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Autore: Alicat_Barbix    11/09/2017    1 recensioni
Nel 2130 il mondo non è più contaminato dalle diversità. Diversità che hanno portato a lotte e guerre sanguinose nel corso dei tempi. La nuova società si impegna ad eliminare tutti gli Incompleti. Il diverso deve essere schiacciato. Ma come in ogni organizzazione, anche in questa c'è una falla.
Sherlock Holmes e John Watson si incontreranno quando meno se l'aspettano, ma saranno dalla stessa parte? Ma se così non fosse, cosa comporterebbe la nascita di qualcosa di forte, qualcosa di pericoloso?
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 3

 

Il 221B di Baker Street era avvolto da un paludoso silenzio. La pioggia non aveva smesso di scrosciare e le nubi inghiottivano il firmamento cupo della notte. Soltanto il vecchio orologio a pendolo infisso alla parete osava spezzare quella pace innaturale.
Sherlock e John erano seduti ognuno sulle rispettive poltrone. Erano passati circa dieci minuti da quando erano saliti per parlare, ma ancora nessuno dei due sembrava veramente pronto: uno a raccontare e l’altro ad ascoltare. La verità si erigeva fra di loro come un muro. Un muro che li teneva distanti. Un muro che entrambi volevano abbattere.
Ma quant’era difficile la verità…
Fu un qualcosa di inaspettato a rompere definitivamente quella situazione di equilibrio: un tuono. Fragoroso, minaccioso come una fiera. La luce saltò improvvisamente e oltre al silenzio, regnò l’oscurità. Il buio li abbracciava nelle sue spire paterne, li cullava, li proteggeva. La verità non sarebbe risultata così devastante in quelle tenebre. Potevano farcela.
John si schiarì nervosamente la gola: era arrivato il momento. “Allora, da dove comincio?” Prese a tormentarsi le mani concitatamente. “Il segreto del quale non ho voluto parlarti l’altra sera… Ecco…” Un lungo e profondo respiro gl’infuse la forza di abbandonarsi alle parole, ai ricordi, di smettere di preoccuparsi per quello che sarebbe stato. Basta paura. “…Io gli Incompleti non li compatisco e basta: li aiuto. Ho rimediato una base nel Sussex: una vecchia fattoria scampata ai bombardamenti. E’ lì che vado quando non sono impegnato all’ambulatorio; diciamo che è quella la mia casa.”
Sherlock rimase in silenzio nonostante quell’ultima affermazione gli avesse procurato un senso di malessere inspiegabile.
“Lì accolgo gli Incompleti e li tengo al sicuro finché non riesco a farli espatriare tramite una rete di contatti miei e di Molly, la mia collaboratrice. E, bè, quella sera…” Il solo ricordo inflisse al medico una scarica di dolore. “…quella sera ho scoperto che un gruppo di loro che avrebbe dovuto imbarcarsi per Cuba è stato intercettato dalle guardie e…”
“Non serve, John. Ho saputo.” lo interruppe Holmes con una leggera vena apprensiva nella voce.
“Già…”
Calò nuovamente il silenzio e in quella mistura di parole non dette e pensieri non espressi, a John sembrava quasi sentire il suo battito cardiaco risuonare ovunque, irradiarsi in tutto il corpo a ogni pulsazione del suo cuore scorticato.
“Da quanto tempo fai… quello che fai?”
La domanda arrivò a bruciapelo e inaspettata come uno schiaffo in pieno volto. Da quanto… Quando hai iniziato… Perché hai iniziato… Che cosa c’era prima… Chi c’era prima…
Quel capitolo della sua vita era una porta in corrente che continuava ad aprirsi e a sbattere senza controllo. Il suo passato sembrava così impalpabile in quel momento, così inspiegabile… Ma ormai era in ballo, tanto valeva ballare.
“Circa sei anni.” rispose il medico piegandosi sulle ginocchia, come se la comodità non fosse adatta a quella storia. “Io… Ho fatto una cosa terribile, Sherlock. Una cosa che non riesco a scrollarmi di dosso.” Arricciò le labbra prendendosi il tempo necessario durante il quale gli occhi di Holmes vagarono nell’oscurità alla ricerca dei suoi. “Ho fatto del male ad una persona che amavo con tutto me stesso.”
Sherlock ricordò la foto e si sentì in parte dilaniare da quel bel sorriso e da quella frase così melliflua come la melassa scritta sul retro. Era quella donna. Era quella donna che viveva nelle parole di John, ne era certo. Presto, con il suo racconto, avrebbe preso forma, sarebbe tornata da lui, gli sarebbe stata accanto. Strinse inconsapevolmente il pugno sul bracciolo della poltrona, facendo sbiancare le nocche.
“Mia sorella.”
Holmes sgranò gli occhi, basito. Sua sorella? Sua sorella?! La sorella citata nel fascicolo? La stessa sorella alcolista che se n’era andata di casa?
“Si chiama Harriet. Io le volevo molto bene, nonostante il nostro rapporto conflittuale: litigavamo spesso sia da bambini che una volta diventati più grandi, ma nel momento del bisogno c’eravamo l’uno per l’altra. Lei mi chiamava il mio mostriciattolo, e il bello è che a me piaceva quel soprannome.” Una risatina amara fuoriuscì dalle sue labbra e venne assorbita dalle pareti della stanza. Il sorriso che si era formato al ricordo degli anni felici trascorsi con la sorella, sfumò a poco a poco, fino a svanire. “Poi, gli anni sono passati e la nostra relazione è diventata… complicata. All’età di diciassette anni Harry ha cominciato a bere e a farsi di tutto quello che trovava in giro. Io ho cercato disperatamente di aiutarla, di farle capire che c’ero, ma lei mi respingeva, mi allontanava. E così, giorno dopo giorno, tutto quello che c’era stato fra noi si è sgretolato.”
John si passò una mano sul volto. I ricordi erano troppo vivi, troppo lontani, troppo dolorosi. Quell’infanzia trascorsa a bisticciare per un giocattolo era scemata via, lasciando il posto a liti furiose e ai tonfi del corpo della sorella ubriaca sul letto accanto al suo.
“Poi nella sua vita arrivò una persona. Peter. Era un suo compagno del college che le faceva la corte da quando erano ragazzini. Quando aveva quindici anni, Harry mi parlava continuamente di lui, di quanto fosse fastidioso, di quanto non sopportasse averlo trai piedi. Ma quando si sono rincontrati al college, tutto è cambiato. Si sono messi insieme e la loro storia è andata avanti per qualche anno, finché lui non le ha chiesto di sposarlo. E lei ha accettato.”
Sherlock si alzò mentre ancora John parlava. Si diresse con passi frettolosi verso la credenza dove tenevano lo Scotch e riempì due bicchierini. Watson rifiutò il suo con un gesto della mano e si limitò a schiarirsi la gola.
“Il matrimonio venne organizzato in fretta e furia: niente abito da sposa, niente torta e pochi invitati. Era come se Harriet facesse tutto… contro natura.” Quelle ultime parole gli disegnarono un sorriso amaro in volto. “In tutto quel tempo i suoi vizi non erano cambiati. Anzi sì, erano peggiorati. Mi capitava spesso di dover uscire nel cuore della notte e andare a prenderla in qualche discoteca con la macchina di mio padre. Così, il giorno dell’addio al nubilato, ho seguito di nascosto Harry e le sue amiche e mi sono infiltrato nel party per impedire che facesse qualche sciocchezza. Ma tutto mi sarei potuto aspettare meno che trovarla a letto con una donna.”
 
***
 
Quella sera era scolpita a fuoco nella mente, come un tatuaggio che insinua il suo inchiostro sottopelle. Se chiudeva gli occhi, John poteva ancora rivedere sua sorella quasi completamente nuda, che si baciava con una delle sue amiche d’infanzia.
“Quando l’ho vista io… ho dato di matto. L’ho trascinata via, raccogliendo tutti i vestiti e urlandole di rimetterseli addosso e di venire a casa con me. Quella sera, stranamente, non era ubriaca. E chissà, forse sarebbe stato meglio.”
Male. Quella scena faceva un male tremendo, la voce di Harriet sbraitava nelle sue orecchie così come la sua.
“Che cazzo hai in testa!?” aveva urlato lui mentre la conduceva in disparte, abbastanza lontano dalla sala da ballo per poter parlare con sua sorella nonostante la musica, ma non troppo distante per non destare sospetti nella gente.
“Ma si può sapere che te ne frega? Lasciami, mi fai male!”
La presa sul braccio della sorella non si era allentata. “Non credevo che l’alcol potesse farti anche questo effetto! Ti sei ridotta ad andare a letto con una donna, Harry! Una donna!”
“Lasciami!”
“Cosa credi sarebbe successo se fosse arrivato qualcun altro, eh? Ti avrebbe consegnato all’Inquisizione!”
Harry era riuscita a divincolarsi dalla presa. “Meglio! Almeno smetterei di essere quella che non sono!”
John si era bloccato e l’aveva guardata come se fosse una pazza. “Che vuoi dire?”
Delle lacrime di rabbia avevano cominciato a premere sugli occhi della sorella. “Tu non lo sai com’è! Essere diversi! Essere giudicati per quello che si è! Vivere in una famiglia da cui devi nasconderti!”
“Mi stai dicendo…”
“Sono lesbica! Okay? Sono una cazzo di lesbica! E’ giusto giudicarmi per questo?”
John le aveva tappato la bocca e l’aveva trascinata fuori dal locale, mettendole addosso la sua giacca. Avevano camminato un po’ per le strade deserte della Londra periferica. E se solo il John Watson di vent’anni fosse stato come il John Watson di trentaquattro anni… “Ci dev’essere un errore.” Fu tutto quello che era riuscito a dire.
Harry lo guardava con faccia allucinata. “Un errore? Dio, John, sono io! Sono sempre tua sorella! Non sono un errore!”
“La nostra famiglia… E’ fedele allo Stato, non è possibile che ci sia un Incompleto.”
Una risatina nervosa aveva riecheggiato assieme ai loro passi. “Ma ti senti, John? Parli esattamente come loro! Come quei puritani del cazzo che non fanno altro che sputare sentenze!”
“Non parlare così del Governo, Harry!”
Harriet si era arrestata in mezzo alla strada, i pugni serrati, il corpo intero che tremava. “Non ho bisogno di un altro giudice, John. Ce ne sono già abbastanza.” Gli aveva preso la mano con un affetto e una dolcezza che sembravano così lontani da allora. “Ho bisogno di un fratello. Di mio fratello. Ho bisogno di te, John.”
Negli occhi della sorella John aveva letto un gomitolo di progetti, di piani, di fughe… Aveva avuto paura sotto quello sguardo così deciso e così maledettamente bello. Si era ritratto di scatto, allontanandosi da sua sorella come da un appestato.
“E’ la tua vita, Harriet, che è sbagliata! Non la mia! In questi anni non ho fatto altro che starti accanto, ma tu mi hai sempre tenuto a distanza! E ora pretendi che vada contro l’Inquisizione, contro mamma e papà?”
“Te la fai sotto come un moccioso di tre anni, John! Quand’eri bambino ti piaceva non rispettare le regole. Ti faceva sentire vivo, ti divertivi! Ammettilo!” l’aveva schernito la sorella incrociando le braccia al petto.
“Questo è diverso, Harriet! Sei un’Incompleta e questa è l’unica cosa che conta adesso! Sei sempre stata brava a far fare agli altri ciò che volevi. Ma io sono stanco di correrti appresso come uno stupido cagnolino. Hai capito? Sono stanco di te e delle tue cazzate!”
Era calato il silenzio. In lontananza si poteva udire la musica a palla del locale e le risate degli invitati che festeggiavano una persona che non era più lì con loro. E che forse non c’era mai stata.
“Credi che la tua vita senza di me sarebbe stata migliore?” Non c’era rabbia nella voce di Harriet. Non c’era odio. Solo un’amarezza sconfinata.
John le aveva puntato addosso uno sguardo intenso. “A volte lo penso, sì.”
La sorella aveva annuito un paio di volte, come per assimilare quella risposta. “Bene. Mi dispiace di aver reso la tua vita un Inferno, John.”
Quando l’aveva vista voltarsi, il fratello le era corso dietro e le aveva ghermito il braccio. “Dove vai? Andiamo a casa.”
“E’ la mia ultima festa da non sposata e gradirei godermela.” aveva replicato lei strattonando via il polso.
“Vuoi dire che…”
“Non ti creerò altri problemi. Mi sposerò con Peter e smetterò di essere la sorella che non hai mai voluto.” Era voltata, cercava di contenere i fremiti alla voce, di non far vedere le lacrime che le rigavano le gote. “Vai a casa, John. Ci vediamo domani alla cerimonia.”
 
***
 
E lui se n’era andato. Perché diavolo se n’era andato?
“L’indomani non si è presentata in chiesa e neanche a casa. Né il giorno dopo, né il giorno dopo ancora. Da quella sera, non l’ho più vista, né sentita. L’ho cercata in lungo e in largo per anni, sapendo che era tutta colpa mia, che mia sorella aveva sofferto a causa mia. Era un’Incompleta, è vero, ma era anche mia sorella. E io l’avevo cacciata dalla mia vita. Sei anni fa ho dato il via all’attività di ospitalità degli Incompleti nella speranza che, prima o poi, alla mia porta avrebbe bussato anche mia sorella. Ma la verità è che – anche fosse ancora in Gran Bretagna – non verrebbe mai da me, dal fratello che non ha saputo amarla per quello che era. Però, ancora ci spero.”
Quelle ultime parole vennero inghiottite dal ronzio delle lampade spente che sembravano volersi rianimare. John aveva lo sguardo perso nel vuoto, le mani che coprivano parte del volto come se si vergognasse di tenerlo scoperto anche al buio.
La disperazione di Harriet gli straziava il cuore, la sua stupidità glielo martellava e il suo no glielo spappolava. Una danza di emozioni su un palco pulsante, un turbinio di ricordi attorno ad una vecchia cicatrice.
Sherlock si limitò ad alzarsi e da sotto il cappotto tirò fuori la fotografia di Harriet. Raggiunse la poltrona di John al buio, camminando lentamente, e si chinò di fronte a lui, l’immagine della ragazza in mano. Nel buio, gli occhi del medico riconobbero la speranza a cui si era aggrappato per tutto quel tempo. La prese con cura e attenzione, la strinse al petto e dentro di sé cominciò ad urlare il nome di una sorella che non meritava.
“E’ colpa mia, Sherlock. Lei mi ha chiesto aiuto e io l’ho respinta.”
Il tono in falsetto tradì l’angoscia di John. Qualcosa di inaspettato trapassò il petto di Sherlock con così tanta violenza che quasi venne sbalzato all’indietro. Un dolore che andava oltre la fisicità. Un dolore che in realtà non gli apparteneva.
Il dolore di John. Lo sentiva scorrere nelle vene, mescolarsi col suo sangue, pulsare al ritmo del suo cuore.
Tradire John… Assurdo. Gli sembrava così lontano quell’iniziale piano. Fargli del male… Impossibile. Non voleva farlo soffrire. Non voleva.
La sua mano si mosse praticamente da sola, senza che potesse controllarla. Le sue dita affusolate da violinista si strinsero attorno a quelle più tozze di John. Una scarica elettrica invase entrambi a quel tocco. Il pollice di Sherlock si muoveva lentamente sul dorso della mano di John, come se volesse scacciare via ogni preoccupazione, ogni sofferenza, ogni cosa brutta che potesse insinuarsi nel suo cuore, nei suoi pensieri.
Le lampade gracchiarono di nuovo e bastarono pochi secondi perché la stanza venisse inondata nuovamente dalla luce. Ecco la luce. La luce scopriva i segreti, le maschere. La luce rivelava fatti e misteri che sarebbero dovuti restare tali.
La luce avrebbe dovuto spaventarli. Farli allontanare.
Ma le loro mani rimasero legate come i ganci di ferro che tengono uniti due vagoni di un treno. I loro occhi si incontrarono inaspettatamente, quasi per caso, quasi non riuscissero ad obbedire al comando dei padroni di stare lontani.
Con l’altra mano, Sherlock sfilò dolcemente la fotografia di Harriet delle dita di John e la guardò con attenzione. Riconobbe il sorriso, dolce e sbarazzino. Gli occhi, vivi e pulsanti. I capelli, dorati e luminosi. In quell’immagine c’era così tanto di John, così tanto dell’uomo a cui teneva la mano in quel momento.
John restò in silenzio a fissare Sherlock che lo cercava nella foto di sua sorella. Lo capiva dal guizzo intermittente delle sue labbra. Ogni qualvolta che i suoi occhi intercettavano una somiglianza, sorrideva appena. Ed era così… bello quel sorriso malcelato.
Allungò la sua mano verso il viso di Sherlock e le sue dita catturarono un ciuffo ribelle che ricadeva sulla fronte dell’altro. Holmes distolse lo sguardo dalla fotografia e immerse nuovamente i suoi occhi in quelli di John. Il medico scostò il ricciolo corvino e lo assicurò dietro l’orecchio dell’altro.
Una tensione magnetica li attirava uno verso l’altro come se l’aria che respirassero stesse diradandosi e si concentrasse nello spazio ristretto che c’era fra di loro. Ed entrambi avevano bisogno di respirare. Avevano bisogno di avvicinare i loro volti in cerca di aria. Avevano bisogno l’uno dell’altro.
Il silenzio venne spezzato improvvisamente dallo squillo del cellulare di John. Sia lui che Sherlock sobbalzarono e le loro mani si staccarono velocemente, come scottate l’una dal tocco dell’altra. Il medico si mosse goffamente attraverso la stanza, inciampando e sbattendo, arrancando verso l’appendiabiti dove era attaccato il suo giubbetto con dentro il telefono.
“Pronto, Molly.”
“Devi venire qui subito!”
“Perché? Cos’è successo?”
“Una donna.”
“Una donna?”
“E’ arrivata mezz’ora fa, non so da dove sia sbucata. Ha la febbre alta, John, delira e…”
“E cosa?”
“Chiede di te.”
“Che cosa?”
“Nel sonno urla il tuo nome.”
***
 
L’auto era immersa nel silenzio. Il vetro del cruscotto era levigato dalle gocce di pioggia. John guidava in silenzio, le mani chiuse sul volante e lo sguardo fisso sulla strada che sfilava come una passerella sotto le ruote della sua Land Rover. Non riusciva ancora a credere alle parole di Molly.
Una donna. Che chiamava. Il suo nome.
Pezzi di frase che gli turbinavano in testa senza controllo, impazziti. La foto di Harriet riposava dolcemente nella tasca interna del suo giubbetto, al sicuro dalla pioggia, dal vento, dal mondo. Sua sorella non avrebbe più sofferto. Mai più.
Nella macchina, vi era una seconda persona che taceva a sua volta. Per ragioni diverse, è vero, ma il mutismo, il silenzio, riparano da qualsiasi tipo di emozioni. Sherlock tamburellava con le dita sul suo ginocchio. Con quelle stesse, dannate dita che avevano stretto la mano di John. Non riusciva più a controllare quel movimento nervoso. Semplicemente, non poteva. E i suoi occhi non facevano che correre in direzione di Watson ogni qual volta che la sua mano sinistra si protendeva verso di lui… per poi afferrare il cambio e ingranare la marcia.
“Sherlock?”
La voce di John gli procurò un salto del cuore.
“Sì?”
“Credi… Sì, insomma, credi che sia lei?”
Holmes non rispose subito e meditò attentamente su quella domanda. “Non saprei, John. E’ probabile. In fondo, quale altra donna sarebbe interessata ad arrivare fino alla fattoria con la febbre e urlerebbe il tuo nome nel sonno…”
Le parole gli morirono in gola quando ripensò al fascicolo. Nessuna relazione stabile. Sarah Sawyer. Quattro mesi insieme. Con Sarah era diverso…
“Insomma, ci sono buone probabilità.” concluse per scacciare quei pensieri bizzarri che non capiva da dove saltassero fuori.
John sorrise, senza staccare gli occhi dalla strada. “Sherlock?”
“Sì?”
“Grazie.”
 
***
 
Scesero lentamente, incuranti della pioggia che li battezzava. John avvertiva il suo cuore esplodere. Lui e sua sorella. Dopo tutto questo tempo. Insieme. E inoltre, la vicinanza di Sherlock gli faceva bene. Gl’infondeva… serenità.
Molly aprì il portellone della fattoria e corse loro incontro, ma quando scorse la figura di Sherlock s’immobilizzò e restò a fissarlo incredula – cosa che Holmes interpretò come un John, sei matto a portare uno sconosciuto qui?, mentre Watson come un oh mio Dio, ma è vero? –.
“Lui…”
“E’ con me.” l’anticipò John superandola frettolosamente per due ragioni principali: il desiderio di vedere Harriet e… Bè, la seconda meglio non contemplarla per niente.
“Io sono Molly.” cinguettò la ragazza protendendo una mano verso Holmes.
“Le presentazioni preferirei farle dentro.” rispose secco lui, infastidito dalla pioggia e dalla vocetta di quella donna che non gli staccava gli occhi di dosso.
L’ambiente in cui Sherlock entrò era caldo e accogliente: la stanza era puntellata da tante stufe e tanti giacigli su cui riposava beatamente una moltitudine di persone di colore. John si guardava attorno febbrilmente, così elettrizzato che non gli passò in mente neanche per un istante l’idea di chiedere a Molly dove si trovasse la donna in questione.
“E’ al piano di sopra, nel fienile.” disse infine la ragazza costringendosi a non fissare lo sconosciuto dal cappotto scuro.
Watson la ringraziò senza troppa enfasi e sfrecciò al piano di sopra, salendo a due a due i gradini con le sue gambe forse un po’ corte.
“Non mi ha detto…” pigolò Molly rivolgendosi a Sherlock solo per constatare che lui era già partito all’inseguimento del medico.
Di sopra, la paglia aveva reso tutto ancora più caldo. Su un lettino mezzo sfasciato, avvolto da pesanti coperte, stava un corpicino tutto rannicchiato su se stesso. John si avvicinò con solennità, quasi temendo di scostare lenzuola e quant’altro e di non trovare la persona che cercava da anni. Ma il suo cuore ormai batteva lento, sicuro. Sua sorella era lì. Lo sapeva. Lo sentiva.
“Le ho dato un antidolorifico un’ora fa. Potrebbe riprendersi a momenti.”
Il pesante gomitolo di coperte impediva a John di scorgere la figura di sua sorella. Si portò una mano al petto – alla parte destra, più precisamente – e le sue dita sfiorarono la fotografia. I ricordi lo vennero a trovare come dei sicari assoldati per toglierlo di mezzo: Harriet con una donna, Harriet che lo supplicava, Harriet che chiedeva il suo aiuto, Harriet che se ne andava trattenendo le lacrime.
Allungò la mano verso le lenzuola e con meno delicatezza di quanto avesse voluto tirò via le coperte dal viso della donna. Il suo cuore rallentò. Ancora e ancora.
Tum…tum.......tum………………
Il volto assopito era disteso in un’espressione angelica, gli occhi dolcemente chiusi, i capelli impiastrati di sudore le avvolgevano il viso.
L’immobilità s’impadronì di ogni parte del corpo di John. Sherlock osservò quelle spalle rigide, quelle mani chiuse a pugno, quella nuca protesa in avanti. Si avvicinò piano, senza però affiancarlo, come rispettoso di quel momento di intimità di cui il medico necessitava. Si sporse appena oltre la sua spalla e finalmente la vide.
Sul letto era adagiato il corpo di una giovane donna dal volto coronato da un caschetto castano. Holmes ripensò ai lunghi capelli biondi di Harriet, al suo naso leggermente inarcato verso il basso, alle sopracciglia pronunciate…
No. Non Harriet.
Le membra di John si afflosciarono improvvisamente, come se le gambe non reggessero più il suo peso, come se l’effimera gravità che dominava sul mondo con le sue sporche leggi lo stesse attirando verso terra. Sherlock lo afferrò al volo da dietro e lo strinse al petto per impedirgli di cadere.
“Non è…” biascicò il medico.
“Lo so.”
L’intero corpo di non Harriet venne scosso da un fremito e le sue labbra si schiusero in un gemito strozzato: “John…Watson.” Un alito di vento s’insinuò attraverso le travi di legno del fienile, spirando sul volto della giovane, provocandole un’intermittente sbattimento delle palpebre.
I suoi occhi si spalancarono di colpo. Occhi grandi, di un colore indefinito, tra il verde e il marrone. Occhi stanchi e affaticati. Occhi indagatori.
Occhi abituati a cercare. Come quelli di John.
Si tirò su di scatto, ritraendosi da quegli sconosciuti che la fissavano. Il medico puntò i piedi a terra, liberando Sherlock del suo peso e si ricompose, lo sguardo puntato su una speranza che era appena scemata via.
Non Harriet si tirò le coperte fino al naso, come a volersi nascondere, proteggere. “Dove mi trovo?”
“In una fattoria del Sussex. Come ti senti?”
La ragazza rimase immobile a studiare Watson. Il medico si sentiva stranamente esposto – certo, non come quando si trovava sotto lo sguardo intenso di Sherlock – ma qualcosa gli attanagliava ugualmente le viscere.
“John?” mormorò infine lei abbassando di poco le sue difese. “John Watson?”
John si voltò in direzione di Holmes. I loro sguardi restarono incollati per diversi attimi. Un muto scambio si susseguì all’interno dei loro occhi. “Sì.” rispose turbato Watson non sapendo se fidarsi o meno di quella sconosciuta. “Come fai a sapere il mio nome?”
Le labbra della ragazza si sciolsero in un sorriso sollevato. “Tu sei John… Sei John.” La sua voce era flebile, appena percettibile, il volto arrossato dalla febbre e gli occhi striati da venature sanguigne. “Sei John… Sei…”
Non fece in tempo a terminare la frase che le palpebre si chiusero come una trappola sulle iridi, la schiena ricadde pesantemente sullo scomodo materasso. Quando Molly si avvicinò per misurarle la febbre, si accorse che si era assopita.
“E’ molto forte. Poverina, chissà che cosa deve aver passato per arrivare fin qui tutta sola.” constatò rimboccandole le coperte.
John si abbandonò su una balla di fieno accanto al letto, le dita intrecciate appoggiate alle labbra. “Va’, Molly. Ora ci penso io.”
“Sei sicuro?”
“Sì.”
La dottoressa fece un cenno col capo prima di dirigersi a passo saltellane verso Sherlock. “E’ stato un piacere signor…”
“Holmes.”
Molly accennò un sorriso radioso prima di sgattaiolare al piano di sotto, lasciando Watson e Holmes da soli con le loro croci in spalla.
Sono uno stupido, stupido! Come ho potuto pensare che potesse essere lei? si ripeteva John sfregandosi la nuca con la mano.
Sherlock rimase immobile per qualche istante, incapace di discernere cosa fare: mostrare a Watson la sua vicinanza, o lasciargli il suo spazio? In fondo, lui non era nessuno per John. Solo un coinquilino. E John non era niente per lui. Solo un coinquilino. Uno scomodo coinquilino. Scomode emozioni. Scomodo John Watson. Pericoloso John Watson.
“Sherlock,” lo chiamò il medico distogliendo l’ex inquisitore dai sui pensieri. “che cosa credi che debba fare?”
Holmes dapprima non si mosse, ma poi gli occhi dell’altro lo attirarono a sé. Camminò lentamente, lasciando che i suoi passi echeggiassero per il fienile ristagnante. Qualche gocciolina d’acqua piovana doveva essere riuscita a trovare un varco nel tetto, perché tutto ciò che si poteva udire era un continuo plic, ploc.
Sherlock prese posto accanto a John. “Non ne ho idea.”
“Andiamo, tu sei Sherlock Holmes! Sai sempre cosa fare.”
Un sorriso amaro comparve sulle labbra di Holmes. “No, John, non sempre.” Prese un respiro profondo, durante il quale il plic, ploc divenne più insistente. “Sono passati tanti anni. Harriet potrebbe non essere neanche più in Gran Bretagna. Magari ora si trova in un posto migliore, dove non è costretta a nascondersi per ciò che è.”
“Io volevo solo dirle tutto ciò che non sono riuscito anni fa. E’ troppo tempo che dentro di me covo queste parole e francamente non so più se ingoiarle a forza o lasciare che continuino a riposarmi in gola.”
Sherlock pensò alla sua di sorella. Alle parole che lui non era riuscito a dire. Lui e quel medico erano più simili di quanto non volesse ammettere. Entrambi avevano alle loro spalle un passato che gravava su di loro con insistenza e li soffocava, occludendo loro la gola con frasi e frasi che non sarebbero mai potute essere urlate. Almeno per lui.
“Anch’io ho una sorella.” John si voltò di scatto, uno sguardo stupito dipinto sul viso. “Si chiama Eurus… si chiamava. E’ morta una decina di anni fa.”
“Dio… Hai voglia di… parlarne?”
Sherlock si girò a sua volta e osservò per qualche secondo l’espressione sinceramente addolorata dell’altro. “Ti somigliava moltissimo. Anche lei era una ribelle. Diciamo che… si è innamorata dell’uomo sbagliato, agli occhi dello Stato. Mark. Era uno a posto, ma non per la Patria. Le ha messo in testa idee di pacifismo e di uguaglianza, ha appiccato un fuoco che non sarebbe più potuto essere domato. Idee che li hanno spinti a…” Sherlock si interruppe e arricciò le labbra, sperando che le parole non venissero meno. “…a compiere un gesto stupido, suicida. Sono saliti sul Justice Podium durante un’esecuzione e hanno protestato per le crudeltà e l’ingiustizia della Patria. Sono stati fucilati seduta stante di fronte a tutti.”
Gli occhi di John si accesero di consapevolezza. “Ma sì, ora ricordo! La notizia ha fatto il giro di tutta Londra. Per la gente comune fedele allo Stato erano dei traditori ma per gli Incompleti il loro gesto ha significato la presenza di una speranza.”
Sherlock si limitò ad annuire. Lui era lì, quella mattina. Una testa fra una miriade di teste. Ricordava alla perfezione la sensazione claustrofobica che si impadroniva di lui ogni volta che si trovava ammassato fra altre persone. E Mycroft… Mycroft era come sempre in prima fila: maestoso e terribile in tutto il suo aspetto tirannico. Poi delle urla, spintonamenti vari, una testa che gli ricordava quella di sua sorella. E infine, eccola lì: bella e coraggiosa mentre alzava la bandiera con il simbolo della pace. Bella anche quando il sangue le dipingeva il giubbotto da motociclista. Bella persino quando cadeva sul palco e moriva.
“Eurus è stata abbindolata da un folle.” si era giustificato il fratello in risposta al suo scatto d’ira. “Doveva essere eliminata, fratellino. Era diventata una nemica.”
Troppo sangue scorreva per le vie di Londra. Venezia – in confronto – con i suoi canali intriganti e le sue romantiche gondole, non era niente. Londra stava marcendo. Ferite sempre più profonde si aprivano fra quelle case, quei monumenti, quei folli. Quella città maledetta dalla pazzia umana ci sarebbe affogata nel suo sangue, soffocata dall’odore di morte.
“Sherlock?”
Holmes si riscosse e si accorse di essersi velato il viso con una mano. John era a fianco a lui, una mano che gli circondava le spalle. Una stretta rassicurante. Amichevole.
“Scusa, ero sovrappensiero.”
“Non fingere con me, Sherlock.” lo rimproverò bonariamente l’amico rafforzando la presa della mano sul suo braccio. “Se stai male o hai qualche problema, puoi contare su di me. Sempre.”
Nessuno, in tutta la sua esistenza, gli aveva mai offerto supporto o una spalla a cui aggrapparsi. Nessuno. Mai. Solo John Watson. “Grazie, John.”
“Grazie a te.”
 
***
 
Si era addormentato sulla sua spalla. Alla fine, la testa pesante gli era caduta addosso e lo aveva svegliato dal suo sonno tormentato dagli incubi. John sorrise tra sé e sé nell’odorare il profumo della pioggia tra quei ricci ribelli.
Dalla piccola finestra circolare cominciavano a filtrare le prime pallide luci dell’aurora. Era bello essere svegliati da Sherlock. Sentire la sua testa sulla spalla. Accorgersi del braccio che ancora ghermiva le spalle di lui. Si rese conto solo in un secondo momento dell’assenza del cappotto. Gli bastò un movimento per capire dove fosse finito. Il pesante tessuto lo avvolgeva materno, infondendogli un dolce calore che lo aveva pervaso in pochi istanti.
“Sherlock…” mormorò divertito John appoggiando il mento sul capo dell’altro. Fu in quel momento che capì. Che realizzò. Quel calore, quei ricci, quel cappotto, quel braccio ancora attorno alle spalle, quella sensazione di protezione e di costante serenità…
No, non poteva essere. Non DOVEVA essere. Lui non era…
Sherlock mugugnò nel sonno, biascicando una serie di borbottii indecifrabili.
No… No, no, NO!
John si staccò quasi violentemente da lui e il corpo di Holmes – trovando il vuoto – crollò a terra con un tonfo sonoro.
“Ma che diavolo!” si lamentò l’ex inquisitore massaggiandosi la mascella. Watson aveva sfruttato quel momento di smarrimento per allontanarsi il più possibile. Da Sherlock, da quel NO, da non Harriet…
La ragazza! Quasi se n’era dimenticato. Corse in quella direzione, ostentando freddezza nel momento in cui avvertì lo sguardo di Holmes sulla sua schiena. La febbre era scesa, fortunatamente, e anche il volto della giovane sembrava aver riacquisito un colorito naturale.
“Posso fare qualcosa?” sussurrò Sherlock ancora assonnato. John inventò una scusa qualunque per spedirlo di sotto il tempo necessario per riprendersi da… tutto quello. Con la coda dell’occhio lo osservò mentre scendeva elegantemente le scalette e per un attimo si pentì di quella sensazione di… paura mista a ribrezzo.
Una mano si posò delicatamente sulla sua, facendolo sobbalzare. Non Harriet si era svegliata e lo guardava stancamente.
“Ben svegliata. Come ti senti oggi?”
La ragazza si sollevò a fatica, quasi volendo provare a lui ma soprattutto a se stessa di essere forte. “Meglio. Molto meglio.”
John annuì e le porse un bicchier d’acqua mentre si sedeva sul ciglio del letto. Non Harriet era incredibilmente graziosa nonostante il suo aspetto da maschiaccio. Aveva un che di angelico unito ad uno spirito guerriero e combattivo. Da cosa lo si capiva? Dagli occhi. Ormai John era troppo abituato a leggere nell’anima della gente. Solo un’altra persona era in grado di tenergli testa… Una persona a cui non doveva pensare.
“Allora,” cominciò il medico riprendendo il bicchiere vuoto. “so che sarai stanca e un po’ scombussolata, ma credo che dovrei sapere almeno come sei venuta a conoscenza di questo posto… e del mio nome.”
Il viso di non Harriet si adombrò di colpo. “Non sono dell’Inquisizione se è questo che vuoi sapere.”
“Voglio sapere chi ti ha parlato di me e della fattoria.”
“Diciamo che… abbiamo una conoscenza in comune, John.”
Watson si fece improvvisamente interessato. “Ovvero?”
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime in pochi istanti. “Io… mi spiace.” mormorò massaggiandosi le palpebre con le dita. “Mi ero ripromessa che sarei stata forte, che avrei… retto. Ma ora che sono qui con te…” Un singhiozzo le mozzò le parole. “E’ tutto sbagliato… Non è giusto che ci sia io qui con te… Non è giusto…”
John rimase spiazzato da quello slancio emotivo e si sentì a disagio e incapace di muovere un muscolo. Se c’era una cosa in cui non era bravo nonostante il suo essere dottore, era consolare gli altri. Aveva già troppi demoni, dentro di sé, che non riusciva a domare; pensare anche a quelli altrui era impossibile.
Non Harriet scacciò con i palmi delle mani le lacrime che le rigavano le gote ancora pallide per la malattia. Prese un respiro profondo, cercando in tutti i modi di contenere i singulti che minacciavano di farla crollare definitivamente. “Il mio nome…” sussurrò arricciando le labbra. “…il mio nome è Clara e sono qui per raccontarti la nostra storia.”
Vostra di chi?” la incalzò John.
“Mia” rispose Clara. “e di Harriet Watson.”
   
 
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