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Autore: Risa_chan    09/09/2017    4 recensioni
«Al contrario, saremmo solo candele che con la sua fiamma brucia sé stessa finendo con lo spegnersi…» lo schiacciatore si abbassò ancora, gli accarezzò il viso fino a toccare il labbro inferiore, «i rimpianti sono insopportabili, Kenjirou.» sussurrò a due centimetri dal suo volto.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenjiro Shirabu, Wakatoshi Ushijima
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Haikyuu!! AU Fest'
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Kyandoru no yōna

 
 
                                                                     
 
 
 
“Quel che amore tracciò in silenzio, accoglilo, che udir con gli occhi è finezza d'amore.”
[William Shakespeare]
 
 
All’età di 12 anni era giunto alla conclusione che, a suo modo di vedere, il colpo di fulmine non poteva esistere. La sua mente calma e razionale non poteva concepire un concetto tanto astratto e fumoso: Il colpo di fulmine consisteva in un attimo veloce nel quale una persona avrebbe dovuto innamorarsi di un'altra; un istante era una frazione di tempo troppo breve per essere ricordata. Si poteva amare una persona di cui non si conosceva, né passato né presente?
Era da stupidi crederci.
I suoi genitori gli avevano sempre parlato di quando si erano conosciuti, dell’istante famigerato che aveva cambiato le loro vite; eppure non li aveva di certo salvati dalla separazione, da un matrimonio naufragato ed ormai alla deriva da qualche anno, in cui non avevano risparmiato a Kenjirou silenzi alienanti e giorni vuoti riempiti solo dalla solitudine.
I colpi di fulmine erano per gli ottusi non aveva dubbi; Shirabu Kenjiro era il primo, l’ottuso più grande di tutti.
 
 Accese l’ultima candela posta sul tavolo apparecchiato, osservando il risultato finale, semplice e raffinato. Guardando le candele dal corpo lungo e, gli venne da ridere ripensando a quando anche lui vittima fu dell’Amore a prima vista. Non s’era neanche reso conto, in effetti. Durante quella partita, quando aveva deciso che sarebbe andato alla Shiratorizawa, una scintilla era scoppiata.
Come una candela in cui appena l’accendi, s’infiamma, poi continua a bruciare lentamente con la sua luce tremula e fioca, in fine, morire; Se lo chiedeva spesso se quel amore nato senza rendersene conto avrebbe finito per diventare resti di cera e cenere.
 
La sua relazione con Wakatoshi era iniziata dal desiderio di poter alzare alla potenza pura, servire palle al talento incontrastato. Ripensandoci si rendeva conto di essere caduto al fascino misterioso della forza, uno spettacolo a cui non avrebbe mai potuto più rinunciare perché quella era la pallavolo che amava giocare, quella per lui migliore.
Detto, fatto: aveva frequentato le selezioni per accedere all’accademia Shiratorizawa riuscendo ad essere ammesso per i suoi meriti sportivi.
Ushijima era al secondo anno di liceo, già titolare della squadra ed entrato nella squadra nazionale under 19: aveva conquistato quello che si poteva ottenere nella pallavolo liceale.
Era un ragazzo silenzioso dalle poche parole, sincero e schietto fino all’eccesso, incapace di capire un doppio senso o un modo di dire. Un ragazzo dal cuore puro che considerava i semplici fatti come prova e come metro per agire, carismatico ma privo di quella passionalità tipica di Goshiki e il suo forte senso di ambizione. Pieno di talento, probabilmente non aveva ancora provato la frustrazione dell’insuccesso, né il desiderio ardente di voler raggiungere un traguardo lontano; Era come lui, per alcuni aspetti, il loro caratteri combaciavano, e questo non aveva fatto altro che legarli in qualche assurdo strano modo.
Kenjirou tornò al presente, lasciando che i pensieri andassero a dormire, da qualche parte dentro la zona più nascosta della sua mente.
 
Accese lo stereo in filo diffusione, si diresse in cucina per controllare la cena e finire gli ultimi preparativi. Stappò il vino, lo versò in due calici di cristallo, chiedendosi il perché di una simile situazione.
Osservò la tavola apparecchiata con cura per due, le fiammelle delle candele profumate sembravano ballare al ritmo della musica; buttò giù un sorso di vino sopraffatto da quelle emozioni tanto forti da incenerire, da far male.
 
Prese per sé un altro sorso di vino e un altro ancora…si tormentava di quella situazione nuova, straordinaria e bella, allo stesso tempo paurosa: era felice? Erano felici? Lui lo era?
 
Il citofono suonò tanto improvvisamente che il cuore di Shirabu fece una mezza capriola. Scattò subito a rispondere, colto dalla frenesia improvvisa di vedere quei occhi dal colore delle olive mature, farsi stringere dalle braccia lunghe, muscolose e tanto forti.
 
Non era così, in principio: Ushijima e l’alzatore non avevano instaurato un rapporto di eccessiva confidenza o di familiarità, viste le personalità di entrambi, era un’amicizia fumosa e inconsistente, nebulosa quasi impercettibile tanto da apparire quasi come indifferenza.
 
 Eppure, Wakatoshi Ushijima si accorgeva di lui, del suo talento, della passione e della dedizione che metteva nella pallavolo, di tante altre qualità come la sagacia e la serietà.
Lo apprezzava davvero come poche persone, così tanto che, era uno dei pochi a continuare a frequentarlo anche dopo il liceo. Eita Semi, Taichi Kawanishi, Reon Ōhira, Hayato Yamagata, Satori Tendō – il più amico di tutti- e lui erano gli amici storici del campione. Lavorare in squadra accresceva tantissimo le possibilità di un’amicizia duratura e la loro squadra era affiatata.
 
Wakatoshi comparve sul pianerottolo bello come un re fiero ed imponente, solido come la roccia, forte ed orgoglioso come un’aquila.
«Ciao!» lo salutò sorridendo.
Era bello il suo sorriso, era raro e questo lo rendeva ancora più prezioso.
«Benvenuto, accomodati,» rispose spostandosi di lato per lasciare passare il suo ospite più gradito. Nel farlo nascose il sorriso con una mano, e nel suo stomaco come risvegliato dal sonno, si mosse uno stormo di farfalle.
 Quando il ragazzo più grande fu entrato richiuse la porta, dando le spalle a Ushijima. Non fece in tempo a sentire il click della porta che venne strattonato con forza finendo contro il petto del suo amante, tra le sue braccia.
 
«Mi sei mancato…» niente di più di un sussurro caldo e basso pronunciato fra i suoi capelli biondi.
Kenjiro si girò nell’abbraccio e si aggrappò alla giacca costosa, profumata di colonia, un odore forte, speziato che passava dalle sue narici per arrivargli diritto al centro del petto.
Un pensiero stupido gli sfiorò la mente, Così diverso dal profumo delle candele…
«Anche tu, da morire,» sorrise timidamente, «però ora sei qui.»
 
Poche parole bastarono perché il silenzio era uno dei loro migliori alleati: brevi discorsi sussurrati riuscivano a creare un’intimità, una connessione profonda la quale era sconosciuta a tutti tranne che a loro due.
Nemmeno i loro amici più cari comprendevano quello loro strano modo di vivere una relazione segreta, composta da brevi pause rumorose e una musica muta.
La cena passò tranquilla, tra un racconto e l’altro su come avevano passato quel periodo separati: Wakatoshi era stato impegnato con i campi di allenamento della nazionale e vari partite amichevoli, mentre Kenjiro era impegnato con la squadra in cui era stato selezionato all’università.
Gli impegni erano tali e tanti da impedire loro di vedersi spesso e costantemente tanto da rendere l’attesa dura da sopportare, eppure, ogni incontro ripagava ogni sforzo.
 
Quella notte non ci fu bisogno di pregare che passasse la notte da lui, come in un sogno, stordito dal vino, dal fumo e dell’odore delle candele, Shirabu si lasciò condurre in camera, alla deriva nell’alta marea. Prima rude poi dolce, Ushijima lo spinse seduto sul letto aiutandolo a spogliarsi durante il tragitto, senza mai lasciarlo andare; mani e bocche sempre intrecciate con i respiri che si condensavano nell’aria fredda della stanza. Kenjirou sfilò delicatamente la camicia costosa dalle spalle del suo amante, lasciandola cadere a terra lentamente. Sospirò, scostò le coperte fresche di bucato adagiandosi sui guanciali, bello e fragile come un oggetto di cristallo, lasciò spazio al suo uomo fra le gambe.
Chiuse e riaprì gli occhi per abituarsi al buio quando solo le candele, oramai quasi consumate, illuminavano i loro corpi.
Lo amava? si amavano? cos’erano davvero? sarebbe stato capace di fare a meno dei suoi baci roventi, delle braccia che lo stringevano fino a fargli mancare il respiro? dei pomeriggi passati a sorseggiare tazze di tè in silenziosi discorsi privi di fronzoli ed eccessi, nel caso in cui la loro relazione sarebbe giunta al termine?
 
Fecero l’amore più volte con la stessa passione sempre silenziosi con il fiato corto e leggeri e impercettibili ansimi. L’alzatore rimase stretto al corpo dell’unico capitano per il quale aveva desiderato alzare la palla, respirando il suo profumo di muschio selvatico. Ammirava l’asso della sua attuale squadra, amava giocare dov’era ora, eppure, soltanto osservando Ushijima Wakatoshi aveva sentito un irrefrenabile impulso di servigli la palla, la migliore alzata possibile.
Se avesse potuto avrebbe giocato in eterno con lui, pronto a spingere la palla nel punto più alto, con la traiettoria, o l’angolazione migliore, per permettergli di schiacciare forte il pallone sul campo avversario. Si addormentò pensando a questo, al fatto che lo amava davvero, che mai avrebbe potuto lasciarlo andare.
 
«Ti amo…»
 
Tra il sonno e la veglia non sapeva dire se l’avesse pronunciato o solo pensato. Cosa importava? era la verità, non poteva considerarsi un peccato.
Invece sì, era una violazione alle regole che si erano imposti quando avevano iniziato a frequentarsi intimamente.
C’era una ragione se si frequentavano all’insaputa di tutti eccetto pochi amici fidati: avevano delle difficoltà oggettive che nessuno dei due poteva ignorare.
In primo luogo c’era la società, frequentarsi ufficialmente avrebbe potuto influire sul loro futuro da giocatori professionisti, nonché sulla loro immagine pubblica; in secondo luogo, la famiglia.  Shirabu non si preoccupava tanto per i suoi genitori. Erano persone normali, anonimi impiegati benché benestanti. Per la famiglia ricca e in vista di Wakatoshi (della madre), sarebbe stato scandaloso ed inaccettabile una relazione omosessuale.  Ricordava bene quello che l’asso gli aveva raccontato riguardo al divorzio dei suoi genitori. Nessuno dei parenti materni erano riusciti ad accettare completamente la storia d’amore fra lei ed un ragazzo di umili origini. Naoki non era poi così diversa da chi l’aveva cresciuta; aveva finito per trattare l’uomo che aveva scelto con sufficienza tipica delle persone convinte di essere superiori al proprio interlocutore; troppa freddezza fra di loro, una distanza diventata sempre più profondo fino al tracollo. A quel punto la separazione era stata una proforma. Il suo ragazzo segreto non sembrava averne sofferto molto, soffriva però l’assenza di suo padre partito per l’oltreoceano.
 
Come poteva sperare in un lieto fine?
 
Se quell’esternazione avesse disturbato l’altro, Ushijima non lo dette a vedere. A colazione mentre seguivano i telegiornali, si comportò come se nulla fosse.
 C’era la possibilità che non avesse udito, oppure non vi aveva dato troppo peso… Kenjiro non poteva giurarci e chiedere avrebbe aperto una discussione dolorosa per cui non era pronto ad ascoltare.
Troppo breve era lo spazio intercorso tra la compressione dei suoi sentimenti alla sentenza di morte di quell’amore, ai suoi occhi, appena nato.  Avrebbe continuato a fare quella vita fino alla fine dei suoi giorni, avrebbe accettato un matrimonio di facciata, qualsiasi cosa purché potesse averlo con lui.
«A partire da oggi ho tre giorni di riposo prima di riiniziare gli allenamenti» cominciò Wakatoshi posando la forchetta nel piatto: «che impegni hai?»
«Hm?» rispose il giovane davanti a lui, lo sguardo perso nel vuoto, le labbra sottili serrate in una linea durissima cercando di trattenere qualcosa dentro di sé.
«Che impegni hai in questi giorni?» ripeté.
Shirabu arrossì d’imbarazzo: «Oggi ho lezione alle dieci, il pomeriggio corro in palestra. Possiamo vederci a pranzo se vuoi.»
«Nel fine settimana non ho impegni.»
«Bene» sorrise.
Si accordarono per vedersi a pranzo mentre, per i giorni successivi, avrebbero deciso al momento.
 
Quando Shirabu uscì per andare all’università, Ushishijma decise di fare una corsa lungo i viali alberati del quartiere dove abitava. L’aria profumata dei primi fiori gli ricordava l’odore delle candele che spesso Kenjirou accendeva durante le loro cene, o dare un’atmosfera di luci e d’ombre alla loro camera, come la sera appena passata.
Non era bravo con i sentimenti e ancora peggio era parlare di sentimenti nonostante sapesse, avesse sempre saputo della loro esistenza.
Udire quelle due parole lo avevano lasciato sorpreso, non infastidito, semplicemente non si aspettava di sentirle.
Era troppo abituato a quel tacito consenso tanto che non aveva mai sentito l’esigenza di esprimere, definire formalmente ciò che c’era tra di loro; Era la persona che amava più al mondo e quella con cui voleva condividere i giorni e l’intimità più profonda.
 
Celare i sentimenti nel proprio cuore era la forma più nobile e profonda, oppure era una scappatoia vile perché desiderare era rischioso, ottenerlo significava pagare un caro prezzo?
Kenjiro stava soffrendo, in silenzio per amore suo, della mancanza di certezza che lui non poteva (o non voleva?) dare.
 
Wakatoshi decise che ne avrebbero parlato, quando il suo cellullare suonò per l’arrivo di un messaggio:
 
“Ehi amico!  Sei libero per una bevuta questa sera? -Satori”
“Dove?”
“XXX caffè. Ore 18:00.”
“Ok.”
 
Forse, prima di parlare con il diretto interessato era meglio chiedere un consiglio e Satori era la persona giusta, l’unico a cui riusciva a confidare ogni cosa perché il suo istinto non avrebbe mai sbagliato.
 
 
L’ex capitano della Shiratorizawa aspettava il suo amico del liceo appoggiato al muro dell’antica palazzina in cui era situati i locali del caffè scelto da Satori.
Non pensava a nulla in particolare: un tipo come lui era abituato ad agire, ragionare magari, ma riflettere su questioni di natura astratta non faceva per lui. Dopotutto non aveva l’anima del poeta.
Si accorse all’istante, perciò, del lampo rosso quando gli sfrecciò accanto senza   badare alla sua presenza e al fatto che, a momenti, non gli finiva addosso.
Hinata Shouyou balzò in braccio a Kageyama Tobio, fermo come lui a pochi metri di distanza, in un tripudio di grida e risa come se niente fosse; Là in mezzo alla gente stranamente indifferente alla macchia di colore e rumore che si era formata intorno al duo strambo del Liceo Karasuno.
Hinata sorrideva, parlava con la mano stretta intorno alla mano dell’altro ragazzo e con l’altra indicava qualcosa all’interno del negozio di articoli sportivi. Ad un certo punto, Kageyama si spinse verso l’altro per baciarlo, prima di sparire dietro l’angolo della via, tra la gente intenta a badare ai fatti propri.
 
Esterrefatto, Ushijima Wakatoshi rimase a fissare quell’immagine talmente tanto che seguitò a vederla quando ormai la coppia si era allontanata; l’aveva stampata in mente, nitida e indelebile.
L’invidia bruciava la gola fino a sentire il dolore delle viscere che dentro si muovevano trafitte da un ceppo di germi forte e distruttivo.
Hinata si perdeva qualsiasi cosa volesse grazie a quella feroce ambizione che gli permetteva di spingersi oltre ogni suo possibile limite.
 
«Olololo? *quella faccia arrabbiata non promette nulla di buono!»
Il super asso si riscosse e guardò in direzione della voce: alto e smilzo, con le mani nelle tasche, i capelli sparati in aria disordinatamente se ne stava Satori Tendo. Lo stesso sorriso suadente, quel tipo di espressione che, da un lato sembrava prenderti in giro, dall’altra invece appariva una minaccia.
«Ho visto…»
«Sono stato testimone anche io, sì,» lo interruppe il centrale, «pensavo lo sapessi.»
«Come avrei potuto?» chiese perplesso.
Tendo scoppiò arridere divertito, allungando il braccio sulle sue spalle spingendolo verso di sé in una mossa fraterna: «Già, già… le superstar non si interessano ai comuni mortali!»
 Lo lasciò andare per spingerlo in direzione del locale, blaterando che aveva voglia di bere e festeggiare perché erano vivi, giovani e pieni di speranze.
Si sedettero e ordinarono.
 Wakatoshi aggrottò le sopracciglia preso da un dubbio, non aspettò il modo giusto per esprimerlo, piuttosto, scelse quello delle domande dirette a brucia pelo:
«Etia ti ha buttato di casa, di nuovo?»
«No, come ti viene in mente? Mi offende, sai!» esclamò con tanto di mossa teatrale.
Non si diede la pena di rispondere.
Quando le ordinazioni arrivarono si lasciarono coinvolgere dall’atmosfera rilassata, dalla musica in sottofondo: bevevano parlando di cose leggere ed effimere; cosa facevano, qual era il prossimo matrimonio («Hayato si è rincitrullito all’improvviso, è tutto cuoricini e parole dolci»), come stavano andando i campionati, quale squadre erano forti o no. Parlarono anche di questioni più personali di vita quotidiana, finché non giunsero al “Fatto del giorno”.
 
«Non avrei mai detto che, il gamberetto e il genietto ti avrebbero sconvolto tanto!» continuò: «ti sconvolge il fatto di per sé o c’è dell’altro?»
Non rispose subito non perché l’altro lo avesse infastidito o per noncuranza: non sapeva esprimerlo a parole. Tendo sembrò capire perché non disse più nulla, aspettò pazientemente la risposta.
Quando finalmente trovò le parole giuste, ascoltò attentamente quello che l’amico aveva da dire, poi sospirò e cominciò:
«Nemmeno io ed Etia ci nascondiamo, sai?»
«Tu non giochi più…» 
«Non per questo è più facile. Devi scegliere, amico. Tra l’essere codardo o essere coraggioso.»  Tendo prese l’ultimo sorso di birra e lo guardò con un sorriso però i suoi occhi erano seri, fermi sui suoi. «Non avrei aperto bocca se tu fossi rimasto zitto, in ogni modo… Se stai aspettando qualche tipo di permesso per avere quello che desideri, beh sei un illuso.  Se vuoi qualcosa dei prendertela e basta.»  Satori fece una pausa poi concluse: «Chibi chan lo ha sempre fatto. Non puoi stupirti solo ora che sia arrivato molto più lontano di te. Su questo, almeno.»
Tendou aveva ragione sotto ogni punto di vista, non poteva negarlo, non era il tipo di persona che non ammetteva quando i fatti gli davano torto.
 
 
Quando si incontrarono l’indomani, Shirabu Kenjirou si accorse immediatamente del cambiamento avvenuto nel suo amante.
 In realtà non era un volto sconosciuto, una versione di lui in cui faticava a scorgere il giovane uomo, piuttosto a stonare era il contesto in cui lo vedeva.
Durante le partite il volto del super asso si trasformava: la determinazione e il carisma sembravano prendere una forma fisica ben definita. Chiunque l’osservava vedeva un atleta pronto a battersi con tutta la potenza, l’abilità che possedeva. Diversamente, durante ai loro incontri privati, aveva la rara possibilità di godere di un ragazzo più rilassato, disponibile a concedere sé stesso più di quanto lui avrebbe mai potuto sperare. Si era sempre sentito un privilegiato per questo.
Dunque, Wakatoshi sembrava pronto a dare battaglia, apprendersi la vittoria sebbene non ci fosse una gara ma un appuntamento.
«Ciao!»  salutò titubante cercando le chiavi nella tasca.
«Scusami se ti ho fatto aspettare.»
 Il sorriso, che Wakatoshi fece per ricambiare il suo, ebbe il potere di calmare il suo animo, forse era stata una sua impressione dovuta allo stress, hai pensieri che affollavano la sua mente nei ultimi giorni.
«Andiamo da qualche parte?»
«OK.»
 
Shirabu appoggiò il borsone in camera da letto, si sfregò il viso con le mani, nervoso. Non si era sbagliato, c’era qualcosa che non quadrava! Decise di non pensarci perché conosceva bene, la sincerità era una peculiarità del suo carattere per questo non lo avrebbe mai ingannato o lasciato nella nebbia più fitta.
Si cambiò velocemente e in circa mezzora fu pronto a partire. Presero l’auto verso Shibuya. Girarono per negozi, incontrarono anche alcuni conoscenti, ma non si fermarono mai.
 Decisero di pranzare nel loro ristorante preferito poi di fare una passeggiata a Shinjuku Goyen.
 
Stavano camminando dentro l’immenso parco, godendo del sole tiepido e dell’aria fresca quando arrivò il momento di mettere le carte in tavola perché non era loro abitudine rimandare le questioni in sospeso.  Erano rimasti già troppo in quella bolla senza tempo, senza prendere nessuna decisione. Andavano avanti trascinati dalla corrente, e no, non era da loro, per loro.
 
«Cosa c’è che non va Kenjirou?»
«Io? ma niente…» balbettò.
«Non importa, so di cosa si tratta. Vorresti ufficializzare la nostra relazione.»
«NO!» urlò preso in contro piede.
Quella non era una domanda, era un’affermazione: ed ecco giungere la fine, inesorabile, di ogni sogno e di ogni cosa bella.
Wakatoshi prese il suo viso tra le mani, sussurrò al suo orecchio: «Mi dispiace, è colpa mia.»
«Di cosa ti stai scusando? Perché non hai nessuna colpa io…»
«Di aver lasciato che tu pensassi che io non fossi interessato. Anche io lo voglio, Kenjirou, non è mai stato un gioco, sono sempre stato serio fin dal primo giorno.»
 Confuso e sconvolto l’alzatore osservò il viso del altro, così stranamente desideroso di parlare.  Erano lì nel mezzo della stradina nel tardo pomeriggio, troppo vicini per celare l’affetto che li legava e tuttavia il suo ex capitano non sembrava curarsene.
«Ti ricordi di Hinata Shouyou?»
«Me lo ricordo, sì,» rispose perplesso.
«Lo disprezzavo, non capivo la ragione di tanta determinazione, senza altezza, senza tecnica, come poteva voler combattere con la sola forza di volontà? era una convinzione contro ogni ragionevolezza.»
«La verità è che sbagliavo io, mi è sempre stato superiore.»
Shirabu fu colto dal desiderio di negare, di dire che non era assolutamente vero, aprì e chiuse la bocca per il gran sdegno.
«Non dal punto di vista di giocatore, ma come spirito,» si affrettò a spiegare, «se non si è disposti a lottare e a sacrificare qualcosa, non si potrà mai ottenere nulla.»
«Ci sono sogni irraggiungibili.» ribatté Kenjiro disilluso da ogni speranza.
Ushijima scosse la testa: «La Karasuno ci ha sconfitti quando nessuno avrebbe mai scommesso sulla loro vittoria…»  fece una pausa, «è creandosi opportunità, pretendendo di avere ciò che meritiamo possiamo diventare qualcuno di valore. Hinata Shouyou con la sua corporatura esile e la sua forza d’animo potrebbe diventare qualsiasi cosa… niente può cancellare la possibilità di sconfitta, ma non potrai mai rimpiangere nulla.»
Durante tutta la discussione non si erano mai separati, gli occhi incatenati, respiravano all’unisono colpiti da una misteriosa magia, bella e terribile.
«Al contrario, saremmo solo candele che con la sua fiamma brucia sé stessa finendo con lo spegnersi…» lo schiacciatore si abbassò ancora, gli accarezzò il viso fino a toccare il labbro inferiore, «i rimpianti sono insopportabili, Kenjirou.» sussurrò a due centimetri dal suo volto.
 
Tornare a casa sua fu un vero tormento, un viaggio lunghissimo che parve durare anni, forse secoli. Aveva aspettato così tanto poterlo amare sapendo di essere un noi, senza più segreti: gli era sembrata, all’inizio una cosa di poco conto, cosa importava se il mondo sapesse? Cambiava ogni cosa, invece.
Entrati in salotto, il ragazzo più alto si fermò in piedi davanti al tavolino dove erano appoggiate le candele preferite di Shirabu; quasi in estasi le toccò impercettibilmente e prima di prendere l’accendino lì accanto.  Spinse l’accensione più volte, poi diede fuoco ai stoppini, una per una le candele presero vita, così effimere, così affascinanti.
Solo allora lo baciò, prima uno poi un altro, un altro ancora, sempre più impetuosi, più urgente diventava la voglia; Gambe intrecciate, graffi sottili sulla pelle nuda e arrossata dalle carezze. Si amarono lì, sul tappeto, alla luce di quelle candele, che presto o tardi si sarebbero consumate.
Ma il loro amore, no, avrebbe continuato ad ardere.
 
 

 

*Espressione usata da Tendou
 
 

Note

 
[Dal generatore di prompt di Fanwriter.it]
I personaggi principali: Shirabu Kenjirou, Ushijima Wakatoshi [WakaKen]
Prompt: Candele
Genere principale: Introspettivo
BONUS: Da amici ad amanti

 

   
 
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