Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: Kiki Daikiri    17/06/2009    3 recensioni
"Noi della crew non eravamo amici: eravamo fratelli.
Per i fratelli si darebbe qualsiasi cosa, anche il proprio sangue, la propria libertà. Anche se io un fratello di sangue lo avevo già.
Avrei dovuto capirlo prima. Avrei dovuto capire prima tante cose."
Genere: Malinconico, Azione, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Scusate il ritardo, ma ho avuto parecchio da fare in questi giorni ^^


Capitolo IX

Under the bridge
 
Rimasi pietrificato, ma non nel vero senso del termine: io non trasmettevo mai le mie emozioni ai miei muscoli facciali, mai. Capitava raramente che si irrigidissero per rabbia, ma mai in altre situazioni.
Dopo averla fissata a lungo, riuscii a schiodarmi da quella inutile immobilità ed a muovere un passo verso di lei che, guardandomi come per invitarmi al suo party privato, sembrava trovarsi del tutto a suo agio.
Mi accovacciai accanto al tavolino, di fronte a lei.
«Cosa significa?» domandai, fingendomi disinteressato.
Lei si passò una mano sul naso, nervosamente, rumorosamente.
«Secondo te?»
«Secondo me quella l’hai fregata nel mio cassetto della biancheria.» constatai, indicando la polverina bianca perfettamente ordinata sulla superficie.
«Secondo me dovresti comprare meno macchine e mettere più sistemi d’allarme in casa tua.»
Più ci parlavo, più mi sembrava di conoscerla da una vita. Era così scioccamente sfacciata da riuscire a mettermi a mio agio, come se qualsiasi cosa fosse perfettamente normale.
Anche una delle mosse peggiori che si possano fare ad uno come me: frugare tra le mie cose, rubare della droga.
«Ok, touché
«Vuoi favorire?»
Nei suoi occhi c’era la luce della tentazione, nei miei c’era solo l’abitudine a qualcosa che già avevo provato, conosciuto, smerciato, ma che non aveva mai preso possesso della mia attenzione.
«Mi stai offrendo la mia cocaina, nel mio bagno e usando una… mia banconota?» azzardai, indicando il biglietto da cinque che la rossa stava utilizzando come cannuccia per aspirare.
«No, quello è mio.»
«Bene, un punto a tuo favore.» senza aggiungere altro, le sottrassi il foglietto, portandomelo alla narice ed aspirando la seconda riga.
Provai il solito intenso bruciore alle pareti interne del naso, nonché un leggero stordimento, ma mi rimisi subito in sesto, sorridendole malignamente, storcendo il labbro superiore in una smorfia.
«Non è la prima volta che lo fai…» osservò lei, avvicinandosi di più a me.
«No.» ammisi, semplicemente. D’altronde, lei già se lo aspettava.
Come dimostrazione di essere un abile venditore che conosceva non solo il proprio mestiere o le persone giuste, ma anche la propria merce, mi alzai in piedi ed andai a chiudere le imposte: la luce ci avrebbe dato fastidio da lì a breve. Succedeva sempre così.
Nella penombra, la scorsi sorridere. Poi si abbassò di nuovo e fece un’altra sniffata. L’aveva finita.
«Questa è roba buona.» commentò, pulendosi di nuovo il naso con insistenza quasi nevrotica. «non è come le altre… da subito un effetto adrenalinico» parlava come se stesse semplicemente comparando due polli o una marca di profilattici con l’altra.
«Certo che è roba buona! Non vendo quella schifezza tagliata con la farina, l’anfetamina o il topicida!» mi sentii quasi offeso da tutto lo stupore che riguardava quella stupida polvere bianca.
In fondo, credevo fosse ovvio che io avessi buon gusto.
«Bhe, dipende…» ci ripensai «forse c’è stato un periodo che un pochino rifilavo merda a quei figli di papà…» bah, questioni di poca rilevanza, ricordi legati ad una vita passata, in un momento di crisi. «Comunque da me solo roba di prima scelta.»
Lei si fece più vicina, eccitata dalla situazione.
«Stai cercando di irretirmi per spacciarmene un po’?» mi accusò, melliflua. Ormai sentivo il suo alito mischiarsi al mio. Sembrava così diversa dalla notte precedente, che a stento l’avrei saputa riconoscere.
Non conoscevo neppure il suo nome, infondo.
Ma conoscevo il mio, ed era un nome pericoloso, un nome amato.
Dovevo essere io, a controllare la situazione.
Mi accasciai con le spalle al muro liscio e fresco del bagno, con un sorriso sornione stampato in faccia.
«Non ho bisogno di irretire, per conquistare.» le ricordai, con naturalezza, massaggiandomi il mento con una mano, facendomi quasi male.
«Ognuno ha il suo prezzo.» ribatté lei, senza scomporsi, ma cominciando ad agitarsi sul proprio posto.
Continuava a mordersi il labbro, era diventata mortalmente seria.
«Non sono in vendita…»
«Nemmeno io, Tom.»
Sentendomi chiamare per nome, il mio vero nome, sentii il petto svuotarsi di colpo, i polmoni collassare fino a far toccare una parete con l’altra.
Tom?
Scattai in piedi, ma boccheggiai solo per poco. Dovevo stare calmo, calmissimo.
Non fosse stato per –ina, ce l’avrei fatta. Continuavo a camminare avanti ed indietro, come un ossesso, cercavo in ogni modo di sfogare le improvvise contrazioni muscolari, l’improvviso bisogno di correre e saltare, di gridare. Ma non c’era abbastanza spazio per me, in quella stanza. Lei non esisteva più, nemmeno nella mia testa, non c’era più posto per nessuno se non i miei pensieri, che andarono tutti a Bill.
Quel figlio di puttana mi stava rovinando la vita.
I collegamenti venivano con facilità, chiari, puliti. Le mie gambe non si fermavano mai.
Te l’avevo detto che era roba buona, te l’avevo detto.
 
- La ragazza stette male quella sera, poiché aveva bevuto molto. Però sa una cosa? L’avevo trovata molto più affascinante la prima volta, quel giorno in metropolitana. Mi sembrava così irraggiungibile… vorrei poterla rivedere, un giorno, per chiederle “perché?” perché è tornata da me, perché mi ha aspettato, perché ha voluto drogarsi con me quando poteva semplicemente andarsene con tutta la roba che tenevo in camera mia. Ma, alla fine, perché dannarsi con inutili domande? Non la rivedrò mai più e sono sicuro che è meglio così -
«Vedo.»
Con entrambe le mani, raccolsi il discreto cumulo di fish che si trovava al centro del tavolo, canzonando i miei avversari.
Georg sbuffò, notevolmente sfortunato quella sera.
«Che culattone.» gli sentii sibilare, rivolgendosi evidentemente a me. Diedi uno sguardo alle carte e gettai subito dieci gettoni sul tavolo.
«Quando tornano Skill, Shon e muso giallo?» Vektor rilanciò, scrutandomi con aria agguerrita.
Controllai con distrazione l’orologio da polso, un bel quadrante d’oro con le lancette in prezioso.
«Stavo per porti la stessa domanda.» erano in ritardo, di quasi un’ora. Teoricamente parlando, era comune che qualcuno incappasse in piccoli contrattempi, ma che non ci avessero avvertito era decisamente extra-ordinario.
Anche Georg rilanciò.
«La fortuna comincia a girare» lo sentii bisbigliare, ma stava bluffando.
«Se non rientrano entro un’ora bruciamo tutto.» sussurrai, fissando con insistenza le carte davanti a me.
Rilanciai.
Bruciare tutto significava cancellare ogni traccia di loro dai nostri appartamenti, per pararci il culo da eventuali confessioni o soffiate, in caso li avessero presi.
Non dovevamo avere relazioni con loro, per evitarci noiose grane.
Questo, era bruciare qualcuno.
«Mi sembra un po’ affrettata come cosa, esagerata. Ecco.»
«Date le nostre fedine penali, non credo.»
Erano le dieci e mezza di sera, a quell’ora giù alla piscina all’aperto c’erano molto ragazzini in cerca del nostro prezioso aiuto, clientela facile.
Prima regola: clientela facile significava intensi controlli.
«Domani, grande rally. Vincerai?» cambiai discorso.
Piovvero altre fish sul vecchio tavolo, lessi nello sguardo di mio fratello Georg che era goloso, goloso di vincere. Lui era estremamente competitivo.
Non accettava le sconfitte, come non le accettavo io.
«È come se avessi già vinto.»
«Vedo.»
Lui esultò, scoprendo delle pessime carte e gettandosi a capofitto su quel piccolo tesoro.
 
-Sapevo che stava fingendo. Sa, quando mi sono ritrovato con un piccolo impero da gestire, sono diventato un fermo sostenitore della teoria che, per guadagnare, sia talvolta necessario perdere qualcosa.-
 
«Tom!» tum-tum-tum. «Tom, avanti apri! Merda bru mi stai facendo preoccupare!»
Erano i colori a cambiare ogni cosa, perché i colori cambiavano, cambiavano ogni cosa.
E bruciavano.
«Merda, quando entro lì dentro ti do tanti di quei pugni in faccia da spaccartela in due, giuro.»
E poi batteva forte il cuore e il mondo cominciava a girare al rallentatore, solo tu dovevi correre, correre e correre.
Non potevi fermarti.
«Tom, dai sfigato d’uno scimmione che non sei altro!»
Non distinguevo più il rumore prodotto dai battiti del mio cuore nel mio cervello da quello causato dai pugni regolari della manona di Geo sulla superficie della porta.
Il bagno si stava facendo troppo stretto, dovevo liberare la mia angoscia.
Con un movimento secco, feci scattare la chiave.
«Apri brutto figl… oh. Alla buon’ora.»
Rimase fermo sulla soglia, con il pugno ancora sollevato, scrutandomi con aria strana.
Io avevo appena buttato via la carta stagnola e rispondevo al suo pressing spostando freneticamente lo sguardo sulle pareti attorno a me.
«Ero in bagno.» biascicai, scostandolo bruscamente e dirigendomi verso il letto.
Dovevo fingere d’essere stanco,anche se avrei volentieri saltato sul materasso per diverse ore senza alcun problema.
«Guarda che non mi interessa se ne usi.» mi stupì lui, tranquillo, sollevando un sopracciglio mentre sentenziava «Non sarebbe la prima volta.»
Alzai una mano in segno di resa, buttando giù una bella e sostanziosa sorsata di sambuca.
Mi sorpresi a pensare che a me sarebbe importato eccome se avessi scoperto che Georg si faceva di bianca.
«Sono tornati?» domandai, vittima di un flash improvviso di memoria.
«Si, Skill ha combinato un mezzo casino: praticamente Muso giallo si è fatto prendere per il culo da due tipi, senza reagire, e lui è intervenuto con una bella rissa.»
Mugugnai, sinceramente poco interessato alla cosa.
«Comunque stanno bene, a parte un occhio nero e una quasi denuncia. Shon è riuscito a pararci il culo; non chiedermi come, perché non lo so.»
Mugugnai di nuovo, lievemente più interessato ma non ancora a sufficienza da articolare una frase dal senso compiuto.
C’erano un sacco di colori che si stavano accendendo attorno a me, cambiando ogni cosa, diventavano vivi. Bruciavano e si ustionavano tra loro.
Bruciavano e cambiavano ogni cosa.
Sentivo la testa scoppiare.
Siamo nati per la musica, cantiamo per voi, per noi e per chi di voce non ne ha.
«Geo» la mia gola stava strozzando ogni suono. Mi portai una mano tremante al viso: stavo piangendo.
Lui finse di non vedere, non disse nulla.
Lo ringraziai mentalmente, per questo. Mi avrebbe ucciso, il contrario.
 
- A volte penso a cosa ho sbagliato, agli errori che ho commesso. Mi capita sempre più di frequente, ma non ci do peso. Se pensassi seriamente a ciò che ho fatto in vita mia, credo che non sarei più qui già da tempo. Un errore innocente è sempre un errore.-
Shon arrivò poco dopo, accompagnato dai due ragazzini imbronciati e feriti.
Quando fecero il loro ingresso nella stanza, sembrarono davvero rincuorati nel vedermi sorridere.
Skill, meno prudente, mi si avvicinò con aria spavalda, sorridendomi in risposta e pronto a sfoderare una delle sue pessime battute che normalmente non mi facevano divertire neanche un po’.
Fortunatamente, ci pensai io a zittirlo in tempo.
«Ascoltami bene, piccolo stronzetto del cazzo.» esordii con tono calmo, nonostante il mio braccio destro fosse teso verso di lui ed il suo collo fosse imprigionato tra le mie lunghe dita.
«Forse quando vi ho spiegato che rischi comporta fare parte di un’organizzazione come questa, non sono stato molto chiaro. Ma non credo, è molto più facile che tu sia semplicemente stupido e non mi abbia capito.» proseguii, ignorando il gemito sorpreso che sfuggì dalle labbra del ragazzo, quando si trovò attaccato al muro.
Con la coda dell’occhio, notai che il piccolo giapponese, che aveva la faccia tumefatta dai pugni ricevuti, se ne stava in silenzio, perfettamente immobile. Non sembrava nemmeno preso alla sprovvista.
Gli occhi terrorizzati di Skill e le esortazioni di Georg mi fecero desistere dal proseguire la ramanzina, ma mi parve d’essere stato più che eloquente, con quella dimostrazione.
Mi mancava solo che due ragazzini idioti mi facessero finire nei guai per colpa di un’inutile rissa.
A Daidetsu non dissi nulla, provavo una strana sensazione ogni qualvolta che i suoi occhi dalla forma particolare incrociavano i miei, esprimendo rispetto ma anche una sorta di fierezza che non ritrovavo facilmente nelle nuove reclute.
Allungando un dito nella sua direzione, gli feci cenno di raggiungermi nella mia camera, al piano di sopra.
Qualcosa non mi convinceva.
Qualcosa mi convinceva troppo.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Kiki Daikiri