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Autore: None to Blame    30/08/2017    1 recensioni
​Questa è la storia intima di una ragazza senz'anima e del suo ritorno alla vita.
 
"Take me back, Josephine,
To that cold and dark December
I am missing someone but I don't know who. 
Now I'm standing alone and I'm trying to remember,
Sometimes I wonder how I ever started loving you"
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Giorno 1
 






Non sono riuscita a chiudere occhio. A quanto pare il minimarket sotto casa è aperto tutta la notte. Molto comodo, ma il neon dell’insegna mi ha tenuta sveglia fino alle due col suo rosso accecante. Ad un certo punto ho deciso di arrendermi, così mi sono tirata su e ho avviato Mulan dal portatile. Penso di non aver dormito per più di cinque minuti di fila. Lo specchio se n’è accorto e mi sta restituendo una versione spaventosa della mia faccia. Accenno un sorriso di prova, ma il riflesso non è lusinghiero. Tant’è, partivo svantaggiata comunque. Inforco gli occhiali e mi avvio in cucina facendomi largo nel dedalo di pacchi, buste e borse. Il frigorifero nuovo di zecca sembra fuori posto in questo macello. Prendo la bottiglia del latte e mi trascino al tavolo, su cui giace quasi per intero la spesa esagerata che abbiamo fatto ieri. Scavando un po’, trovo delle merendine alla crema. Apro il pacco e, approfittando dell’assente controllo materno, me ne posiziono davanti tre: in fondo, merito calorie e merito dolcezza. Ingollo l’ultimo boccone senza preoccuparmi di mettere a posto. Mi lavo e vesto in fretta, afferro lo zaino già pronto ed esco.

Prima di andare a dormire, mia madre mi ha fatto uno dei suoi discorsi d’incoraggiamento, del quale non ho ascoltato nemmeno una parola. So come funziona il liceo e so cosa mi aspetta. Sono una studentessa mediocre, ho un aspetto mediocre e una personalità mediocre.

Non punto all’eccellenza, io voglio solo stare tranquilla.
 


 

 




Il mio arrivo a scuola passa del tutto inosservato. Ho già tutte le informazioni che mi servono, capisco subito dov’è il mio armadietto e noto con piacere che l’aula di matematica – prima ora – è vicina. Mi illudo per qualche minuto che il sogno possa durare, ma la mia sbadataggine manda tutto in fumo: entrando in aula con lo sguardo basso, sono andata a sbattere contro qualcuno, il cui zaino è caduto a terra rovesciando il suo contenuto sul pavimento. L’incidente provoca ilarità generale, più per la mia vittima che per me. Imbarazzata, mi inginocchio ad aiutare il ragazzo senza rivolgergli né un’occhiata né una parola di scuse. Raccatto un borsello e delle fotocopie, ma non faccio in tempo a prendere il suo contenitore del pranzo, che viene invece raccolto da un altro ragazzo.

« Guardate qua! » esclama, esibendo la sgargiante scatoletta « Bugs Bunny? Sei alle elementari, chiattone? »

Finalmente sollevo lo sguardo sulla vittima, che sta ancora a terra, ignorando il bulletto e riponendo i libri nella borsa.

« Mi dispiace, » gli dico. Mi rivolge un’occhiata pietosa da dietro le lenti spesse, le sue guance sono paonazze. Scuote la testa.

« Non dici niente, lardoso? Parli con la tua fidanzatina? » poi si china al nostro livello e prende di mira me. « Sei la sua fidanzatina? Ti paga per dargliela? »

A questo punto mi alzo e, sapendo che sto firmando la mia condanna a morte sociale, guardo in faccia questo arrogante stronzetto. E resto a bocca aperta: è di una bellezza mozzafiato. Per un lunghissimo secondo mi dimentico tutto, il ragazzo a terra, la nuova scuola, il trasloco. Sono sola al mondo con questo Adone splendente, con le sue morbide ciocche brune e gli zigomi taglienti. Poi le sue labbra perfette si piegano in un ghigno malevolo e ripiombo con durezza nella realtà. Mi schiarisco la voce, scrollandomi le fantasie da dosso.

« Sei un arrogante coglione maleducato » gli sputo con stizza « e dovresti sfondarti di seghe più spesso così magari la smetti di fare lo stronzo frustrato. »

« Signorina! »

Cazzo.
Il professore.
Dev’essere entrato pochi istanti fa. Nessuno si è accorto di niente, siamo tutti sgomenti. L’uomo guarda me, poi il ragazzo a terra e infine l’arrogante stronzetto.

« Spiegatemi cosa- Anzi, no. Tutti e tre, in presidenza. Immediatamente! »

Grandioso.
 
 





 
Tutto sommato, poteva andarmi peggio. La preside, una donna robusta e giovanile, ci ha accolti nel suo studio interrogando ciascuno sull’accaduto. Ha promesso di non procedere duramente né su di me né su Wyatt Auburn, che ho scoperto essere il nome della vittima. Lui era mortificato al punto che ho preso io a raccontare l’incidente e il successivo accanimento dei compagni.

« … e in particolare di questo qui, » concludo, indicando l’arrogante stronzetto seduto alla mia destra. La donna rivolge all’imputato un’espressione severa.

« Ernie, è vero? Di nuovo? »

L’arrogante stronzetto – Ernie – si limita a scrollare le spalle e schioccare la lingua. La preside sospira. « Sarò costretta a chiamare tuo padre, » annuncia con tono pesante « e dirgli che il tuo comportamento influirà pesantemente sulla tua media. Se continui così potrei doverti sospendere. »

Ernie tira su col naso e abbassa lo sguardo, ma continua a non rispondere. La spavalderia è svanita: sembra improvvisamente spaventato e in quell’attimo provo una profonda pena per lui. Lei quindi scuote la testa.

« Tornate in classe, » ordina, facendo cenno a loro. Ernie spinge via la sedia ed esce in fretta, Wyatt ringrazia sommessamente la preside. Quando la porta si chiude, lei si gira verso di me.

« Signorina Norwood… Gianna, » dice « alla Western Whitehill non tolleriamo un simile linguaggio né una simile mancanza di rispetto. »

Annuisco piano, aspettando che continui. « Capisco il disagio che stai provando in questo periodo, tua madre mi ha messo al corrente di ogni cosa. Hai bisogno di parlarne, di metabolizzare la rabbia che provi, magari trasformarla in qualcosa di utile. » Mi osserva alla ricerca di una reazione, ma non gliene offro nessuna. Sto cercando di rendere il mio volto gelido come le dita delle mie mani.

« Una separazione è difficile da affrontare, » continua, senza mollare la presa « e in più devi anche gestire un trasloco. La lontananza da casa, la perdita di punti di riferimento, la ricerca di nuove familiarità… Io capisco, Gianna. Tuttavia, sfogarsi sui propri compagni di classe, che per giunta ancora non conosci, offenderli– »

« Stavo solo difendendo Wyatt, » mi scappa senza che lo volessi. Deglutisco per cancellare le mie parole, ma purtroppo è tardi: ho offerto terreno fertile alla preside.

« È un gesto altruista, » mi concede, usando un tono materno « in questa scuola affrontiamo una tenace lotta contro il bullismo, possibile solo grazie al contributo di molti studenti. Ti sei identificata con Wyatt? » chiede infine a bruciapelo.

Onestamente non so come rispondere. Detesto chiunque cerchi di psicanalizzarmi, ogni tipo d’introspezione, mi sento sempre più a disagio. Voglio andarmene. E così decido di mentire.

« Sì. »

Da lì in poi è facile. M’invento una serie di fesserie, borbottando di essere stata il bersaglio di ingegnose cattiverie da parte dei compagni di scuola. Lei inizia quindi a snocciolare una serie di consigli, mi dice di rivolgermi al professor Gilson, che è il consulente per questo genere di cose, e mi promette che a mia madre riferirà solo quanto accaduto in classe. Poi mi condanna a due settimane non negoziabili di punizione. Mi congeda con i migliori auguri e finalmente sono fuori.

Mancano cinque minuti alla fine della prima ora, non vale la pena entrare in aula. Tiro fuori l’orario: ho un’ora di matematica e poi due d’inglese, le aule si trovano entrambe al secondo piano. Ho paura di incrociare l’inserviente, ma al limite gli spiego la situazione. Capirà che si tratta di una faccenda eccezionale. Sospiro e rimetto a posto il foglio, pensando che stamattina mi sono svegliata con l’unico desiderio di far passare in fretta la giornata per poi rintanarmi in casa con Netflix ed un pacco extra large di patatine. Non avrò questa fortuna, purtroppo.
 
 
 
 
 






La mensa è sorprendentemente piccola per una scuola che ospita seicento studenti, il che procura evidenti problemi di sistemazione pranzo – e non solo alla sottoscritta. Nel mio vecchio liceo la divisione per gruppetti era la norma ma qui, non ho ancora capito se per l’elevata densità o per misure sociali a me sconosciute, sembra essere assente anche la più elementare forma gerarchica. Questo caos è destabilizzante. Ho giusto adocchiato un posticino solitario di fianco al distributore delle bibite quando Wyatt Auburn mi si para davanti. Non ci siamo rivolti una parola da stamattina, e lo stesso vale per Ernie. Ho riscosso un certo generale successo per qualche minuto, prima che i miei nuovi compagni di classe capissero che non ero affatto una reginetta brillante, e in seguito mi sono limitata a scambiare chiacchiere di circostanza e appunti con un paio di anonime ragazze.

« Ciao » saluto, sporgendomi oltre il capoccione del ragazzo per controllare il mio posto.

« Ti volevo ringraziare » dice d’un colpo, senza guardarmi. Io faccio un cenno liquidando la questione. Mi sposto di un paio di passi al lato, per aggirarlo. « Se vuoi, » continua lui « puoi sederti con noi. »

Lancio un’ultima, drammatica occhiata al mio posticino allettante mentre decido di accettare l’offerta, perché sarebbe molto scortese rifiutare e forse così potrei iniziare a fare conoscenza all’interno della classe. Wyatt sorride felice e mi scorta al tavolo, indicandomi una sedia libera fra un tipo dall’aria ubriaca e l’incarnazione di una volpe. Seguono le dovute presentazioni e precisazioni sul mio nome.

« Jenna? »

« Gianna. »

« Oh, Gina »

« Gianna. »

« Gee… Anna? »

« Eh, quasi. »

« Un nome davvero curioso! » esclama la ragazza-volpe. La guardo perplessa: « Tu ti chiami Tallulah ». Lei inclina la testa e stringe gli occhi, come se non capisse. Lascio perdere e indico i suoi capelli. « Che è successo? Hai fatto il bagno nella candeggina? »
Il ragazzo ubriaco ridacchia. T. solleva la sua treccia massiccia, metà rossa e metà bianco-verdastra: « Li ho decolorati qualche mese fa, mi ero stufata di questi capelli arancioni. Adesso sono ricresciuti. »
« Vuoi dirmi che hai avuto i capelli verdognoli per un certo periodo di tempo? Per scelta? » commento io, acidamente. Non riesco a fare a meno di trovare il tutto così frivolo e inconsistente. Ma alla fine non funzionano sempre così i primi incontri? Sorrisi e moine, devi saperti vendere. Per mia fortuna T. ha solo l’aspetto di una volpe, e quindi non coglie il mio cinismo, dandomi la possibilità di riscattarmi. « Sono sicura che ti starebbe bene qualsiasi colore » dico, imbarazzata. Lo penso davvero, ma non lo direi mai se non fosse necessario.

« Oh, ma grazie! Che ti ho detto? » tira una gomitata a Brandon, il ragazzo ubriaco « E’ una gentile! »

Brandon sospira annoiato e annuisce. Ho il terrificante sospetto che io e questo caso umano potremmo andare d’accordo. T. si sporge in avanti sul tavolo, come a volermi rivelare un segreto.

« Certe ragazze dicono in giro che sei un po’ una stronza e che te la tiri » mi confida. Io sollevo le spalle: « Magari hanno ragione. »

« Per niente! Non ti conoscono!

« Nemmeno tu. »

« Tu sei una che non sopporta i bulli. »

« Nessuno sopporta i bulli » le faccio notare. 

« Forse, ma nessuno vuole mai sporcarsi le mani » si indigna. « Tu sei finita in presidenza per difendere qualcuno che nemmeno conosci! La gente passa i guai per aver rotto una finestra o fumato in palestra, mica per cose così! »

Tallulah si sta infervorando al punto che ha alzato il tono di parecchi decibel, e quindi i tavoli vicini hanno interrotto le loro conversazioni per assistere alla filippica. Mi sta trasformando in una specie di paladina dei deboli. Sento decine di occhi fissi su di me, la pelle mi sta formicolando, la bottiglia si sta deformando nel mio pugno, sempre più rigido.

Scatto in piedi, fremendo per la rabbia. Mi chino sul tavolo.

« E’ il mio primo giorno. Lasciatemi stare. »

Credevo che avrei gridato, credevo che la sedia sarebbe caduta all’indietro concedendomi un po’ di teatralità, credevo che sarei uscita dalla mensa nel silenzio attonito degli astanti.

E, invece, dopo aver sibilato la mia protesta mi sono semplicemente seduta di nuovo, continuando il mio pranzo con gli occhi bassi.
 
 
 





Quando entro nell’appartamento mi accoglie un insolito profumo di cucinato. Mollo zaino e chiavi nel corridoio e mi affaccio in cucina. C’è mia madre ai fornelli che fischietta armeggiando con un cucchiaio di legno. Indossa ancora i vestiti da ufficio.

« Mamma? » sono cauta mentre mi avvicino. Da stamattina, il nostro unico contatto è stato un suo messaggio (“Mi ha telefonato la preside. Ne parliamo stasera.”). Lei si gira e mi sorride. Non si è nemmeno struccata. Si è limitata a raccogliere i capelli con un mio elastico – e non lo fa mai, non credevo neanche che sapesse come farsi una coda. Poggia il cucchiaio nel lavello e si pulisce le mani.

« Sto preparando la cena! Oggi ho finito presto e quindi mi sono messa a spacchettare. Indovina cosa ho trovato in uno degli scatoli? »

Aspetto che concluda la frase retorica, ma poi mi accorgo che vuole davvero che indovini.

« …della salsa scaduta? »

« Ma no! Dai, intanto, assaggia e dimmi com’è » prende un boccone di pane e lo intinge nel sugo, porgendomelo. È squisito. Sembra quasi…

« Hai trovato il ricettario della nonna! » esclamo. Lei batte le mani e tira fuori un’agenda marrone, tenendola fra le mani come una Bibbia.

« Dov’era finita? » chiedo, sfogliando delicatamente le pagine. La nonna ha iniziato a compilarla quando aveva quindici anni. È un compendio di ricette originali scritte di suo pugno e altre ritagliate da giornali o altri libri. È il suo lascito più prezioso. A parte, naturalmente, il pendente con la perla che mi ha già promesso.

« Dobbiamo telefonarle per dirglielo! »

« Prima finisco la bolognese, poi possiamo darle la buona notizia. »

Lei si rimette al lavoro mentre io leggo avidamente la ricetta del salame di cioccolato. Ho un discreto talento come cuoca e con questo Sacro Graal posso fare faville.

« Ne vogliamo parlare? » chiede d’un tratto, buttando le linguine nell’acqua bollente, « Abbiamo giusto nove minuti. »

Chiudo il diario di ricette. Non posso scamparmi la conversazione, ma lei capirà. « Non c’è niente da dire: ho mandato a fanculo un cretino che stava prendendo in giro un ragazzo. Se l’è meritato. »

« Non ho dubbi, ma il punto è un altro: hai picchiato Rachel, non rispondi più alle telefonate di tuo padre e adesso questo, per giunta in una nuova scuola. Sono preoccupata. »

« Non devi. »

« Sei arrabbiata. »

« Anche tu sei arrabbiata. »

Mi guarda. C’è un brevissimo momento in cui siamo entrambe deboli, senza veli. È incazzata, terrorizzata, insicura. Potrei far durare questa intimità e raggiungerla, dare una svolta al nostro rapporto, connettermi a lei; le mentirei promettendole un futuro luminoso, snocciolando frasi da cartolina sul cambiamento. Potremmo essere una famiglia, di nuovo.

Ma il momento passa.
Abbasso gli occhi, lei si strofina le mani sul grembiule. « Per quanto riesca capire quello che stai passando, non posso assolutamente passarci sopra. Ti comprendo ma non ti giustifico, Gianna. Una punizione è necessaria, perciò dopo cena mi consegnerai il tuo computer ed il cellulare. »

« Che cosa?! Come faccio senza telefono? » le grido. Lei è irremovibile. « Ti darò il mio buon vecchio Samsung senza connessione internet. »

« Ma le sim non saranno compatibili! Non posso usare un modello vecchio! »

« Allora lo dovrai usare con la scheda che c’è dentro. Prima di darmi il tuo telefono manda un messaggio con il numero temporaneo alla nonna, a tuo padre e a chi vuoi. »

Sbatto i pugni sul tavolo, ma mi trattengo dal protestare oltre quando lei mi lancia un’occhiata minacciosa. Afferro lo zaino che avevo abbandonato sul pavimento e corro in camera mia. « Fra due minuti è pronto! » mi ricorda mia madre. Chiudo la porta con violenza. Ho un terribile prurito sottopelle, devo lasciarlo uscire, devo sputarlo fuori. Mi butto sul letto e inizio a tirare pugni al cuscino, con rabbia crescente. Dopo i primi colpi non sono più padrona del mio braccio, che si muove da solo senza controllo. Ci vuole parecchio perché lo sforzo sciolga la tensione, ma quando accade mi sento finalmente svuotata. Sono rilassata.
Abbandono la testa sul cuscino martoriato, sfinita. Mentre mi concentro sul mio respiro – dentro e fuori, la regolarità mi tranquillizza – mi torna in mente il bulletto di oggi, Ernie. Deve avere un bel po’ di rabbia imbottigliata nelle sue vene per comportarsi così da stronzo. Chissà se anche con lui funzionerebbe il metodo del cuscino.





 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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