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Autore: Alicat_Barbix    06/09/2017    0 recensioni
Nel 2130 il mondo non è più contaminato dalle diversità. Diversità che hanno portato a lotte e guerre sanguinose nel corso dei tempi. La nuova società si impegna ad eliminare tutti gli Incompleti. Il diverso deve essere schiacciato. Ma come in ogni organizzazione, anche in questa c'è una falla.
Sherlock Holmes e John Watson si incontreranno quando meno se l'aspettano, ma saranno dalla stessa parte? Ma se così non fosse, cosa comporterebbe la nascita di qualcosa di forte, qualcosa di pericoloso?
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 2 


Un letto scomodo e cigolante. Le molle che pigiano sulla schiena. Una televisione dalle dimensioni infime. La corrente che l’attimo prima c’è e quello dopo salta. Pareti scrostate, soffitto unto dalla muffa.
Un comodo divano letto. Un materasso in cui poter sprofondare beatamente. Una TV con la possibilità del 3D. Acqua calda, Wi-Fi stabile. Ambiente semplice ma confortevole.
Sì, la vita a Baker Street non poteva essere più diversa da quella nel misero appartamento dove abitava in precedenza. E anche l’affitto era straordinariamente basso.
La signora Hudson, la proprietaria della casa, ogni mattina faceva trovare il tavolo della cucina imbandito di tutto e di più: pancakes caldi, uova e bacon serviti con una piccola porzione di piselli, una tazza di the fumante, e una cesta di frutta fresca…
Insomma, un ben di Dio!
John era veramente soddisfatto della sua scelta. Mai avrebbe pensato che la sua vita potesse prendere una piega tanto inaspettata. Nel senso positivo del termine.
Erano ormai passato poco più di un mese da quando si era trasferito al 221B di Baker Street e durante quel lasso di tempo aveva imparato ad apprezzare persino quel coinquilino fuori dal comune che alle quattro del mattino cominciava a sviolinare una Primavera di Beethoven o un Concerto in Sol Maggiore di Mozart, che sapeva essere cordiale in certi momenti ma tremendamente irritante in altri, che non amava parlare e rispondere alle domande, ma che adorava formularle.
Sì, Sherlock Holmes era un individuo fuori dal comune. Ma questo fuori dal comune era un bene. In fondo, John si rapportava continuamente con persone fuori dal comune.
Durante quelle settimane, Watson aveva imparato che raramente il coinquilino faceva colazione assieme a lui. E invece, quella mattina, mentre sorseggiava il suo caffè per accumulare un briciolo di energie, in cucina strisciò la figura assonnata di Sherlock.
“Dormito male?”
Holmes preferì limitarsi ad un grugnito infastidito. Non sapeva cosa sarebbe potuto scappagli di bocca in quel momento. Trentasei giorni. Trentasei, stramaledettissimi giorni e ancora niente! Per quante domande poneva, per quanto cercasse di scavare nella vita di John Watson, non trovava niente di niente. Quella notte era rimasto sveglio, a vagare all’interno dell’archivio online dell’Inquisizione, sperando di trovare uno stralcio di notizia in più su quel medico. Ma niente!
La televisione, alle loro spalle, gracchiava, mostrando uno di quei film sulla Guerra Jihadista. John poggiò la tazza di caffè con una smorfia. Non era proprio il suo genere. Sherlock si sedette con un sospiro di fronte a lui, la guancia poggiata sulla mano e gli occhi chiusi, ancora rossi per le lunghe ore al computer.
“Dovresti prendere delle gocce o un infuso che ti aiutino a dormire. Non può andare avanti così.” osservò John spiando l’altro da sopra il suo pezzo di pancake infilzato dalla forchetta. “Sei uno straccio.”
Sì, John. Non può andare avanti così!
“Dove sei stato ieri?”
Il pancake s’incastrò nella gola di Watson che cominciò a tossire. La mano del dottore corse alla tazza di the di Sherlock e la portò alle labbra. Il liquido gli scese in gola come un lenitivo contro una ferita. Sospirò di sollievo quando sentì il pezzetto di dolce scivolargli finalmente verso lo stomaco.
“Perché me lo chiedi?”
Holmes si riappropriò della tazza di the. “Perché ieri era il tuo giorno libero. Eppure sei partito presto e hai rincasato tardi.”
John annuì, raccogliendo in fretta le idee. “Ieri è stato il compleanno di Sarah. Siamo stati fuori tutto il giorno.”
Balle. Sarah Sawyer, 34 anni, nata il 13 Agosto 2096, dottoressa nello stesso ambulatorio di John. Aveva avuto una relazione seria di quattro anni con un suo compagno di università. Finita per colpa di lui. Tradimento.
E Sherlock avrebbe potuto continuare a tracciare nella sua mente la figura della donna, il suo passato, la sua media di voti alla High School e al College, le sue abitudini e le sue passioni… Ma non era di alcuna utilità. L’unica cosa che contava era che no, il suo compleanno non cadeva di Dicembre.
“Ah, mi sarebbe piaciuto farle gli auguri.”
John sorrise, sperando in un qualche miracolo che potesse tirarlo fuori da quella situazione. “Glielo dirò…”
Ad un tratto, la stupida telenovela alle loro spalle venne interrotta da un interferenza. Entrambi si voltarono e ben presto lo schermo scuro si aprì su una scena completamente diversa da quella del film A morte la Jihad.
John trattenne il respiro. Trafalgar Square. Una moltitudine di teste urlanti circondava un palco in argento rialzato. Un palco tristemente noto per i suoi scopi. Il Justice Podium. Il Podio di Giustizia.
Su di esso dominava un fila di persone in divisa militare, col petto ricoperto di stemmi e targhette onorative. In braccio, fucili.
Dall’altra parte del palco, due donne. In lacrime. Urlavano l’una il nome dell’altra con disperazione. Le loro voci erano impregnate di dolore, di rimpianto. Di amore.
Davanti a tutti, un uomo vestito con un elegante completo scuro. Leggermente stempiato, un naso aquilino, occhi piccoli e feroci.
Sherlock studiò quella figura avvolta da un potere straordinario. Un potere che esercitava anche su di lui. Quell’uomo altri non era che Mycroft Holmes. Suo fratello.
“Popolo di Londra!” urlò alla folla riunita e stipata sotto di lui. “Quest’oggi siamo riuniti perché abbiamo scovato dei nemici dello Stato.” Si voltò a guardare le due donne con le mani legate a due pali di metallo. “Kate Green e Lauren Jones.”
Dalla calca al disotto del palco si levarono grida e ingiurie contro le due Incomplete. John strinse i pugni e si alzò di scatto dalla sedia per avvicinarsi al televisore. Nei suoi occhi, il riflesso del sorriso di Mycroft Holmes. Sherlock gli fu subito accanto. Non sapeva perché l’avesse seguito. Non era la prima esecuzione a cui assisteva. Né di certo sarebbe stata l’ultima. Eppure, qualcosa lo spingeva a stare lì, al fianco di John Watson.
“Kate e Lauren!” gridò il maggiore degli Holmes. “Siete accusate di alto tradimento. Con il vostro amore impuro state cercando di abbattere il nostro Paese.”
Amore. Faceva uno strano effetto pronunciato da un uomo così meschino. Come si poteva essere giudicati per il proprio amore? Per la propria nazionalità? Per i propri difetti? In che razza di mondo stavano vivendo?
“Non vi verrà concesso neanche il diritto di ultima parola. Verrete giustiziate pubblicamente per le vostre colpe” La sua voce era sormontata dalle grida delle due donne “in modo che tutti possano vedere con i propri occhi cosa succede quando si affronta la Patria!”
I soldati in riga batterono una sequenza ritmata con i piedi. Regolare. Una danza di accuse. Di insulti. Di morte.
“Caricare!”
Le cartucce scivolarono inesorabilmente all’interno della feritoia di emissione dei fucili. Intanto, quei battiti sul pavimento d’argento non cessavano. Le urla impazienti della gente, il sorriso dell’uomo in abiti eleganti, i pianti delle condannate…
John sentiva la propria testa scoppiare. Voleva gridare. Liberarsi i polmoni fino all’ultimo. Non poteva. Non poteva rimanere lì, inerme, ad osservare la scena. Ma doveva. Per la causa che stava portando avanti nella fattoria, per Alexandra, per Matias, per Davis e Logan. Per se stesso. Per la sua speranza.
“Puntare!”
Le bocche dei fucili erano divise simmetricamente: cinque contro Kate Green; cinque contro Lauren Jones.
Sherlock lanciò uno sguardo furtivo a John. Lo vedeva fremere, quasi tremare. Si sentì strano. Una sensazione che non aveva mai provato.
Affetto. Desiderio di proteggere.
Ma John Watson era il nemico. John Watson doveva essere tolto di mezzo appena possibile. John Watson era pericoloso.
“Kate! Ti amo!”
“Anche…”
“FUOCO!”
Le canne dei fucili latrarono morte. I corpi delle due donne vennero perforati da cinque proiettili ciascuno. Silenzio. Non importava quanto la gente esultasse, o quanto quell’uomo importante abbaiasse valori morali. Nel 221B di Baker Street rimase solo un silenzio pesante, impastato di quella dichiarazione mai urlata, di quelle parole mai dette. Di quel Ti amo che non avrebbe mai più potuto essere proferito.
John si accasciò sul divano, la testa ciondolante tra le mani. Respirava rumorosamente per cercare di scacciare il suono della detonazione che ancora gli fischiava nelle orecchie.
Il cuore pesante. Troppo pesante. I polmoni pieni. Troppo pieni. Il groppo in gola soffocante. Troppo soffocante.
Parole. Aveva bisogno di parole. Di pronunciare parole. Di riempire quel silenzio che a sua volta gli riempiva la testa e le orecchie.
“Perché?” disse solo.
Sherlock rimase immobile davanti a lui. Lo sguardo imperturbabile. “Perché sono impuri.”
John alzò la testa di scatto, gli occhi sgranati. “Tu la pensi come loro?”
“Non è questione di pensarla come loro, John. Il loro essere diverse non poteva essere accettato. Non in questo mondo. Non in questo momento. E’ così e basta.”
“E’ assurdo!”
“Non è assurdo. E’ necessario.”
Watson si tirò su e cominciò a percorrere la stanza a passi frenetici, una mano che grattava la nuca come per voler sfregare via anche le parole del coinquilino.
Necessario? Che cosa c’è di necessario nella morte di due persone che come unica colpa avevano quella di amarsi?”
Sherlock si prese un attimo per formulare la risposta. “Credo che dovresti rassegnarti, John. E’ solo questione di tempo prima che l’Inquisizione…trovi altri clandestini.”
E sarebbe stato proprio John Watson a portare lui e suo fratello da loro. Ma non ancora. Non così presto.
John, finalmente, si fermò. Era ritto davanti a Holmes e sebbene quest’ultimo lo superasse di una buona stazza, Watson in quel confronto risultava più imponente, più forte. Fissò quelle iridi gelide, scavò in esse, sperò di trovarci una spiegazione a quelle parole affilate, a quelle convinzioni inaccettabili. Ma quegli occhi erano porte blindate. Inaccessibili.
“E se ci fossi tu lì?” Tacque un istante imitato dall’altro. “Se l’unica tua colpa fosse quella di amare una persona in un mondo chiuso e ingiusto? E’ facile parlare quando sono altri che muoiono, mentre noi restiamo vivi.”
Le labbra di Sherlock tremarono appena. Quelle parole si piazzarono all’altezza del suo petto con insistenza e cominciarono a urlare e urlare senza tregua. Facile parlare quando sono altri che muoiono. Facile parlare quando il diverso non sei tu. E’ tutto facile a parole. Facile giudicare, facile sputare sentenze, facile vivere tranquillamente sul sangue di innocenti che noi riteniamo colpevoli.
“E’ questo il punto, John: non ci sono io lì. Non sono diverso. Non sono un Incompleto. Perché dovrei preoccuparmi della sorte degli altri quando io ho la coscienza pulita?”
Quelle parole precipitarono fra di loro come macigni. E John se ne sentì schiacciato. Rimase tacito per alcuni istanti, durante i quali la tensione tra i due si accumulava sempre di più in un groviglio di pensieri. “Come puoi essere tanto insensibile?” La sua voce era roca, stranamente bassa per lui. Una voce pacata. La calma prima della tempesta. “Come puoi essere così cieco?” Il tono cresceva ancora e ancora, sempre più. “Non si può rimanere indifferenti di fronte ad una visione del genere! Un essere umano non può rimanere indifferente di fronte ad una visione del genere!”
Sherlock non si scompose. “Eppure è quello che sto facendo.”
I pugni di John erano diventati così chiusi, così serrati, che le nocche erano sbiancate e le unghie affondavano nella carne. “E allora sai che c’è? C’è che non sei un essere umano! Sei soltanto una fottutissima MACCHINA!”
Si voltò e afferrò con rabbia la giacca appesa all’attaccapanni. Fece per uscire ma la porta di casa venne aperta e nella stanza entrò la signora Hudson con occhi intimoriti. “Va tutto bene?”
“Lo chieda a lui.” rispose sprezzante John indicando col mento Sherlock.
“John caro, c’è qui…”
“Sarah, lo so.”
Si volse un’ultima volta verso la figura immobile di Holmes. Lo fissò intensamente, sperando che dalle sue labbra uscisse una parola di scuse, di conforto. Ma niente.
“Perfetto.” disse – più tra sé e sé che rivolto agli altri –.
Sherlock guardò il medico sgattaiolare fuori dalla stanza di fretta. Lo guardò fuggire da lui.
“Posso sapere che è successo?” domandò la signora Hudson con tono di rimprovero immaginando di chi fosse la colpa di quel litigio.
Holmes non la degnò neppure di uno sguardo: corse alla finestra, scostando la tendina. Vide Sarah, bella ed elegante come non mai, e John che la prendeva fra le braccia e le schioccava un bacio sulle labbra.
La faccia di Sherlock si contrasse in una smorfia di ribrezzo. Istintivamente e senza neanche accorgersi, si trovò a sfogliare mentalmente il dossier scarno di John.
Nessuna relazione stabile.
Ma con Sarah… con Sarah era diverso. Si frequentavano da più di cinque mesi secondo il fascicolo. Che fosse quella giusta per lui?
Si staccò dalla tenda, irritato e afferrò il violino nervosamente. Provò a suonare, a far scorrere l’arco lungo le corde dello strumento, a lasciare che fossero le note a parlare per lui. Ma il suono era stridulo, stonato. Che cosa gli prendeva? Perché non riusciva a suonare? Perché le uniche note che contavano davvero erano quelle cantate da John? Macchina. Che suono profondo e dolente avevano quelle poche note.
 
***
 
Sarah era divertente. Lo faceva ridere. Gli risollevava il morale. I suoi baci che dopo le loro romantiche cenette sapevano di vino e porridge, gli facevano dimenticare il mondo in cui vivevano. Ma quella sera fu diverso. Neanche il Pinot Nero e le risatine flirtanti di lei potevano fargli dimenticare quell’esecuzione e quegli occhi gelidi e imperscrutabili.
E’ solo questione di tempo…
Quella frase gli echeggiava ancora nella mente. Tempo. Poco tempo. La fattoria era sopravvissuta per anni. Gli Incompleti arrivavano, si fermavano per un lasso di tempo variabile – cioè quello necessario perché John riuscisse a procurarsi dei biglietti per Cuba, dove risiedeva in pace la più grande comunità di Incompleti al mondo – e partivano, per lasciar posto ad altri rifugiati. Il tragitto tra la fattoria e il nuovo aeroporto – al confine con Londra – era impervio ed estremamente pericoloso. Ci volevano giorni interi per programmare gli spostamenti. Finché erano coppie omosessuali a dover partire, non era così difficile confondersi fra la folla. Ma i disabili e gli immigrati saltavano subito all’occhio. Il gruppo doveva procedere a piedi attraverso il Sussex, rimanendo il più nascosti possibile. All’aeroporto – grazie ad alcune conoscenze di Molly – disabili e stranieri passavano attraverso un corridoio secondario che li conduceva direttamente all’aereo e dove fornivano documenti falsi all’amico/a in questione. Ma per evitare ogni possibile inconveniente, dovevano esserci persone…dalle fattezze normali. Persone il cui difetto risiedesse nel cuore e non nel corpo. Le coppie omosessuali si accalcavano attorno agli altri Incompleti e procedevano a marcia serrata, quasi stessero andando in guerra. In passato, purtroppo, era capitato che un’autorità beccasse un disabile o un immigrato e agisse di conseguenza. Ma se tutto andava secondo i piani, gli Incompleti salivano su un aereo merci per Cuba e tanti saluti xenofobi, razzisti, omofobi.
Avevano proceduto così per anni. E John aveva sempre saputo che era questione di tempo prima che qualcosa andasse storto.
“John?”  Watson si riscosse. La mano di Sarah era delicatamente appoggiata sulla sua. “Va tutto bene?”
Il medico annuì e buttò giù un sorso di Pinot Nero. “Sì, sì, bene.”
E invece non stava bene per niente. Una strana inquietudine raschiava all’altezza del petto, tormentandolo. Dopo la discussione con Sherlock, i suoi pensieri erano rivolti interamente al gruppetto di Incompleti che era partito un paio di giorni prima. A quest’ora sarebbero già dovuti essere nei pressi dell’aeroporto. Il tratto più difficile. Il tratto più scoperto. Pensava ad Alexandra e alla sua mamma che faceva di tutto per proteggerla e regalarle una vita serena per quanto possibile, a Matias, che ricordava la sua casa con nostalgia ma che non poteva farvi ritorno per la difficile situazione e doveva così stare lontano dalla sua famiglia, dalla sua terra, a Davis e Logan, al loro amore indissolubile anche attraverso le difficoltà, e a tutti gli altri che erano partiti dalla fattoria assieme a loro.
“Vuoi venire a casa mia?” propose Sarah con voce suadente. In condizioni normali, John avrebbe accettato al volo, ma quella sera tutto era diverso. Tutto era confuso.
“Non stasera, no. Sono stanco.”
Uscirono dal ristorantino e camminarono per un po’ lungo i vialetti di Hyde Park, mano nella mano come una coppia normale. Le dita di Sarah erano vere, concrete sotto il suo tocco. Ma lui non si sentiva padrone del suo corpo né tanto meno della sua mente. Non riusciva ad essere lì con lei veramente.
Non quella sera, no. Era stanco.
Si salutarono con un bacio privo di passione e John rimase a fissare la schiena di Sarah allontanarsi da lui. Si sedette su una panchina e chiuse gli occhi. Il vento di Dicembre prese a fischiare dopo pochi attimi.
Alexandra... Matias… Davis… Logan…
Sherlock. Perché gli veniva in mente Sherlock proprio in quel momento? Non era neanche così sicuro di voler tornare a Baker Street dopo quello che era successo la mattina.
La notte stendeva il suo abito di seta nero glitterato di stelle dolci e flebili.
Nel silenzio della sera, il telefono squillò.
 
***
 
Sherlock era disteso sul divano, le mani giunte sotto il mento, i cerotti alla nicotina attaccati al braccio. Gli occhi all’apparenza dolcemente chiusi saettavano sempre più spesso e sempre più febbrilmente in direzione dell’orologio.
Non tornerà. E’ probabile che si fermi da Sarah.
Nemmeno la nicotina riusciva a cancellare quella lite, quello sguardo accusatorio di John, quella Sarah perfetta, quelle note cupe: macchina.
Era davvero solo una macchina? In tutta la sua vita, l’unica cosa che assomigliava lontanamente ad un sentimento era stata la gelosia nei confronti di Mycroft. Di un fratello che aveva la completa attenzione del padre, la sua stima e la sua fiducia.
“Sono fiero di te, figlio mio. Sarai un degno successore di tuo padre.” diceva Siger Holmes senza curarsi della presenza del minore nella stanza. Ma col passare degli anni, niente sembrava più scalfire la corazza che Sherlock Holmes indossava. Niente amore, amicizia, tristezza, felicità… Tutto nella sua vita aveva un colore smorto che però non incuteva malinconia. Dava solamente una visione nitida della vera essenza delle cose. Senza filtri né colori. Solo grigio.
Ma dall’arrivo di John Watson nella sua vita, qualcosa stava cambiando. O forse era già cambiato. Quel biondo, quegli occhi azzurri, quell’insopportabile maglione a righe marroni, quel sangue cremisi che imbrattava i corpi delle due condannate sul Justice Podium… I colori stavano lentamente ricomparendo. E non andava bene. Non andava bene per niente.
Un rumore di passi lo spinse a scattare in piedi come una molla. La porta si aprì adagio, cigolando.
Sherlock rimase in silenzio per un po’. “Credevo avresti dormito fuori.”
John non sembrava nemmeno averlo sentito: i suoi occhi erano vuoti, le sue labbra semiaperte, le sue mani tremanti. Sherlock contemplò quella visione senza parole. Quell’uomo non aveva niente del John con i capelli biondi, gli occhi azzurri, il maglione a righe marroni. Non era il John che conosceva.
“Che hai?”
Silenzio.
“John?”
Ancora silenzio.
“John, per l’amor di Dio, che succede?”
Stavolta il medico sembrò udire la voce del coinquilino. Spostò il suo sguardo vuoto su Sherlock e quest’ultimo se ne sentì trapassato.
“John…”
Watson si abbandonò sulla poltrona. Le mani che coprivano il volto. Non stava accadendo davvero… Non poteva essere reale… Non poteva…
“Che cos’hai?”
Che cos’ho? Niente di che. Ho solo ricevuto una telefonata di Molly in cui mi informava che il gruppetto di Incompleti che sarebbe dovuto partire stasera per Cuba è stato trovato dalle autorità che hanno fatto fuoco quando loro hanno provato a scappare.
Morti. Tutti morti. Così aveva detto l’amica hostess di Molly. I loro corpi erano stati presi e bruciati. Le loro ceneri sparse sulla terra. Quanto bastava poco per morire, in quel tempo.
La piccola Alexandra… Matias il sognatore… Davis e Logan, insieme per sempre…
Morti.
Sherlock aveva ragione. Doveva rassegnarsi. Doveva arrendersi all’evidenza. Non era nessuno. Non poteva impedire che degli innocenti venissero ammazzati.
Non poteva.
“Ti è mai capitato…” cominciò alla fine dopo aver preso un respiro profondo. “…Ti è mai capitato di cercare di fare la cosa giusta ma di arrivare ad un punto in cui non sai più se quello che stai facendo è veramente giusto?”
“Sì.”
Non trattenne quella parole. Quelle due lettere. Il suo cuore le aveva urlate ancora prima che Watson terminasse la frase. Eccome se gli era capitato! Gli era capitato quando aveva visto le labbra di John posarsi sulla fronte di quella bambina down, quando avevano assistito insieme all’esecuzione di quelle due donne, quando John aveva urlato sei una macchina, quando era rimasto sdraiato per ore e ore sul divano, ad aspettare che John tornasse. Tutta colpa di quel medico, di quell’ometto, di quel soggetto insignificante! Di quel John.
“E come si fa a capire quando è arrivato il momento di arrendersi? Di gettare la spugna.”
Sherlock si avvicinò a lui lentamente, quasi avesse davanti una belva da domare. Come si faceva? Guardando in faccia la realtà. Guardando in faccia John. Guardando in quegli occhi il proprio riflesso. “Non lo so. Accade e basta.” Le labbra di Watson si schiusero in un sorriso amaro e per un istante, Holmes credette che sarebbe scoppiato in lacrime. “Parlami, John. Che cosa mi tieni nascosto?”
Non voleva più sapere per l’Inquisizione. Per Stanford. Per la Patria. Per se stesso. Voleva saperlo per John, perché condividesse con lui quella croce troppo pesante da portare da solo. Si chinò di fronte a lui e pose entrambe le mani sulle sue spalle.
“Fidati di me.”
Il medico scosse appena la testa. “Non posso. Non posso farti questo.” L’occhiata interrogativa di Sherlock lo spinse a continuare. “Ho un segreto. Qualcosa che non ho mai rivelato a nessuno. Qualcosa che metterebbe in pericolo la vita di chiunque solo sapendolo.”
Che intendeva dire? Mettere in pericolo la vita degli altri? Stava tenendo nascosta la questione fattoria per… Proteggerlo?
“John, non ho paura.”
Ma improvvisamente si rese conto di quanto quell’affermazione fosse un’emerita cazzata. Le mani sulle spalle di John erano calde, la sua vicinanza intera lo riscaldava. Troppo vicino. Troppo importante.
Tolse le mani in fretta e si sedette sulla poltrona a fianco a quella del medico.
“Dovresti. Perché io ne ho. Tanta.”
Non per sé, ma per la fattoria. Per altri innocenti. Se solo fosse stato come quell’uomo vestito elegantemente, come quei soldati, come quella folla acclamante… Sarebbe stato tutto più facile.
“John.” La voce di Sherlock lo riscosse. L’amico aveva preso il violino e ora lo guardava con occhi dolci, preoccupati. “Stenditi sul divano e riposa.”
Non appena ebbe concluso la frase, un suono soave invase la stanza. Così struggente, così malinconico. Una ninna nanna.
John si alzò dalla sedia e si rannicchiò sul divano dove fino a pochi minuti prima era rannicchiato Sherlock stesso. Incredibile… Ciò che quella sera non erano riusciti a fare il Pinot Nero o i baci di Sarah, ci stavano riuscendo le note dolci di Holmes. Chiuse gli occhi e si abbandonò a quella melodia suonata solo per lui.
Anche Sherlock aveva gli occhi chiusi. Aveva provato a suonare tutta la mattina, senza successo. E ora che John era lì… Il suono era magnifico, indescrivibile.
Le tre domande che l’avevano assillato fino ad allora, sbiadirono come inchiostro vecchio, lasciando posto ad altre:
 
  1. Che cos’era John Watson?
  2. Come riusciva a spingerlo a fare cose di cui non era mai stato capace?
Ma soprattutto: era veramente giusto condannare la gente per il semplice fatto di essere diversi? 
 
***
 
 "Gu
arda, guarda chi è risorto dal regno dei morti!”
Sherlock alzò a malapena lo sguardo dal suo portatile. “Mycroft. Noto con dispiacere che non hai perso il tuo orribile senso dell’umorismo. Sei ingrassato dall’ultima volta che ti ho visto.”
Mycroft si tastò istintivamente la pancia. “Al contrario, sono dimagrito.”
“Sì, sì.” mormorò il fratello tornando a concentrarsi sul computer.
Il maggiore degli Holmes si sedette davanti alla scrivania di Sherlock, i gomiti appoggiati sul tavolo e le dita intrecciate sotto il mento. Studiò il fratello per alcuni minuti, senza proferire parola. Da quando era entrato nello studio del vecchio Buckingham Palace, aveva subito notato qualcosa di diverso in lui. Era stata una percezione. Piccola piccola. Ma c’era.
“Allora, mi vuoi dire che fine avevi fatto?”
Sherlock non staccò gli occhi dallo schermo del portatile. “Mi sono preso una piccola vacanza.”
Il viso di Mycroft si fece improvvisamente minaccioso, gli occhi ristretti, che sembravano volerlo sbranare per la sua solita impudenza. “L’essere figlio di Siger Holmes non ti consente di fare come ti pare. Ci sono delle regole da rispettare, Sherlock. Se vuoi una vacanza allora devi chiedere un permesso.”
“Sì, mamma.”
Mycroft sbuffò spazientito, ma non lasciò che la benzina di suo fratello facesse divampare il piccolo focherello di rabbia che ardeva in lui. “Ho sentito che ti sei trovato un coinquilino.”
Stavolta, Sherlock si immobilizzò. E quel fatto non sfuggì al maggiore.
“Vedo che i tuoi uomini sanno ancora fare il proprio mestiere.”
Il fratello sorrise falsamente. “I miei uomini non c’entrano. Ho parlato con quel tuo amico, Lestrade, per sapere se aveva tue notizie e mi ha raccontato questa bella storia della convivenza.” Le sue iridi grigie tradivano impazienza, esprimevano malizia. “Ora mi chiedo: come mai ti sei cercato un coinquilino?”
“Suppongo che non ci siano molti motivi per trovare qualcuno con cui abitare.” rispose evasivo Sherlock.
“Solitamente per soldi. Per risparmiare. Ma non mi sembra che i soldi ti manchino.” osservò Mycroft facendo correre lo sguardo per la lussuosa stanza in cui si trovavano. “Per socializzare? Non mi sembri il tipo da lunghe chiacchierate di fronte ad una tazza di the. E allora perché?”
Il fratello chiuse di scatto il portatile e le immagini del fascicolo sulla famiglia Watson scomparvero. “Perché sì, Mycroft. Non verrò certo a dare spiegazioni a te.”
Un sorrisetto impertinente comparve tra le labbra sottili di Mycroft. “E questo Watson? Com’è?”
Questo Watson, come lo chiami tu, è una persona normale, innocua e non è un Incompleto. Ti basta?”
“Che cos’è questa vena rabbiosa che sento nella tua voce, fratellino?”
Sherlock, sotto la scrivania, strinse i pugni. Doveva voleva arrivare? Che cosa voleva sapere con quell’espressione viscidamente soddisfatta dipinta in volto? Gli mancava l’aria, aveva bisogno di andarsene, di tornare a Baker Street da John. Anzi, di tornare a Baker Street e basta.
“Non c’è nessuna vena…”
“Siete amici?”
Il fratello minore lo guardò con astio e comprese: voleva giocare. Era l’unica cosa che Mycroft aveva sempre amato. Divertirsi a sue spese. Voleva metterlo alle strette, guardare le sue reazioni, studiarlo.
“Sì.”
“Ma davvero?”
Sherlock si alzò e si infilò il cappotto. Fuori, la fitta cappa di nubi minacciava al più presto la prima neve dell’anno. “E’ passato più di un mese, Mycroft. Mi sembra normale l’aver stretto amicizia.”
Normale? Andiamo, Sherlock, tu non stringi amicizie. Né altri rapporti del genere. Io e te siamo uguali. Siamo fatti della stessa pasta, Sherlock. Sangue dello stesso sangue.”
Un tonfo sordo all’altezza del petto. Fu quello l’effetto delle parole del fratello. Sherlock si fermò, la sciarpa in mano. Erano uguali? Ancora ricordava quell’esecuzione, il modo in cui suo fratello sorrideva, le urla delle due donne… Lo sguardo di John.
Non voleva essere come suo fratello. O come suo padre. Lui era Sherlock. Non Mycroft. Né Siger. Sherlock. E non gli piaceva neanche più portare quel maledettissimo cognome che ormai gli sapeva di mostruosità.
“Io e te non siamo uguali. E, francamente, mi dispiace davvero per te.” Fece per andarsene, ma alla fine si bloccò. “Sono stanco di lavorare nell’Inquisizione. Questa è l’ultima volta che mi vedrai qui.”
E prima di tornare a Baker Street, afferrò il portatile e se lo strinse al petto. In quel piccolo strumento era racchiuso il destino di John.
“Ricordati quello che è successo ad Eurus.”
Sherlock si voltò di scatto al sol sentir pronunciare quel nome. “Che cosa c’entra lei con me?”
Mycroft sospirò e si accomodò meglio sulla sedia. “Tutte le vite finiscono. Tutti i cuori sono spezzati.” I suoi occhietti si rifletterono in quelli del fratello. “Farsi coinvolgere non è un vantaggio, Sherlock.”
“Non sono coinvolto.”
“Meglio.”
“Posso andare ora?” chiese spazientito Sherlock.
“Certo e goditi il tuo non essere coinvolto.”
 
***
 
Accarezzò la foto. Erano passati tanti anni, ma era ancora integra, per niente rovinata a parte un graffio al centro.
Accarezzò la sua speranza che ancora gli bruciava in petto. Il suo obbiettivo iniziale. Forse l’unico. Guardò quel sorriso, quegli occhi, quei denti leggermente da castoro…
Fuori, le nuvole inghiottivano il cielo con le loro fauci di gas. Avrebbe nevicato presto. Molto presto.
Era questione di tempo
Che fattore meschino il tempo. Fagocitava i ricordi, le relazioni. Scorreva inesorabile e non era possibile sfuggirgli.
Anche quella foto, prima o poi, sarebbe sbiadita lentamente e, a poco a poco, sarebbe stata cancellata. Completamente. E non ci sarebbe stato un John Watson che ricordasse, che potesse descriverla. Persa per sempre.
La porta d’ingresso al piano di sotto sbatté. John sussultò e si guardò attorno convulsamente mentre i passi di Sherlock risalivano le scale. Una pila di vecchi giornali sul tavolino di fronte alla poltrona attirò il suo sguardo. Ficcò la fotografia in mezzo a quei fogli vecchi e ingialliti nello stesso istante in cui Holmes aprì la porta che dava sul salotto.
“Oh, Sherlock! Com’è andato il colloquio di lavoro?”
Sherlock poggiò il portatile sulla scrivania e si srotolò la sciarpa dal collo. “Mi faranno sapere, ma ho capito che c’è gente più qualificata di me.”
“Capisco, mi dispiace.”
L’altro accennò un sorriso prima di sprofondare sul divano. John non aveva ancora voluto parlargli né della fattoria né tanto meno di ciò che era successo quella sera. Tutto ciò che sapeva, era che da allora l’amico non era stato più lo stesso. Sembrava… Spento. Assente, il più delle volte.
“John, ecco…” Sapeva bene che avrebbe dovuto tacere, che non erano esattamente affari suoi, ma vederlo così gli infondeva una sensazione strana. “…Se hai voglia di uscire, di fare qualcosa…”
“No, Sherlock. Non con questo freddo. E poi ora ho un appuntamento.”
“Con Sarah?”
John si voltò perplesso. Scrutò l’espressione appena corrucciata dell’amico e si sorprese a sorridere. “E’ un problema?”
“No, no. Affatto.”
“Certo… Be’, io vado. Non aspettarmi sveglio.”
Sherlock si stese sul divano e si rannicchiò dall’altra parte, dando le spalle all’amico. “Certo che no.”
Pochi secondi dopo, sentì la porta chiudersi alle spalle del medico. Si alzò e corse alla finestra com’era solito fare quando Watson usciva di casa. Vide la sua figura entrare in macchina e partire. Quando l’automobile venne inghiottita da una svolta, mormorò: “Via libera.”
Si diresse a passi affrettati verso il computer che aveva posato sulla scrivania, ma col piede urtò dolorosamente il tavolino su cui John conservava i giornali. Il pavimento venne ricoperto da un tappeto di fogli vecchi e neri d’inchiostro.
“Cavolo…”
Era meglio mettere apposto prima che arrivasse la signora Hudson e – trovando quel disordine – gli facesse la ramanzina. Si chinò a terra e cominciò a raccogliere pazientemente i giornali e a poggiarli sul tavolino dal quale erano caduti.
Ad un tratto, le sue dita incapparono in qualcosa di più liscio rispetto alla carta spessa e ruvida dei quotidiani. Spostò lo sguardo dalla montagna di carta alla sua destra, e lo puntò sulla mano sinistra.
Le sue dita stringevano una vecchia foto, a giudicare dal colore leggermente sbiadito. Sherlock rimase a fissare quell’immagine con il cuore in gola. Una giovane donna. Non bella, ma sicuramente attraente. Era girata di spalle, fatta eccezione per il viso sorridente puntato contro l’obbiettivo. Da dove veniva fuori quella?
Adesso che ci pensava… Appena entrato si era reso conto che John aveva immerso la mano nella pila di quotidiani per poi ritrarla subito dopo. Ma lì per lì non aveva dato importanza a quel semplice gesto…
Ma allora… quella foto apparteneva a John. Una foto curata, conservata come un tesoro. Lucida, priva di impronte delle dita. Un simulacro dedicato ad una persona estremamente importante. Ad una donna estremamente importante.
Girò la fotografia e, sul retro, scritta con un pennarello indelebile campeggiava una frase: Ti troverò, fosse l’ultima cosa che faccio.
 
***

 
John attendeva impazientemente dentro la fattoria. Aveva bisogno di attivarsi, di fare qualcosa, di mettere in moto la mente e il corpo. Erano passati due giorni da quando…
Si passò una mano sul volto, confuso, malinconico, vuoto. Come poteva accettare una tale sconfitta? Una tale perdita di vite? Avrebbe dovuto stare più attento, dannazione! Avrebbe dovuto fare di più! Avrebbe dovuto… Avrebbe dovuto… AVREBBE DOVUTO!
“Sono arrivati!”
John si riscosse al suono delle parole di Molly e scattò in piedi con meno vitalità e forza del solito. Era buffo, ma un pensiero stupido lo colse inaspettato.
Che sia la volta buona?
Si mosse con enfasi verso l’entrata della fattoria e protese la testa fuori, dove l’Inverno aveva ormai cominciato ad allungare le sue dita scheletriche. In cima alla collina, un gruppo di persone arrancava stancamente. John cercava e cercava con i suoi occhi ormai allenati a cercare. A cercare una speranza che mai arrivava. E chissà, forse, che non sarebbe arrivata mai.
La foto… Dov’era la foto? Dove l’aveva messa? Ah, sì. Era a Baker Street. Nella fretta non l’aveva neanche recuperata.
Pochi minuti dopo, i puntini stremati in lontananza assunsero le fattezze di persone stremate. Un uomo dalla pelle scura gli porse la mano, sorridendo mestamente. “Dottor Watson, è un piacere fare la sua conoscenza.”
John strinse quella mano così diversa dalla sua. Nero e bianco si unirono in un sigillo, in una promessa. Quelle dita di colori differenti sancirono un patto.
Possiamo restare?
Sì, potete restare.
Grazie dottore.
Non deve ringraziarmi. Sono qui per questo.
Non ci fu bisogno di parole. Bastò quella stretta. L’uomo dalla pelle scura si voltò verso il gregge di agnelli sperduti che lo seguiva. “Salutate il dottor Watson e ringraziatelo per l’ospitalità.”
Era un intero gruppo di africani. John era stato informato tramite vie traverse che sarebbe arrivata una comitiva di Incompleti a giorni. Ma non avrebbe mai creduto che fossero tutti uomini e donne di etnia afro.
I membri del gruppo si disposero ordinatamente in fila indiana, susseguendosi nel porgergli la mano, presentarsi e ringraziarlo per l’accoglienza. Ben presto, i volti, i nomi e i ringraziamenti si mescolarono e John si trovò distante da lì. L’unico viso che voleva vedere, l’unica voce che desiderava ascoltare non c’erano.
C’ho sperato troppo. Mi sono illuso.
La sua speranza stava lentamente morendo in cuor suo. Che cosa gli rimaneva? Che cosa gli avrebbe dato una nuova speranza?
Era solo. Completamente solo. Solo in un mondo dominato da una stupida selezione naturale.
Fanculo a Darwin. Fanculo alla fattoria. Fanculo a inutili speranze.
Era solo. Solo.
 
***
 
Sherlock passeggiava sotto la pioggia. La sua figura ammantata di nero si confondeva fra altre figure. Non aveva preso l’ombrello. Gli ricordava troppo il fratello. E poi, la pioggia sul suo corpo gl’infondeva una sensazione di benessere, come se quell’acqua mandata dal cielo potesse lavare via la lordura del suo animo. Il peso di quello che aveva avuto intenzione di fare gli gravava sulle spalle, gliele incurvava come un vecchio.
La gente attorno a lui correva, borbottando imprecazioni o farfugliando frasi stupide e scontate come quanto piove! Le persone normali lo infastidivano. Questa era la verità. Che ne sapevano loro della sofferenza? Del non essere accettati? Un Incompleto avrebbe camminato lentamente sotto quel diluvio, insofferente al freddo, al bagnato.
Sherlock camminava. Le sue scarpe infradiciate producevano un rumore buffo sul marciapiede.
Cic, ciac, cic, ciac…
Sherlock camminava. Le gocce di pioggia disegnavano lacrime finte. Com’era piangere? Aveva mai pianto? Non se lo ricordava. I riccioli corvini gli ricadevano sulla fronte, appesantiti dall’acqua.
Sherlock camminava e si fermò soltanto davanti ad una tabaccheria che stava per chiudere. Il proprietario stava ritirando espositori con su attaccate pagine di giornale grondanti di pioggia. L’uomo gli rifilò un’occhiata dubbiosa quando lo notò fermo davanti al suo negozio ma con quell’ira del cielo preferì sbrigarsi a tirar giù la saracinesca e a defilarsi.
Sherlock ebbe la tentazione di fermarlo, di avvertirlo che aveva dimenticato fuori un espositore. Ma non lo fece. L’espositore stesso lo trattenne. Su di esso, era attaccato un foglio di quotidiano. Aveva come una lastra di vetro davanti. Come se servisse a proteggerlo. No, non proteggerlo. Mostrarlo, era il termine adatto. Esibirlo sotto gli occhi di tutti in qualsiasi momento, sotto qualsiasi cielo, in qualunque situazione.
 
SVENTATA LA FUGA DI UN GRUPPO DI INCOMPLETI ALL’AEROPORTO DI LONDRA.
 
Sherlock sgranò gli occhi. Fuga? Di Incompleti? Fuga di Incompleti sventata? Cominciò a far scorrere gli occhi su quelle righe concise, lapidarie.
 
E’ stato bloccato due giorni fa un tentativo di evasione dal Paese di una banda di Incompleti al nuovo aeroporto Final Victory di Londra. Le autorità hanno individuato un gruppo numeroso e compatto in direzione degli imbarchi per Cuba. Quando hanno cercato di fermarli per controllare i loro documenti si sono accorti della presenza di immigrati e handicappati tra loro. Un intero gruppo di Incompleti. I tentativi di arresto si sono rivelati vani e così gli addetti alla sorveglianza hanno aperto il fuoco, provocando una strage. Adesso si pone un problema di importanza internazionale: da dove arrivano questi Incompleti? Come hanno fatto a restare nascosti per così tanto tempo dall’emanazione della Lex Discriminis? Ma soprattutto, c’è qualcuno dietro tutto questo, qualcuno che pilota i loro spostamenti e le loro azioni? Chiunque sappia qualcosa, è pregato di avvisare subito gli Inquisitori, prima che vi sia un nuovo crollo dell’equilibrio nazionale ed estero.
 
Due giorni prima… La sera in cui John era tornato tardi con espressione delusa e sofferente! I suoi protetti… erano morti. E Dio solo sapeva quanto quello sciocco di uno Watson si sarebbe sentito in colpa per quello.
Doveva trovarlo. Convincerlo a sfogarsi con lui. Convincerlo a liberarsi di quel peso. Doveva stargli accanto. Come la mattina dell’esecuzione.
Che cos’era? Che cos’era quella… sensazione? Quel sentirsi garante della serenità di John? Cos’era?
Tornò indietro di corsa, verso Baker Street, e se non l’avesse trovato… Se non l’avesse trovato amen. Sarebbe andato personalmente nel Sussex. Avrebbe trovato una scusa qualunque, ma doveva essere con lui.
In lontananza, sotto la pioggia, scorse una figura. Una figura rigida, immobile. Una figura che si stupì riconoscere all’istante.
La figura di John Watson.
Si avvicinò lentamente, con cautela, e sotto i ricci poté subito leggere le emozioni che sfilavano sul volto del medico. Disperazione, delusione, rassegnazione, impotenza, e poi colpa, colpa e ancora colpa.
John capì che si trattava di Sherlock ancor prima di voltarsi. Lo fissò con sguardo vacuo. Quei capelli fradici, quell’aria trascurata, quei vestiti zuppi l’avrebbero fatto sorridere in condizioni normali. Ma quella non era una condizione normale.
Sherlock Holmes era come tutti gli altri. Non poteva capire. Non voleva capire. Era soltanto uno dei tanti burattini nelle mani dell’Inquisizione.
Perciò, fanculo anche a Sherlock.
E gliel’avrebbe detto, anzi no, urlato se non avesse scorso qualcosa di indicibile nei suoi occhi. Una tristezza che non aveva mai visto in quelle iridi. Non più porte blindate. Non più barriere inaccessibili. In quegli occhi, finalmente riusciva a intravedere qualcosa. Qualcosa a cui non sapeva dare un nome. E cercava, cercava e cercava in quello sguardo. Con i suoi occhi abituati a cercare.
“John…”
Quella voce… Non più sprezzante, non più indifferente, non più irraggiungibile. Una voce profonda, scura, impastata di amarezza. Una voce uguale al suono del suo violino.
“Non ce la faccio più, Sherlock.”
Sherlock continuò ad avvicinarsi con calma. Un martello all’altezza del petto sferrava poderosi colpi all’udir quel suono straziato e straziante. “Sfogati, John.”
“Voglio solo risolvere tutto in qualche modo.” continuò il medico con una voce che non gli apparteneva più. “Ma quanti? Quanti tentativi ci vorranno per fare la cosa giusta? Per aggiustare tutto?”
“Tutto cosa, John?”
Confidarsi? Aveva paura. Paura di essere giudicato. Paura che non avrebbe capito. Paura che dire troppo lo avrebbe allontanato. No, non poteva dire la verità. A costo di continuare con il dolore e le false speranze che gli corrodevano l’anima.
“A volte mi fermo e mi chiedo: posso ricominciare da capo? Posso tornare indietro e cancellare tutto?” Si prese una pausa, durante il quale strinse gli occhi. “Ma poi mi dico che devo restare e affrontare i miei errori. E la verità è che… vorrei scappare. Sono stanco di portare il peso di questo cazzo di mondo sulle mie spalle!”
Sherlock accorciò la distanza e afferrò le spalle di John con entrambe le mani. Dentro di sé urlava sfogati ma sapeva che non gli avrebbe mai detto la verità. Che non avrebbe mai trovato il coraggio di confidarsi con lui. E allora che fare? Che fare quando qualcuno rifiuta il tuo aiuto?
Non aveva mai cercato di aiutare nessuno. Era la prima volta. John era la prima volta di tutto. Perché prima di John, Sherlock non era mai esistito. C’era sempre stato solo un Holmes come tanti altri prima di lui. Un Holmes come suo fratello, un Holmes come suo padre.
Dov’era stato Sherlock prima di John Watson? Recluso in un angolo del suo essere. Un gingillo inutile su uno scaffale. Adatto solo a prendere polvere.
“John…” Le parole non venivano, non fluivano attraverso le corde vocali. Dannazione! Perché in un momento del genere doveva perdere la sua inesauribile parlantina? Perché proprio ora, quando John aveva bisogno di lui?
L’altro lo guardava, aspettava, sperava. Tutto dipendeva da Sherlock. John era sull’orlo di un baratro. Toccava a lui tirarlo via, lontano dal nulla, dall’oblio. “…Il mondo fa schifo.”
Era stata la prima cosa che gli era venuta in mente. Che senso aveva quella frase? Eppure, ora che aveva masticato le prime parole, avvertiva altre arrivare, affacciarsi alle sue labbra, premere sulla sua lingua. “Il mondo fa schifo.” ripeté. “Non sei tu quello sbagliato! Non sono gli Incompleti quelli sbagliati! E’ l’ordine naturale delle cose che è sbagliato! Ma cambiarlo è difficile… Forse impossibile. Quindi, tira fuori i pugni e da’ un cazzotto in aria. Accetta la verità, cioè che la vita è ingiusta! Che tu non c’entri niente, che i tuoi errori non sono imperdonabili.”
Non si accorse di star gridando. Di star scuotendo con forza John. Di star cercando di svegliarlo, di trascinarlo lontano da quella maledettissima voragine senza fine.
“Non sei tu. Non sei mai stato tu. Il peso del mondo non deve per forza essere solo sulle tue spalle.”
Qualcosa dentro di John si sciolse. Qualcosa che era rimasto dentro di lui per tanto, troppo tempo. Qualcosa che col passare degli anni aveva accresciuto le sue dimensioni, gli aveva occluso la gola, aveva cercato di soffocarlo. Un sorriso sollevato affiorò sulle sue labbra. Una sensazione di libertà prese possesso di lui. Qualcosa di forte, qualcosa di ineluttabile. Qualcosa che portava addosso il nome di Sherlock Holmes.
“Sherlock…” Non poteva più tenersi dentro tutto. Non poteva più combattere con il suo passato e il suo destino. Sherlock era lì, era il presente, era l’unica persona di cui potesse fidarsi. “…Il mio segreto. Ho bisogno di…”
“Sono qui.” lo interruppe Holmes. “Sono qui, se mi vuoi.”
John annuì. “Andiamo di sopra.”
 
   
 
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