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Autore: NPC_Stories    08/09/2017    3 recensioni
Sono un ranger elfo dei boschi della foresta di Sarenestar, o foresta di Mir come la chiamano gli umani. Il mio nome è Johlariel, per gli amici Johel.
Sì, ho degli amici.
Sì, per davvero, anche se sono un elfo, quelle voci che girano sul nostro conto sono solo calunnie. In realtà sono un tipo simpatico e alla mano.
Questa storia è una raccolta di racconti, alcuni brevi altri lunghi e divisi in più parti, che narrano dei periodi in cui ho viaggiato per il mondo insieme a un mio amico un po' particolare. Per proteggere la sua privacy lo chiamerò Spirito Agrifoglio (in lingua comune Holly Ghost, per comodità solo Holly). Abbiamo vissuto molte splendide avventure che ci hanno portato a crescere nel carattere e nelle abilità, e che a volte hanno perfino messo alla prova il nostro legame.
...
Ehi, siamo solo amici. Sul serio. Già mi immagino stuoli di ammiratrici che immaginano cose, ma siamo solo amici. In realtà io punto a sua sorella, ma che resti fra noi.
.
.
Nota: OC. A volte compariranno personaggi esistenti nei libri o nella wiki, ma non famosi.
Luglio 2018 *edit* di stile nel primo capitolo, ho notato che era troppo impersonale.
Genere: Avventura, Fantasy, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1302 DR: Equipaggiamento primavera-estate (Parte 1), ovvero La prossima volta ti prego andiamo piuttosto al bazar di Sheirtalar dove ti rubano anche le mutande


Non c’è mai niente di semplice con Holly. Nemmeno una cosa triviale e ordinaria come comprare qualche ammennicolo magico. Poche settimane prima, avendo trovato il modo di diventare corporeo, in tono entusiasta (beh, entusiasta per un morto) mi aveva detto: “Sai cosa significa questo? ...Shopping!”
Sì, esatto. E poi sono io quello elfo.

La prima tappa fu Waterdeep, stavolta non per ricevere nuove missioni, ma per trovare un paio di spade corte.
“Mi dispiace, ma non le ho trovate sul tuo cadavere. Forse erano da qualche parte sotto il... mucchio... ma non ho nemmeno cercato con cura.” Mi scusai, mentre ci avvicinavamo ai cancelli della città.
“Non preoccuparti, non potevi trovarle. Sono state incantate per sparire al momento della mia morte. Non erano davvero mie, mi sono solo state date in prestito per tutta la durata della mia vita, quindi al momento della mia morte sono tornate in possesso del loro legittimo proprietario.”
“Che sarebbe qui a Waterdeep?”
Annuì come se fosse ovvio.
“Qualcuno del tuo tempio?” chiesi ancora, visto che non si scuciva.
“Domanda lecita, ma no. Si fa passare per un elfo di nome Lólindir, lavora al sanatorio pubblico.”
“Uuuh, hanno un sanatorio pubblico? Che cosa civile e... aspetta, che significa si fa passare per un elfo?”
“In realtà è un drago.” Mi rivelò. Con il tono di chi avrebbe detto in realtà è un fruttivendolo.
“Cosa... come... vuoi andare da un drago a chiedergli se ti ripresta delle spade magiche? Un drago??”
Sorrise con sommo divertimento. Il mio disagio era sempre motivo di ilarità per lui. Bastardo.
“Ti dirò di più!” aggiunse in tono giocoso “Io non gli piaccio per niente.”
“Oh, mamma mia...” mormorai una preghiera all’indirizzo di tutto il pantheon elfico.

Entrai in città da una delle Porte. Lui no, ovviamente, entrò di notte scalando le mura. A differenza di altre città, Waterdeep non ha protezioni magiche al di sopra delle mura, fa affidamento su guardie a cavallo di grifoni e guardie a piedi. La sua difesa principale sono gli ex-avventurieri che vivono in città e che sono sempre pronti a difenderla da chi creasse problemi, ma finché Holly si limitava ad entrare clandestinamente senza compiere altre malefatte, non avrebbe attirato attenzioni sgradite.
“Come sai che lavora al sanatorio pubblico?” gli chiesi quella sera, camminando per i vicoli della parte povera della città.
“Cerco di tenermi informato sulla posizione e la salute dei miei ragazzi.”
“I tuoi ragazzi? Vuoi dire i bambini che occasionalmente ti capita di... accompagnare da qualche parte?”
La sua unica risposta fu proseguire nel racconto:
“Trovai Lólindir in una gabbia su un carro. Due umani lo stavano scortando, non saprei dirti dove. All’epoca conoscevo pochissimo la geografia di queste terre. Mi è sembrato strano che due uomini ben piazzati avessero bisogno di una gabbia di metallo a sbarre fitte per tenere rinchiuso un bimbetto mingherlino, ma per quanto ne sapevo poteva anche essere per proteggere la merce dagli animali selvatici.”
“La... la merce?” balbettai orripilato.
Si strinse nelle spalle come in gesto di scuse. “È così che un mercante di schiavi pensa alle creature che cattura.”
“Lo schiavismo non è legale in queste terre.”
Annuì. “Sì, ma all’epoca non ne avevo idea. Mi è sembrato strano, comunque, perché non pensavo che gli elfi fossero tanto rari da giustificarne la tratta.”
“E che cosa hai fatto?”
Svoltammo in un altro vicolo, poi in un altro ancora, mentre Holly ponderava sulla risposta. Man mano che avanzavamo, il panorama diventava sempre più desolato. Non era quel tipo di squallida povertà che si può vedere nelle baraccopoli di Memnon o di Calimport, ma sembrava che ci stessimo addentrando in un quartiere poco sicuro.
“Devi capire che all’epoca consideravo la schiavitù una cosa normale. Non mi piaceva, quando si trattava di bambini, ma era comunque una cosa a cui ero abituato. Solitamente i bambini schiavi erano orfani, o indesiderati che i loro genitori vendevano.”
Mi fermai, senza riuscire a fare un altro passo.
“Per gli dèi, che mondo crudele mi dipingi.” Sussurrai, improvvisamente colto da una sensazione di nausea. Anche lui si fermò e si girò a guardarmi. In quel momento compresi che lui capiva il mio sgomento, ma solo perché conosceva il mio modo di vivere. Doveva contestualizzare i basilari diritti delle creature senzienti per poter accettare la mia reazione viscerale.
“Io lo so che la schiavitù è sbagliata, Johel. È solo che ci sono anche abituato. Mi fa orrore, ma a differenza di te, la mia mente non rifugge dal problema.”
Presi quel commento per quello che era: una semplice constatazione. Non una critica, né un’autocritica, ma solo un dato di fatto. Forse era un bene che fossimo diversi. Fra i due, io ero quello che sapeva cosa dire, grazie alla mia maggiore empatia e alla cultura quasi condivisa con qualsiasi popolazione elfica o umana. Lui invece era quello che sapeva cosa fare, perché aveva visto abbastanza orrori da saper reagire prontamente a qualsiasi cosa. Tuttavia il suo pragmatismo a volte era disturbante.
“Non sapevo bene cosa fosse lecito fare.” Disse, e capii che stava continuando il suo racconto. “Ma poi loro si sono raccomandati a vicenda di nascondersi bene nella boscaglia, per non farsi trovare dai genitori. Allora ho capito che il bambino non era orfano né schiavo, ma era stato rapito. Cominciavo ad avere un quadro un po’ più chiaro della situazione: quei due dovevano essere schiavisti oppure ricattatori, e la seconda opzione mi sembrava più sensata.”
Ormai stavamo girando nei vicoli da diversi minuti. Non glie lo domandai, ma avevo il sospetto che ci fossimo persi. Ero troppo curioso, per interrompere il suo racconto.
“I due uomini non erano una sfida degna, andarono per terra con un paio di colpi. Vedendomi, il bambino diventò quasi isterico.”
“E quindi che cosa hai fatto?” lo esortai a continuare.
“L’ho fatto uscire dalla gabbia. Indossava uno strano collare di metallo dorato che non riuscii a togliergli, ma almeno gli slegai le mani e i piedi. Cercò subito di scappare. A dire la verità, cercò di scappare ogni volta che distoglievo lo sguardo o provavo a riposare.”
Scoppiai a ridere. Non riuscii proprio a trattenermi.
“Non hai provato a calmarlo?”
“Non parlavo la sua lingua.”
“Azz... come avete fatto a comunicare?”
“Entrambi capivamo la lingua comune a sufficienza perché gli chiedessi dove vivevano i suoi genitori. Ci misi quasi un mese a trovare il posto. Per farlo stare buono, mi basavo soprattutto sull’intimidazione.”
Gemetti come un cane preso a calci. Holly si era inimicato un maledetto drago come solo Holly sa inimicarsi qualcuno.
“Era davvero un cucciolo?”
“Sì.”
“E... che anno era?”
“L’anno del Calice Vuoto, se non sbaglio. Ora dovrebbe avere cinquant’anni o poco più. Dai, non è un nemico così temibile!” Mi incoraggiò con un gran sorriso. Sì, aveva proprio capito dove volevo andare a parare.
“Va bene, ma i suoi genitori?”
“Uuuh, grossi. Grossi e temibili. Un drago d’oro il padre, d’argento la madre.”
Fischiai per lo stupore.
“Beh dai, per lo meno sono draghi metallici, di indole buona...” la cosa mi tranquillizzava.
“Sì, di indole buona, ma anche loro si sono incazzati un po’ quando li ho mandati all’inferno.”
Questa volta per poco non mi strozzai con la mia lingua.
“Tu hai... tu... hai... lo sapevi che erano draghi?”
Annuì con cautela, studiando la mia reazione.
“Solo... perché?

Prese un respiro profondo. Che è sempre un segno preoccupante, il preludio a qualcosa che trova difficile raccontare.
“Saltò fuori che mi stavano osservando da una settimana, prima che li trovassi. Hanno tenuto d’occhio il mio comportamento con il moccioso e si erano convinti che volessi chiedere loro un riscatto. Erano pronti a divorarmi, in quel caso. Ma è meglio che ti racconti dall’inizio: giunto in prossimità del posto che Lólindir mi aveva indicato come casa sua, trovai un piccolo villaggio che disponeva di una locanda. Ignorando il fatto che fosse quasi notte, svegliai il locandiere e pretesi una stanza per me e per il bambino. Cercai di essere misterioso; non era difficile, visto che tenevo il cappuccio ben calato sul viso e viaggiavo con un bambino elfo che si comportava come un prigioniero. Misi a dormire il marmocchio e me ne andai. La nostra stanza non aveva finestre e avevo chiuso la porta dall’esterno, quindi non sarebbe uscito.”
“Te ne sei... andato? Solo andato?”
Si strinse nelle spalle.
“Era molto vicino a casa, e sapevo che il locandiere già mi reputava sospetto. Di sicuro la voce sarebbe giunta ai suoi genitori in breve tempo. Ho lasciato il villaggio e mi sono allontanato inoltrandomi nella foresta, come un fuggitivo qualsiasi.”
Mi passai una mano sul viso. Era così tipico di lui.
“Due giorni dopo una grossa ombra oscurò la luna. Poco dopo, un’altra. Pensavo che fossero nubi, ma compresi il mio errore quando due grossi draghi si posarono a terra nella radura che stavo attraversando. Non avevo mai visto un drago metallico e pensai che fossero lì solo per procacciarsi il cibo.”
“E quale boccone indigesto saresti stato!” lo presi in giro.
Ignorò la mia battuta e continuò a raccontare.
“Mi dissero che mi avevano aspettato per due giorni, alla locanda. Pensavano che mi sarei fatto vivo per barattare il figlioletto con una ricompensa, e mi dissero senza mezzi termini che in quel caso avrei trovato la morte. Ma siccome non ero tornato, dando prova di aver riportato il marmocchio in modo disinteressato, si erano dati la pena di cercarmi per ringraziarmi e offrirmi un pagamento.”
Ora tutti i pezzi stavano andando al loro posto.
“Ed è qui che li hai mandati all’inferno.” Ragionai. Una certezza, non una domanda.
“Per la direttissima e senza passare dal Piano della Fuga.”
Sospirai. Holly non aveva mostrato molto buonsenso in quel frangente, ma capivo le sue ragioni. Era anche lui, dopotutto, una persona con dei princìpi.
“Sì, lo posso capire. È stato molto arrogante da parte loro.”
“È stato arrogante e offensivo. Oltre che smodatamente ipocrita. Insomma, o la vita del figlio vale una fortuna, oppure non la vale. Perché due genitori che si dicono amorevoli dovrebbero dare più importanza alle intenzioni di chi gli riporta il figlio, piuttosto che al fatto che il figlio sia effettivamente a casa sano e salvo?”
“E tu gli hai detto tutto questo?”
“Con un sacco di parolacce in mezzo, sì.”
“E cosa c’entrano le spade in tutto questo?”
Tacque per qualche altro momento. Quando riprese a raccontare, la sua irritazione si era placata.
“Mi aspettavo che cercassero di mangiarmi dopo una simile uscita. Ero troppo arrabbiato per preoccuparmene, ma me lo aspettavo. Invece hanno capito. Nella misura in cui un drago può capire un piccolo bipede, hanno capito le mie obiezioni. Le spade sono il compromesso che ne è risultato: non avrei accettato denaro, così mi hanno dato qualcos’altro, due oggetti preziosi che avrebbero avuto un utilizzo pratico per me. Le due spade corte che avevo all’epoca erano ormai molto rovinate, quindi accettai questo dono. Promisi che non le avrei mai usate per perseguire il male, e che alla mia morte sarebbero tornate al loro legittimo proprietario, il loro erede... Lólindir.”
“Quindi, in un certo senso, era un prestito?”
“Dal loro punto di vista, sì, mentre dal mio punto di vista era un regalo, visto che le avrei potute tenere per tutta la durata della mia vita. Questo patto fu suggellato con un incantesimo.”
“Per questo le tue spade non erano con il tuo corpo.” Conclusi, tornando al punto di partenza del discorso. “Pensi che Lólindir ti rinnoverà questo prestito?”
A questo, non aveva ancora risposta.

Fui io ad entrare nel sanatorio e chiedere a un’infermiera se conoscesse il guaritore Lólindir Fëfalas. La donna aveva un’aria stanca e irritabile, e mi disse che a quell’ora si poteva entrare solo per le emergenze, non certo per le visite. Il mio accattivante sorriso e una donazione di dieci monete d’oro per il sanatorio fecero il miracolo: la donna mi indirizzò con poche e chiare indicazioni al dormitorio dei feriti, secondo piano. Come tutti i visitatori, dovetti prendere le scale esterne e fare un largo giro per non passare dalle camerate, dove avrei rischiato di contrarre qualche malattia.
Trovai un unico guaritore nell’ala indicatami: appariva come un elfo della luna biondo e pallido, con acquosi occhi verdi e le occhiaie di chi non riposa abbastanza. Non sarebbe sfigurato come bardo o poeta tragico, ma sembrava stranamente fuori posto, così piccolo e mingherlino, in mezzo ai letti dove stavano distesi uomini dall’aria rude e grossi anche il doppio di lui.
Mi annunciai con un colpo di tosse; si voltò subito e mi squadrò con occhio clinico, ma poi sembrò decidere che il mio colpo di tosse era solo una mossa scenica, e non il preoccupante vessillo di un’epidemia.
“Non è orario di visite” mi si rivolse in lingua elfica, senza alcuna inflessione geografica.
“Sono qui per parlare con voi. Il mio nome è Johlariel e sono un messaggero” mi presentai.
Quando gli spiegai chi era che voleva parlargli, divenne livido di rabbia.
“Non voglio vedere quell’individuo!” rispose seccamente, interrompendo il mio discorso.
“Vi prego, riconsiderate la vostra posizione. Lui non è...”
“So benissimo cosa è e cosa non è! È tornato come fantasma apposta per tormentarmi? Dategli le sue, anzi le mie, maledette spade e facciamola finita! Ve le vado a prendere anche subito!”
Uscì dal dormitorio con la furia di un temporale, ma fu di ritorno qualche minuto dopo portando fra le braccia le due spade corte che ormai conoscevo bene.
“Ho visto che le ha fatte incantare.” Commentò, mentre le affidava alle mie cure.
“Sì. Spero non vi dispiaccia.”
“Non mi interessa affatto. Non sono un combattente. Ora debbo chiedervi di lasciare questo luogo di riposo.” Mi congedò in tono altezzoso.

Fuori, per strada, Holly mi stava aspettando. Si stupì molto del fatto che gli avessi riportato le spade, anziché condurre da lui il loro proprietario.
“Non ha voluto vedermi?”
Lo presi per un braccio e ci allontanammo dal sanatorio, non di corsa ma nemmeno lentamente.
“Sai cosa?” gli dissi, quando fummo a una distanza ragionevole. “Credo che tu lo abbia traumatizzato quando era piccolo. Secondo me, ha ancora paura di te.”
Scoppiò a ridere. Avevo fatto bene a portarlo lontano dal sanatorio.
“Ha senso. Tutti i bambini hanno paura dei fantasmi.”

“Va bene, adesso che hai riavuto le spade, ce ne andiamo?” gli domandai la mattina dopo, dopo essermi concesso una bella colazione per dimenticare i tumulti della sera prima.
“Ma neanche per sogno! Devo procurarmi ancora un paio di cose. Questa era la parte facile.”

Sigh.

           

   
 
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