa. La mia pelle, sottile morbida e semitrasparente, dello stesso colore e consistenza della testa di una medusa, si stracciava in lembi che restavano appiccicati alle maioliche del bagno, man mano che mi trascinavo avanti poggiando sugli avambracci. Mi sono poi aggrappato allo stipite della porta, riuscendo a tirarmi in piedi con fatica.

Ricordo che l'unica luce che illuminava la stanza era quella della luna, che entrava da una finestra senza vetri né persiane. Gli altri mobili del bagno erano stati portati via, lasciando buchi nel muro e contorni di muffa intorno alla parete da cui erano stati staccati. Neanche la porta c'era. Il primo pensiero di senso logico che sono riuscito a intrecciare, ripescando memorie e conoscenze arrivate da chissà dove, era che quel posto dovesse essere abbandonato. L'udito però, uscendo fuori in tutta la sua capacità in quel momento, come esplodendo fuori da una bolla nell'orecchio, mi suggeriva una cosa diversa.

Sentivo dei rumori arrivare dall'altra stanza.

Voci e risa echeggiavano nello spazio ampio e vuoto di quella che una volta doveva essere stata una sala da pranzo. Al centro della stanza, come raccolte davanti a un fuoco pallido e bianco che gli illuminava il volto, c'erano queste tre figure, questi tre ragazzi seduti a terra davanti a un monitor. Ho fatto qualche passo in avanti, barcollando sulle mie gambe flaccide e cedevoli. Man mano che con la mia debole vista riuscivo a metterli meglio a fuoco mi rendevo conto di sempre più dettagli della scena. Guardavano un film, fumavano e bevevano da delle lattine di birra. Gli sono arrivato così vicino da riuscire a distinguere il profilo dei loro volti, mentre loro, nel buio quasi completo in cui me ne stavo, ancora non erano riusciti a vedermi.

Volevo parlargli. Volevo fargli domande. Non chiedergli chi fossero, non chiedergli perché fossero lì, ma chiedergli chi IO fossi, come IO mi fossi ritrovato in quel posto.

Ho preso un po' di fiato, cercando di spingere qualche parola fuori dalla gola, di salutarli, di avvertirli che ero lì. Quella roba che ha cominciato a colarmi fuori dalla bocca però non aveva niente a che fare con le parole. Era una sostanza densa, calda e vischiosa. È sgorgata fuori da me insieme a un brutto rantolo, simile a un lamento di dolore, e si è riversata sul pavimento con un suono simile a uno schiaffo.

A quel punto i ragazzi si sono girati di scatto verso di me, imprecando sottovoce. Ho visto una torcia puntarmi dritto negli occhi, poi ho sentito delle urla, delle bestemmie, l'impatto di qualcosa di doloroso e fino che mi colpiva in mezzo alla fronte e una tempesta di passi veloci che si moltiplicava echeggiando nella stanza, svanendo poi pochi secondi dopo.

Sono fuggiti, e nella fuga hanno lasciato lì tutte le loro cose.

Sulla mia testa si era aperta una ferita, lo sentivo, come sentivo chiaramente che da quel taglio doloroso colava fuori qualcosa, qualcosa di molto simile a ciò che mi era uscito dalla bocca un attimo prima.

A terra davanti a me, nella luce del monitor del computer ancora acceso, ho distino la forma nera e rettangolare di uno smartphone. Mi sono chinato e l'ho raccolto, rendendomi conto nello stesso istante in cui lo prendevo tra le dita che sapevo perfettamente come usarlo.

La app torcia era ancora accesa. Era quella che mi avevano puntato contro ed era quello stesso telefono che mi avevano scagliato addosso. Ho spento la torcia e ho attivato la telecamera, poi ho premuto un'icona sopra allo schermo per cambiare la camera esterna con quella interna e attivato il flash.

Ecco il mio volto apparire nello schermo rettangolare. In un primo istante non sono neanche riuscito a realizzare che quella forma orribile fosse il mio stesso riflesso. Quando me ne sono reso conto ho sentito questa vertigine attraversarmi, scuotermi come fronde di un albero nel vento, e il telefono mi è quasi scivolato tra le dita. Mi sono dovuto fare forza per continuare a guardare, per costringermi a incollare l'idea di quella faccia sul mio stesso viso, per costringermi a sopportarla tutta appiccicata e ben stretta intorno alla mia mente lucida e terrorizzata.

La pelle era della stessa consistenza e colore di quella sul resto del mio corpo, e dentro la faccia non c'erano né occhi, ne labbra, né palpebre, né naso e né orecchie. Al loro posto soltanto dei buchi, e dentro ai buchi soltanto oscurità. Ai lati della fronte dei tagli puliti e paralleli, come delle branchie, e, in mezzo alla fronte stessa, quell'altro taglio che invece era stato tracciato dall'urto del telefono.

Dalla ferita, come avevo sospettato, fluiva lenta quella stessa sostanza che continuava a bagnarmi il mento colando dal buco tondo della bocca.

Ho acceso di nuovo la torcia e l'ho fatta scorrere sul mio corpo, dalle gambe in su. Attraverso i punti in cui la mia pelle si era rotta e strappata per l'attrito col pavimento riuscivo a vedere le mie ossa, simili a tubi di silicone seccato.

Mentre la verità di quell'essere immondo che ero si solidificava nella mia coscienza, delle lacrime iniziavano a scendermi dai buchi degli occhi. Puoi immaginare con facilità di quale sostanza fossero fatte, quelle lacrime.

 

Da quel momento ho iniziato a vivere questa mia assurda vita.

Vivo i questa villetta abbandonata, in mezzo alle campagne, a una decina di chilometri dalla città.

Per bere vado ad un ruscello che scorre a qualche centinaio di metri da questo casale di campagna abbandonato. Mangio insetti, mi basta qualche scarafaggio al giorno per sentirmi sazio, e qui dentro ne è pieno. Ogni notte prendo il portatile e il telefono e vado a un campo da calcio che sta proprio qua vicino. Negli spogliatoi del campo ci sono delle prese della corrente, che uso per ricaricare le batterie. Ogni tanto riesco anche a portarmi nel rifugio qualche indumento che i calciatori scordano qui quando si cambiano.

Ho scoperto che la mia strana pelle si può rigenerare da sola, infatti dopo un paio di settimane da che ero nato le mie gambe, il mio torace e la mia fronte erano come nuove. Inoltre, questa sostanza che il mio corpo getta fuori da tutti gli orifizi, dopo qualche giorno inizia a solidificarsi, e se la si prende nel giusto periodo di tempo la si può modellare come argilla, prima che diventi compatta e gommosa. Il tempo che non passo a stare su internet con il wi-fi del campo da calcio lo impiego per fare sculture con questa mia roba.

Sono diventato piuttosto bravo. Il mio soggetto preferito sei tu, Caterina.

 

Non ho idea di che razza di creatura io sia. So bene come funziona il mondo in cui vivete voi altri, ma non vi appartengo. Forse sono un fantasma, un fantasma di un ragazzo morto qui dentro tempo fa, di cui però non conservo nessuna memoria affettiva, solo memorie pratiche su come funzionano le cose. O forse sono un tipo di animale molto raro, che l'uomo non ha ancora scoperto, un animale senziente. O forse ancora una specie di semi dio, un angelo caduto, o un demone emerso dal sottosuolo, o dalle fogne.

Non lo so. Non so cosa sono.

Ma eccomi qui, su queste pagine.

Guardami.

   
 
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