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Autore: Francine    16/09/2017    4 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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24.




 
Di un viaggio non è importante l’approdo, quanto il tragitto. Quanto accade strada facendo. È quello, a cambiarti, ad aggiungere un pezzetto in più alla tua personalità, alla tua storia. Si chiama esperienza, ricordi?
E, se ben ricordi, durante un viaggio è bene fermarsi, di tanto in tanto. Un attimo soltanto, per sbrigare delle necessità di varia natura e urgenza. Magari c’è bisogno di andare lì dove nessun altro può andare al posto nostro, o di fumarsi una sigaretta, o mangiare un boccone. Cinque minuti e basta, il tempo di controllare il percorso, sia mai fossimo finiti fuori strada.
Ma se c’è qualcosa che l’uomo non ha ancora imparato è che l’umanità ha inventato il tempo, ma ne è anche diventata schiava e succube. Perché il tempo, così come lo abbiamo ingabbiato, non esiste. E siamo diventati noi gli schiavi del tempo, che, ridendo di noi e delle nostre nevrosi, ci fa la linguaccia e scivola via, dispettoso come il refolo di vento che scompiglia cravatte e cuori.
Avevano ragione gli antichi greci. Il tempo non è fatto di quando – ieri, oggi, domani – ma di come. L’azione è finita, compiuta, oppure no? E si può davvero raccontare qualcosa che si sta sviluppando sotto i nostri stessi occhi?
Chi lo sa?
A volte, ci si deve semplicemente fermare per chiedersi anche queste cose. Per un momento ancora. E quando ci rimettiamo in moto, ci accorgiamo che è passato molto più dei cinque minuti scarsi che ci eravamo ritagliati, o che avevamo preventivato. Il tempo è uno stronzo, sissignore.
Anche la strada non è più la stessa che avevamo tracciato all’inizio del nostro viaggio. E la strada di questa storia – le strade di questa storia – si biforca, si moltiplica, nel tempo e nello spazio, come i rami frondosi di un platano sul Lungotevere di Roma; o quelli magri ed affilati di un frassino di Göteborg.
Al buio, tutti gli alberi sono grigi.
E allora, avanti, Quattro Gatti. Andiamo a dare un’occhiata alla cartina, uno sguardo a volo d’uccello. Sarebbe un bel problema se ci fossimo perduti, strada facendo…


 
«Questo posto è fantastico», disse Stella, la mano stretta in quella di Luke e lo sguardo a vagare sulle casette e i giardini attorno a loro. «Sembra di essere in un quadro.»
Luke rise. «Sì. Tantolunden fa quest’effetto a chi lo vede per la prima volta.»
Avanzarono sotto i rami di un tiglio che faceva bella mostra di sé accanto ad una casa azzurro carico. Le foglie stavano virando verso l’oro ed alcune avevano già abbandonato i rami creando un tappeto sulle radici. Stella camminava controvoglia, come se non volesse perdere neppure uno scorcio di quel posto uscito dritto dritto da un libro di fiabe, ed imprimerselo bene nella memoria.
«E menomale che non ti ho portato qui a Natale!», disse Luke ridacchiando.
«Ma Luke, è…»
«…tutto così favoloso!», l’interruppe lui.  «Lo so, tesoro. Lo so.»
«Fai così perché tu ci sei abituato», protestò Stella mettendogli il broncio.
«Forse», concesse lui, mettendole un braccio intorno alle spalle. «Questo posto è magico, hai ragione, e questo è il periodo dell’anno in cui lo preferisco. I colori sono più ricchi, non è vero? Altro che a Midsommar
«Midsommar?» L’attenzione di Stella abbandonò i giardini e le casette colorate e si concentrò su Luke. «Cos’è?»
«La Festa di Mezza Estate», rispose lui. «Dopo il Natale, è la Festa per noi svedesi. Oddio, ci sarebbe anche Santa Lucia, ma…»
«Quando cade?»
«Il ventiquattro di giugno.»
Stella aggrottò le sopracciglia.
«Che c’è? Ti è tornato in mente qualcosa?»
«No.» Pausa. «Non ne sono sicura.»
«Parlamene.»
«No, Luke, io…»
«Stella, cos’ha detto il dottore?»
«Non me lo ricordo.»
Luke le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi le disse: «Quando ti viene in mente qualcosa, devi parlarne a chi ti sta vicino.». Pausa. «La memoria è come un puzzle, Stella. Se vuoi conoscere chi eri, devi chiedere l’aiuto degli altri, perché loro possono dirti come disporre quelle che per te sono delle tessere incoerenti…»
«Sì. L’ho capito. Così posso trovare il tassello mancante.»
Luke annuì. «Esatto. Da sola potresti non riconoscerlo.»
Stella stornò lo sguardo.
«No. Non abbassare gli occhi. Guardami, Stella. Guardami e dimmi cosa ti passa per la testa.»
Il vento accarezzò le fronde degli alberi, come se stesse facendo loro il solletico. Stella ebbe la spiacevole sensazione che stessero parlando di lei e che il loro non fosse un discorso piacevole.
«Quella festa. Mid…»
«Midsommar
«Midsommar», ripetè lei, scimmiottando la pronuncia di Luke. «Il ventiquattro di giugno. Questa data mi dice qualcosa, ma non so cosa.»
«Forse, è perché te ne ho parlato.»
«No. Non è quel genere di ricordo», ribatté lei, le mani in quelle di Luke e il mento sollevato. «Non riesco a capire se mi sia familiare la festa, oppure la data. Io non sono venuta qui per Midsommar, vero?»
«No, fiorellino. Questa è la tua prima volta in Svezia.»
Stella piegò la testa da un lato. «Strano. Eppure, questa data mi dice qualcosa…»
Luke si strinse nelle spalle. «Sarà per via delle fotografie.»
«Quali fotografie?»
Le afferrò una ciocca di capelli e la fece scorrere tra le dita, come a saggiarne la morbidezza. «Quelle che ti ho mandato per posta a fine giugno. Prima dell’incidente.» Pausa. «Sono sicuro che si tratti di questo. È un buon segno, dopo tutto. Anzi, sai che facciamo oggi? Scatteremo una marea di foto, così ti resterà il ricordo di questa giornata.»
«È un pensiero gentile, ma non abbiamo una macchina fotografica», gli fece notare lei.
«Bruna ha una polaroid», disse Luke. «Useremo la sua. Con una giornata così bella sarebbe un delitto non approfittarne.»
 
 
Il cielo era viola. Il viola cupo e sanguinario dei lividi che si rimarginano con lentezza esasperante. Non tirava un alito di vento. Tutto l’ambiente sembrava trattenere il fiato in attesa dell’inevitabile, qualcosa che Hyoga non riusciva a mettere a fuoco con certezza. Forse era solo una sua impressione?
Forse. Ma era tangibile e reale a sufficienza per fargli decidere di restare coi sensi in allerta.
C’erano file di esseri umani, all’orizzonte, anime che si muovevano verso una specie di rilievo che incombeva minaccioso sullo sfondo. Avanzavano come quiete, operose ed ordinate formiche che tornavano al nido. Sulla schiena non trasportavano le provviste raccolte in giro, per i giorni di pioggia, eppure le loro spalle erano curve e stanche. Stanno trasportando loro stessi, pensò Hyoga, e quell’idea gli diede le vertigini.
Un ginocchio cedette e si ritrovò accosciato ad osservare quello spettacolo lugubre. Quelle anime trasportavano la loro vita, i loro peccati, le loro speranze verso una sorta di… pozzo.
Il pozzo delle anime.
Hyoga deglutì a vuoto. Camus aveva raccontato loro questa leggenda in una delle tante sere in cui la neve cadeva così fitta che era impossibile vedere al di là del proprio naso. Isaac ascoltava con interesse, convinto che, presto o tardi, il loro maestro li avrebbe interrogati al riguardo. Hyoga, invece, era intimorito da quei discorsi. Li trovava strampalati. Blasfemi, perfino.
Se si crede alla reincarnazione, diceva Camus, le anime tornano in vita, dopo la morte.
Ma come?, aveva protestato lui. Le anime non vanno in paradiso o all’inferno?
«No», aveva replicato Camus, come se si aspettasse quell’obiezione. «Finiscono tutte in un pozzo.»
Un pozzo. Come se fosse la soluzione più logica. Dall’acqua veniamo e all’acqua torniamo, aveva chiarito Camus, spiegando loro che quel pozzo era il passaggio per il regno dell’Aldilà. E che, prima di un altro giro di giostra, le anime si fermavano a bere le acque del Lete. Il bicchiere della staffa, l’aveva definito Isaac, e invece di rifilargli un’occhiataccia – Camus detestava che qualcuno riducesse in farsa le sue lezioni – Camus aveva annuito e aveva detto: «Sì. In un certo senso.».
Hyoga aveva ascoltato con perplessità quel racconto. Ciò che il suo maestro andava dicendo era l’esatto opposto di quello che gli aveva insegnato sua madre, la sera, colle tende tirate e la candela accesa, nel segreto della camera da letto. Si nasceva, si moriva e si veniva giudicati per le proprie azioni. Quindi, a seconda di quello che si era combinato in vita, si finiva all’inferno, tra i diavoli e mille, atroci tormenti, oppure in paradiso, a godere dell’amore di Dio per l’eternità.
Esistono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia, gli aveva risposto Camus; e, col tempo, Hyoga aveva imparato che la realtà delle cose è molto più complessa e sfaccettata di quanto si creda. Ma accettare quelle sfaccettature era una cosa; toccarle con mano, ritrovarcisi nel bel mezzo era tutt’altra faccenda, qualcosa che Hyoga faticava ancora ad accettare.
Distolse lo sguardo da quella montagnola cupa – un formicaio, un vulcano? – e si guardò attorno.
Era solo.
 
 
Viggo scoppiò in una risata fragorosa, dando delle manate sul tavolo in un protestare tintinnante di posate e bicchieri. Accanto a lui, Freja prese un sorso di vino con aria annoiata, come se le costasse una gran fatica vivere, mentre Axel, alla sinistra di Viggo, commentò la battuta con un: «English, please.».
Viggo borbottò qualcosa in svedese stringendosi nelle spalle e si voltò nella direzione di Stella. Le sorrise, fece un gesto – come a volersi togliere il cappello – e proruppe in un’altra risata sguaiata.
Luke gli scoccò un’occhiata indecifrabile, posò il proprio bicchiere e, ricorrendo all’inglese, chiese a Freja: «Allora, come va la tua tesi?».
Il viso di Freja si illuminò. All’improvviso non era più così difficile vivere. «Procede», rispose con un sorriso smagliante. «Mi manca l’ultimo capitolo, e poi la discussione.»
Luke si voltò verso Stella e le spiegò: «Freja sta scrivendo una…».
«Tesi sperimentale», declamò lei, con la testa ben eretta e le spalle distese, come se stesse scandendo il proprio titolo nobiliare.
«Indovina su quale argomento?», le chiese Luke.
Stella rispose: «Non saprei», mettendoci la giusta dose di indifferenza. Freja non le piaceva, e la cosa era reciproca. Inoltre, quel tono d’acciaio che la biondissima padrona di casa usava quando si rivolgeva a lei – quando Luke la costringeva a rivolgersi a lei – le sembrava inaccettabile. Ignorando Freja e cercando lo sguardo dolce di Bruna, Stella pensò che non potessero esistere due sorelle così diverse. Se la prima era alta, bionda, pallidissima e algidamente altezzosa, sua sorella era il suo esatto opposto: capelli nerissimi e ricci, occhi nocciola, aspetto formoso, alla mano, Bruna si era subito prodigata per mettere Stella a proprio agio e farla sentire una di loro. Freja, no. Freja remava contro ed era stata più che felice quando Stella aveva stornato lo sguardo alla finestra per ammirare gli alberi dei meli attorno alla loro casetta. I rami erano carichi di frutti tondi e dorati che non chiedevano che essere colti e assaporati.
Stella decise che non le importava alcunché della tesi di Freja, così chiese a Bruna: «È difficile curare i meli?».
Bruna sorrise, come se non le dispiacesse mettere sua sorella all’angolo, una volta tanto.
«No. In realtà sono degli alberi resistenti e sopportano bene le gelate», rispose. «Basta avere l’accortezza di eliminare i parassiti e di coprire le radici in inverno.»
«Radici profonde non gelano.»
«Conosci Tolkien, Stella?», le chiese Axel incuriosito, sollevando il proprio bicchiere.
La testa di Stella andò da destra a sinistra un paio di volte. «No. Mi è venuta così, non sapevo fosse un suo verso. Chi era? Un poeta?»
«In un certo senso», rispose Axel con un sorrisetto.
«Tolkien era un filologo inglese», le spiegò Bruna rovistando tra i libri che occupavano ogni angolo possibile e immaginabile di quella casetta rosso fiamma con le finestre bianco gesso. Persino sotto al sedile incastrato nel vano della finestra trovavano posto delle nicchie in cui ospitare libri e cataloghi. «Il verso che hai citato si trova ne Il Signore degli Anelli…»
«Libro primo, La Compagnia dell’Anello.»
«Lo so, Axel. Grazie», rispose Bruna sfogliando un tomo voluminoso. «Aspetta un secondo, Stella…»
Freja sospirò.

«Non tutto quel ch'è oro brilla,
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch'è forte non s'aggrinza,
Le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco
,
L'ombra sprigionerà una scintilla;
Nuova sarà la lama ora rotta,
E re quei ch'è senza corona

Axel applaudì, Viggo si accodò e Luke levò il bicchiere. Risero e Freja abbassò il capo in segno di ringraziamento. Le punte asimmetriche del suo caschetto sfiorarono il legno robusto del tavolo da pranzo. Stella li fissava come se fossero appena sbarcati da Marte.
«È un passo molto famoso de La Compagnia dell’Anello. È una profezia», le spiegò Bruna, chiudendo il libro. «Dà al lettore un’anteprima di quello che accadrà nel corso del romanzo stesso.»
«Capisco. Questo Tolkien è il vostro autore preferito?»
«Sì e no», rispose Axel. «Diciamo che tutti noi abbiamo studiato Tolkien, in un modo o nell’altro.»
«Io sono filologa, Axel un anglista e Freja sta per laurearsi linguista», le spiegò Bruna. «Tolkien è stato un percorso obbligato.»
Ma allora perché lei lo conosceva? Stella tacque. Avrebbe avuto modo di chiedere lumi a Luke, più tardi. Non le andava di mostrarsi debole, davanti a quelle persone. Forse, era solo un autore molto popolare.
«E Viggo? Di che si occupa?» Stella lo chiese guardando Viggo dritto negli occhi. Quel ragazzo era la classica mosca nel latte: se Luke, Bruna, Freja e Axel appartenevano allo stesso milieu, Viggo no. Sembrava che qualcuno l’avesse recapitato per errore davanti alla casa di Freja e Bruna. Non si era sprecato a parlare in inglese, o almeno a provarci. Stella era certa che parlasse solo svedese, e vedere Axel tradurgli la sua domanda confermò la sua ipotesi. Viggo sbiancò, come se quell’innocua – ma un po’ scortese – domanda minacciasse di rivelare chissà quale segreto inconfessabile.
«Viggo è un macellaio», rispose Luke. «La sua famiglia gestisce un banco di carne nell’Östermalms Saluhall, il mercato storico di Stoccolma sin dalla sua apertura.»
Stella annuì. Aveva senso. Se ti occupi di carne, non sei obbligato ad allargare i tuoi orizzonti culturali, pensò.
Questo è un pensiero classista, la riprese una voce maschile. Qualcosa risuonò dentro di lei. Quella voce… l’aveva riconosciuta, ma non riusciva a stabilire a chi appartenesse. A qualcuno di a lei molto caro, a giudicare dal calore che le si era sprigionato nel petto e dal battito accelerato del suo cuore; ma come si chiamava questo qualcuno? Seiji? Sei? Seichiro? Seiy…
«La carne che abbiamo mangiato a pranzo viene dalla sua bottega.» La voce di Luke spezzò la sua concentrazione, riportandola nella casetta di Tantolunden.  «Carne di renna di prima qualità. Buona, vero?»
«Buonissima», rispose Stella, e il nome che stava cercando le scivolò via dalle labbra, come una carezza di vento. «Come si dice grazie in svedese?»
«Dank
«Dank, Viggo.»
Viggo arrossì e borbottò qualcosa in risposta.
Luke rise di cuore, poi si alzò e andò ad accomodarsi accanto a lei. «Dice che non c’è di che», tradusse indicando Viggo e mettendole un braccio attorno alle spalle. «Allora, Freja, ci stavi raccontando della tua tesi…»

 
«Questo è quanto.»
Shiryu si domandò cosa ci stesse facendo, in quella casupola rovente. Cosa ci stessero facendo tutti, assiepati dove capitava – chi su una sedia, chi sul pavimento, chi appollaiato sul bordo di una branda coperta da un vecchio lenzuolo. Seiya aveva appena raccontato loro qualcosa di incredibile. Qualcosa che, in un altro momento, qualsiasi persona dotata di buon senso avrebbe liquidato con un sorriso cortese ed un’alzata di spalle, prima di lasciare quell’antro soffocante senza dire nemmeno mezza parola.
Invece, erano tutti lì. Tutti in religioso silenzio a scrutare, a sondare gli occhi scuri di Seiya nella penombra irreale della tarda mattinata di Rodrio. Tutti a cercare un appiglio, una speranza, un gancio in mezzo al cielo.
Anche gli altri erano nelle sue stesse condizioni – disperate – e se fino a poche ore prima questa consapevolezza non era riuscita a lenire l’angoscia che gli stava mangiando il cuore, adesso il trovarsi tutti assieme come un manipolo di congiurati che borbottano tra loro per decidere chi dovrà affondare la lama nel petto della vittima, adesso tutto questo gli era di conforto. Adesso non si sentiva più solo.
Seiya lo fissava. Aveva passato in rassegna gli altri con lo sguardo, ma poi i suoi occhi si erano piantati in quelli di Shiryu. In attesa. Di un suo commento. Di una sua parola. Come se io potessi in qualche modo fermarti, pensò il Drago, riuscendo a reprimere un sorriso.
«Che ne pensi?», gli domandò Pegaso. E Shiryu alzò le mani.
«Penso? Non penso nulla», rispose, con una sincerità che lasciò spiazzato lui stesso per primo. «Non lo so, Seiya. Non so davvero cosa pensare.»
«Ma credi alle mie parole, Shiryu?», insistette Seiya.
Ho bisogno che mi creda almeno tu. Che non mi lasci da solo in questa pazzia. Questo gridavano gli occhi scuri di Pegaso; ma Shiryu aveva paura, troppa paura di sperare che sì, Seiya avesse ragione. Che Athena fosse ancora viva. Perché io non la sento?, si domandò il Drago, incrociando le dita. Perché non la percepisco?
«Mettiamo il caso che sì, io ti creda…» Seiya sospirò. Sotto al tavolo, le sue dita strinsero quelle di Shaina, seduta alla sua destra. «Supponiamo, anche solo per ipotesi, che Poseidone voglia fare una chiacchierata con noi senza provare ad affogarci. Poi?»
«Si va a salvare Athena», disse Jabu. L’Unicorno regalò al Drago uno sguardo indecifrabile. «È così che funziona, no? Athena è nei pasticci e noi la si salva. Sbaglio?»
«No. Non sbagli», replicò pacato Shiryu. «Ma se Athena fosse davvero viva, non dovremmo parlarne anche coi Santi d’Oro?» Il suo sguardo andò da Pegaso all’Unicorno e viceversa un paio di volte.
«Bah!», replicò Jabu scrollando le spalle. «Quelli si stanno comportando come un branco di galline senza testa. Andiamo, parliamo con Poseidone e poi decidiamo. Che abbiamo da perdere?»
Tutto, pensò il Drago. Shiryu alzò le mani, dichiarandosi sconfitto. «Suppongo che se anche non fossi d’accordo, voi due andreste lo stesso, vero?», chiese, conoscendo già da sé quale sarebbe stata la risposta.
Jabu e Seiya sorrisero all’unisono, in una sintonia così perfetta che, in un angolino della sua mente, Shiryu ebbe la certezza che quei due sarebbero stati amici per la pelle se solo il destino non ci avesse messo lo zampino. Se solo non ci fosse stata di mezzo Saori.
«Supponi bene», replicò Seiya. Jabu annuì.
«Ok, allora», disse.
«Ok, allora… cosa?», domandò Seiya.
«Vengo con voi.»
«Ok. Chi resta?»
«Come, chi resta?», domandò Geki. «Non penserete di lasciarmi qui, vero?»
«Qualcuno dovrà pur rimanere», disse Shaina. «Non possiamo allontanarci in massa. Se ne accorgerebbero subito. E io non voglio farmi ammazzare per niente.»
«Non è per niente. È per Athena!», replicò Geki, il ginocchio dondolante nel vuoto.
«Calma», disse l’Ofiuco da dietro la maschera. «Siamo tutt’ora nel campo delle supposizioni. Non abbiamo prove, ricordi?», aggiunse.
«Shaina!», tuonò Seiya, anche se alle orecchie della ragazza quella parola risuonò come un «Traditrice!».
«Ha ragione lei», intervenne Jabu. «È solo un’ipotesi, Seiya. Veniamo con te per verificarla
Seiya corrugò la fronte. «Che problema hai, Jabu?»
Jabu stirò le labbra in un sorriso stanco. «Che problema ho? Sono profondamente incazzato. Athena si fida al punto da chiedere a te di cercarla. A te. Non a me. A te. Ma va bene. Lo accetto. Nessun problema. Athena avrà i suoi motivi e io obbedisco. Ma prova a metterti nei miei panni. Tu ti fideresti ciecamente se i ruoli fossero invertiti? Se fossi io a dire a te che Athena mi ha ordinato di cercarla? Mi crederesti allo stesso modo, con la stessa convinzione, Seiya, o non ti lasceresti un margine di dubbio? Rispondimi. Sinceramente.»
Seiya tacque. Fissò Jabu negli occhi, poi stornò lo sguardo e rispose: «No.». E poi aggiunse: «Niente di personale.».
L’Unicorno si adagiò sullo schienale. Il legno scricchiolò.
«Appunto. Quindi, io propongo di andare, fare quel che c’è da fare e poi, solo poi, decidere.»
Shaina sciolse le proprie dita dalla presa di Seiya e si alzò.
«Io devo andare», disse. «Avete tempo fino alle sette di stasera, quando ci sarà l’assemblea. Dopodiché, non potrò più fare finta di niente. E adesso, scusate, ma il dovere chiama.»
Si allontanò a grandi passi, la schiena dritta e la fusciacca che ondeggiava ad ogni passo. Chiuse la porta dietro di sé e i ragazzi sentirono il ticchettio dei suoi tacchi sfumare sulle pietre che lastricavano il Santuario.
«Che donna», disse Jabu, un sorriso eloquente dipinto sulle labbra. Non le aveva staccato gli occhi di dosso mentre lei usciva di scena – forse ancheggiando più del dovuto, pensò il Dragone – ed era chiaro che Seiya non aveva gradito. Affatto.
«Torniamo alla missione, piuttosto…», replicò Pegaso alzandosi.
«Quasi quasi, un giorno o l’altro le chiedo di uscire…», proseguì Jabu sovrappensiero, come continuando un discorso che aveva avuto luogo nella sua mente.
«Scusami?», chiese Seiya, inarcando un sopracciglio. Ed il sorriso indisponente di Jabu confermò a Shiryu che sì, l’Unicorno si stava divertendo un mondo a stuzzicare Seiya.
«Shaina. Ha carattere, la ragazza. Penso proprio che quando tutta questa storia sarà finita, le chiederò di uscire, sì…»
Seiya tacque. Si morse le labbra, poi disse: «Ok. Ma mettiti in fila. Pare che il suo uomo sia un tipo molto geloso...».
«È un bene che non lo sia io, allora…»
Seiya ignorò il sorrisetto di scherno che Jabu gli rivolse, aprì un cassetto, ne tirò fuori una mappa e la stese sul tavolo. Afferrò una matita, ne inumidì la punta e fece un segno sulla cartina, all’altezza di Rodrio.
«Qui c’è il Santuario. Noi dovremo arrivare quaggiù…»
 
 
«Le avventure di Odisseo non si sono svolte nel Mediterraneo, ma nel Baltico», disse Freja accavallando una gamba e mostrando una caviglia nivea. «Durante l’Età del Bronzo, i Dori scesero in Grecia dal nord, portandosi dietro il proprio patrimonio genetico e le proprie leggende. E, nel tempo, ai luoghi originali si sono sovrapposti quelli in cui le i Dori si erano stabilitie. Questa teoria spiegherebbe cose che in quel laghetto che è il Mediterraneo sono improbabili.»
«Ad esempio?»
Lo sguardo di Stella era impassibile e la sua espressione era quella di chi si predispone ad una lunga, lunghissima dissertazione. Una di quelle destinate ad essere infruttuose, perché l’altro non dà sponda ad eventuali critiche, perplessità o richieste di ulteriori delucidazioni. Freja la guardava come si guarda una macchia su una poltrona, eppure, Stella sembrava come rinvigorita.
Vuoi davvero dimostrarmi che io ho torto e tu ragione, mocciosa?, dardeggiavano gli occhi verdissimi di Freja.
Certo che sì, risposero quelli di Stella.
«La geografia. Già nell’antichità si era confutata la tesi dell’ambientazione mediterranea. Ogigia si trova a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, giusto?»
«Giusto.»
«Ma se Ogigia fosse al di qua dello Stretto di Gibilterra, occorrerebbero ben più di cinque giorni per raggiungere la Britannia. Devi costeggiare Spagna, Portogallo e Francia, prima di arrivare anche solo ad intravedere la Manica. È più probabile che si tratti delle Isole Fær Øer e che poi, da lì, in due settimane, abbia raggiunto il regno dei Feaci, sulle coste della Norvegia.»
«Norvegia. Freddino, per giocare dormire nudi sulla spiaggia in attesa che una principessina ti trovi seguendo la sua palla, no?»
«Pensa all’ambiente che trova. Coste rocciose, alberi a profusione, maree che invadono il letto dei fiumi, risalendo verso l’interno.»
«Ma questo…»
«Senza contare che lo Stretto di Messina non genera certo tre vortici al dì, capaci di inghiottire una nave. No, no, quello è il maelström, che si forma verso le Lofoten, altroché.»
«Ma si forma due volte al giorno. Non tre», ribatté Stella. Non gliel’avrebbe data vinta, nossignore.
«E i nomi?», rilanciò Freja. «Non si riesce ancora a collocare Dulichio nello Ionio. Invece, qui nel Baltico, Langeland corrisponde perfettamente a Dulichio, e per la descrizione e per il nome. Isola lunga. Dulichio. Langeland. Più lampante di così!»
«Per quello si potrebbe scomodare l’Indoeuropeo. È la radice comune di quasi tutte le lingue parlate in Europa, o sbaglio?»
«Freja, arrenditi», intervenne Luke posando una mano sulla spalla di Stella. «Con Stella non la spunti. Questa signorina ha sempre avuto un debole per il nostro Odisseo.»
«E chi non ce l’ha?», sghignazzò Axel. «Voglio dire, pensiamo a tutte le donne che s’è fatto nel suo viaggetto… senza offesa, signore.»
«Così lo fai passare per un puttaniere!», scattò Freja.
«Luke, cos’è un puttaniere?», gli chiese Stella.
«Uno come Milos», rispose Luke. «L’ex fidanzato di Nadja, ricordi?»
Stella socchiuse gli occhi. Milos. Sì, quel nome le diceva qualcosa, ma non riusciva a mettere a fuoco quel particolare. «No, non me lo ricordo.»
«Meglio così, non è un ricordo piacevole», disse Luke, versandole dell’altro sidro. «Una donna in ogni porto. E spesso, anche più di una contemporaneamente. Nadja lo odiava. Ma oramai, fiorellino, è acqua passata.»
«Odisseo non era un puttaniere. Era un uomo astuto. Uno che usava il cervello, non quello che aveva tra le gambe», ribatté Freja stizzita.
Stella pensò che Odisseo doveva piacerle molto. In ballo c’era qualcosa in più di una semplice tesi di laurea, per quanto sperimentale questa potesse essere. Era curioso aver trovato qualcosa che la accomunasse a Freja. Stella non sapeva dire in che modo, ma sentiva che quella storia le apparteneva in maniera viscerale. Come se fosse un pezzo importante del suo passato. Forse aveva ragione Luke. Forse aveva sempre avuto un debole per quel marinaio vagabondo che aveva solcato in lungo e in largo il Mediterraneo – laghetto i miei stivali!, avrebbe ribattuto Julian.
Ricordo appena che faccia abbiano i miei genitori, ma ricordo l’Odissea per filo e per segno, pensò la ragazza sorbendo un altro sorso di sidro. Le amnesie sono eventi davvero bizzarri.
«Sì, sì, hai ragione tu.» Axel ribatteva a Freja, facendo un gesto con la mano come a scacciare una mosca fastidiosa. «Sappiamo tutti che se Troia è caduta è stato per lo stratagemma del cavallo…»
«No», rispose Freja. «Troia non cadde solo per quel motivo.»
«Ah no? E perché cadde, allora? Sentiamo!»
«Perché nella confusione generale Odisseo e Diomede ne approfittarono per trafugare il Palladio.»
Stella sussultò. «Il Palladio?»
«Sì. Il Palladio.» Freja portò il suo sguardo su di lei. «La statua di Athena che proteggeva la città.»
Stella cercò lo sguardo di Luke. Si sentiva strana. Stava accadendo qualcosa, nel suo cervellino e pensava che, forse, chissà, parlandogliene, lui l’avrebbe aiutata a rimettere assieme i pezzi. Gliel’aveva promesso. Ma quando si voltò, Luke stava guardando Freja, incuriosito.
«Eleno aveva predetto che Troia sarebbe caduta solo quando, tra le altre cose, i Greci fossero riusciti a trafugare la statua di Athena dalla città. E così avvenne.»
«Tutto questo disturbo per una statua?», commentò Axel.
«Se quello è il tuo obbiettivo, sì», rispose Luke, lo sguardo improvvisamente serio. «E se vuoi raggiungere il tuo obbiettivo, non c’è niente di meglio che distrarre l’attenzione del tuo avversario. Non credi?» Riempì il bicchiere di Stella e sollevò il proprio. «Signore e signori, qui s’impone un brindisi. All’ingegno di Odisseo e alla tesi di Freja!»
 
 
«Allora ci siamo. Si va in scena.»
Seiya afferrò una mela, la buccia rossa screziata di giallo, e se la lucidò contro la maglia. La addentò, ne gustò la polpa zuccherina schiacciandola colla lingua contro il palato e disse: «Sì.». Poi aggiunse: «Dovresti provarle. Sono de-li-zio-se.».
«Magari più tardi.»
«Carpe diem», replicò lui. «Cogli l’attimo, quando si presenta l’occasione. Potrebbe non ricapitarti una seconda volta», e le scoccò un’occhiata indecifrabile.
«A chi lo stai dicendo?»
«Scusa?»
«A chi lo stai dicendo?», ripeté lei. «A me, o a te stesso?»
Un lampo attraversò lo sguardo di Seiya, scaldando le sue iridi castane. «Chi lo sa?», disse stringendosi nelle spalle. «Dopo potresti non avere il tempo di gustartela, questa mela.»
«Tu dici?»
«Sì. Lo dico», rispose lui. «Potresti dover correre, dopo. E mangiare correndo è alquanto scomodo, non ti pare?»
Le si avvicinò e le porse la mela. Shaina la prese e le sue dita sfiorarono quelle di Seiya e una piccola, deliziosa scarica elettrica le corse lungo i polpastrelli. Abbassò lo sguardo sulla mela.
«Mi stai regalando una mela morsa?», volle chiedergli, ma quando sollevò il viso, Seiya si era fatto più vicino.
«Che fai? Sei impazzito?», sibilò lei.
Seiya si limitò a sorridere, arricciando appena le labbra, come se volesse darle un bacio.
«Sto per partire», disse.
«Buon… buon viaggio», azzardò lei, dandosi della stupida quando lui aggrottò le sopracciglia.
«Non vado in vacanza, Shaina. Sto partendo in missione», le fece notare. Shaina si chiese da quando la voce di Seiya era così bassa e calda. «Quindi, dovresti dirmi…»
«Silenzio.
«Dovresti dirmi?»
«Co…sa?»
Seiya sospirò. «Okay. Fai conto che io abbia indossato la mia armatura e che sia qui, davanti a te, con l’elmo tra le mani. Sto partendo in missione. E cosa si dice a chi parte in missione?»
«Co… conosci te stesso», sussurrò Shaina, le guance in fiamme contro il metallo freddo della maschera.
Seiya sorrise, e a lei esplose una salva di fuochi d’artificio nel cuore. Si avvicinò al suo orecchio e rispose: «E niente in eccesso», con una voce così seducente che Shaina sentì le ginocchia sciogliersi. Non partire. Non partire. Resta qui. Con me.
Lui la sostenne tenendola per un gomito. Le sorrise, poi disse: «Fai attenzione, d'accordo?», prima di accarezzarle la pelle, infilare le mani nelle tasche dei jeans e andarsene via, lasciandola ad osservare la sua schiena che si allontanava.
Non appena Seiya sparì dietro un paio di lecci, Shaina si ricordò di respirare. Come se si fosse spezzato un potente incantesimo, sbatté le palpebre e si passò una mano tra i capelli. Seiya non c’era più, lei sentiva un freddo tremendo, la mela era tra le sue dita. Shaina percepì uno sguardo persistente trapassarle la schiena. Si voltò. Alle sue spalle, Gemini la guardava con aria indifferente.
Guardona, pensò Shaina.
Gemini sollevò un sopracciglio, poi disse: «Vedo che Pegaso si è ripreso.».
«La gramigna non muore mai.».
Gemini abbozzò un sorriso. «Gramigna?», ripeté.
«È un modo di dire», ribatté Shaina.
«Non è molto lusinghiero nei confronti del salvatore della Patria», commentò l’altra. «O forse al fiero Santo dell’Ofiuco brucia un po’ avere una cotta per un Santo di Bronzo?»
Le dita di Shaina si strinsero attorno alla mela e questa esplose con un suono liquido. Abbassò lo sguardo, soffermandosi sulla propria mano come se la vedesse per la prima volta.
«Non ci sono più le mele di una volta», commentò Nadja osservando le sue dita.
«Se permetti», e Shaina si diresse verso il campo di addestramento femminile, lasciando i pezzi di mela sul terreno e Gemini a fissare la sua schiena.
Shaina si trovò a ringraziare la propria maschera. Se non l’avesse avuta indosso, Gemini avrebbe notato lo sguardo assassino che le aveva sbarrato gli occhi e la sua mascella irrigidirsi. Stronza, pensò. Le sarebbe piaciuto mangiare una mela che le aveva regalato Seiya. Anche se era stata morsa. Proprio perché lui l’aveva addentata. C’era qualcosa, in quel gesto infantile, che Shaina non riusciva ad afferrare, un sottinteso che le sfuggiva.
Ti stai facendo troppi castelli in aria, le disse la sua coscienza, prendendo in prestito la voce di Marin, e Shaina si disse che sì, aveva ragione. Forse aveva ragione. O forse aveva torto – torto marcio – la cara, saggia Marin.
Ripensò a quello che Seiya le aveva sussurrato prima, al Kerameikos, e le sue guance presero fuoco di nuovo.
Piccolo stupido! Vedi di non farti ammazzare!
Entrò nella sua casupola, si sfilò la maschera e azionò la pompa dell’acqua per lavarsi la mano dai residui di mela. Si sciacquò il viso. Mancava ancora qualche ora alle sette di sera. Mezza giornata. Il romanzo che aveva sequestrato a Lois occhieggiava sul tavolo.
Si strinse nelle spalle. Solo qualche pagina, si disse, scostando la sedia e lasciandovisi cadere. Solo qualche pagina.


 
Il giardino che circondava la casa di Freja era un tripudio di rosso e oro. Le fronde dei meli circondavano la casetta color rosso fuoco dalle finestre bianche. Piccole siepi di vischio ornavano il perimetro del giardino. Un tavolo di ciliegio ed una panca aspettavano solo che qualcuno si sedesse sotto un melo stracarico di frutti.
«Questo posto è stupendo», disse Stella accomodandosi. «Non pensavo esistesse nulla del genere.»
«Tantolunden fa questo effetto ai turisti», disse Bruna prendendo posto accanto a lei.
«Lo ha detto anche Luke, quando siamo arrivati.»
Bruna sorrise, e avvicinò la bottiglia del sidro al bicchiere di Stella.
«No, grazie», rispose la ragazza, coprendo il proprio bicchiere con la mano.
«Oh, avanti. Ci si può divertire senza bere, ma perché rischiare? E poi, lo dice anche il detto, no? Una mela al giorno, toglie il medico di torno», disse Bruna, scostando le dita dell’altra e versandole altro sidro. «Brindiamo. A Tantolunden e alla nostra amicizia.»
«A Tantolunden e alla nostra amicizia», ripeté Stella.
«Buono, vero? Lo facciamo noi, con queste mele qui.»
«È buonissimo, ma questo è l’ultimo bicchiere.»
Bruna rise. «Ti abituerai. Qui in Svezia il succo di mela è un’istituzione, come il tè per gli inglesi. Freja lo corregge con un goccio di vino bianco frizzante.»
«Ecco perché mi sento la testa così leggera…»
«Oddio, ti abbiamo fatto ubriacare!»
Scoppiarono a ridere, come due bambine, aiutate anche dal sidro che avevano bevuto per quasi tutta la giornata. Poi Stella notò l’anello d’argento all’anulare sinistro di Bruna.
«Sei fidanzata?», le chiese.
Bruna sbatté le ciglia, guardò prima Stella, poi la sua mano, e infine disse: «In un certo senso.».
Stella tacque. Poi, vedendo che Bruna non proseguiva, chiese: «È Axel?».
Sapeva che certe cose non si fanno, che scavare nell’intimità delle persone è come infilare le mani nel loro cuore; eppure, Stella non era riuscita ad impedirsi di chiedere. Certo che era Axel; doveva essere Axel. Non poteva essere Viggo, erano troppo diversi, lui e Bruna. Però, Stella voleva lo stesso una conferma. Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce, dopotutto.
Gli occhi di Bruna dardeggiarono, poi, con un tono gelido, la ragazza disse: «No. Quest’anello testimonia un voto fatto anni addietro. Rimarrò vergine fino al matrimonio.».
«Ah!» Stella arrossì. «Scusami, non volevo essere indiscreta.»
«Nessun problema», la rassicurò Bruna, anche se il suo tono testimoniava l’esatto opposto. «La mia è una famiglia molto religiosa. Per me e per Freja è stato naturale compiere questa scelta.»
Accarezzò distrattamente l’ambra incastonata al centro dell’anello.
«È molto bello.»
«Quest’anello si chiama Sköldenring. Anello dello Scudo», tradusse Bruna, «e può togliertelo solo tuo marito, la sera delle nozze. Quando mi hai chiesto se fosse un anello di fidanzamento non ci sei andata lontano. Un anello di fidanzamento indica che hai votato la tua vita e la tua virtù a qualcuno. Fidanzamento ha la stessa radice di fiducia, dopotutto. La differenza è che io ancora non so chi sarà il mio fidanzato. Tu, invece, sì.»
«Capisco», commentò Stella, tuffando il naso nel suo bicchiere.
Bruna le sorrise.
«Sono contenta di averti conosciuto», disse. «Luke ci ha parlato così tanto di te che morivo dalla voglia di incontrarti di persona.»
«Spero di non averti deluso.»
«Sei esattamente come t’immaginavo!», commentò Bruna, dandole di gomito. «Sono felice che Luke abbia scelto te.»
Voltò lo sguardo in direzione della casa. Nel riquadro della finestra Luke e Axel parlottavano tra loro, mentre Viggo annuiva.
«E poi, grazie a te, siamo riusciti a staccare Freja dai libri per una giornata! Te ne sono infinitamente grata. Mia sorella è una perfezionista e s’è rinchiusa qui per scrivere la sua tesi.»
«Forse Freja non la pensa così. Non credo di esserle molto simpatica.»
«È solo gelosa. Lei è molto affezionata a Luke, tutto qui.»
«Tutti voi gli volete un gran bene.»
«Lo adoriamo. È stato un po’ il fratello maggiore di tutti noi.»
«Come vi siete conosciuti?»
«Qui», disse Bruna, allargando le braccia, come a voler raccogliere tutto il parco in quel gesto. «Il nonno di Axel aveva una casetta oltre quel larice laggiù, e lo zio di Viggo, invece, una dall’altro capo del parco. Lui è vegetariano. In una famiglia di macellai è peggio che essere una pecora nera!»
«E Luke?»
«Veniva a giocare da queste parti. In realtà, ci veniva per dipingere e noi gli rompevamo gli stivali in ogni modo possibile e immaginabile.»
«Davvero?»
«Sì. Era un tipo paziente.»
Bruna sorrise tra sé e sé, lo sguardo perso tra i ricordi e le assi sbeccate del tavolo.
«Una volta», iniziò a raccontare, «Axel sgattaiolò alle sue spalle, zitto zitto, gli si avvicinò e gli gridò “buh!!” con quanto fiato aveva in gola. Luke spiccò un salto prodigioso, uno di quelli che ti porta sulla Luna in dieci secondi, hai presente?»
«Luke?»
«Sissignore. Era così buffo. Peccato che nel salto avesse spalmato tutta la sua tavolozza sulla tela. Un bel guaio, lavorava a quel quadro da un sacco di tempo. Così ha rincorso Axel fino alla casetta di suo nonno, gli ha abbassato i calzoni e l’ha sculacciato per benino fino a quando il nonno di Axel non è uscito per vedere chi stesse scannando suo nipote.»
«E poi?», domandò Stella, stringendosi tra le braccia. Si stava alzando il vento, ma non voleva rientrare, non prima di aver sentito come andava a finire quella storia.
«E poi il nonno di Axel gli ha dato il resto!»
Risero entrambe, Stella provando una genuina simpatia per Axel, e Bruna assaporando il gusto agrodolce dei ricordi.
«Non deve averla presa bene…»
«No. Era furioso. Aveva lavorato a quel quadro per giorni. Ed era anche bello sai? Era una veduta del parco, con quegli alberi in primo piano.» Bruna indicò coppia di alberi che facevano bella mostra nel giardino. «Le mele di Idunn», aggiunse, come se questo dovesse significare qualcosa.
Stella fissò l’albero. Niente. Nessun campanello, nessuna lucina.
Buio pesto.
«Tua nonna?», tentò. Parlando con Bruna sentiva che la ragazza cercava di aiutarla in qualche modo, come se tutti i loro discorsi fossero dei tentativi di scalfire il muro dell’amnesia che regalava a Stella la sgradevole sensazione di stare galleggiando nel vuoto. O di essere un personaggio di un racconto, qualcuno senza radici, senza legami, senza passato, soltanto il segmento che il regista decide di illuminare.
Tutto il resto, è ombra.
Tutto il resto è noia.
Stella sbatté le palpebre. Aspetta, chi cantava questa canzone?
Bruna la strappò ai suoi pensieri.
«No, no. Mia nonna si chiama Annikafiore.» Rise. «Ma fu grazie a Idunn se questi meli si salvarono.»
«Adesso mi racconti tutta la storia», commentò Stella.
«Subito dopo la guerra, mio nonno ottenne questo lotto ad un prezzo di favore purché si occupasse del giardino, e vi trapiantò quei due meli dalla fattoria che aveva appena fuori città», spiegò Bruna. «Quando i nazisti occuparono la Svezia e saccheggiarono le fattorie, nessuno toccò quegli alberi.»
«Come mai?»
Bruna rise. «Mio nonno era filologo, come me, ma era anche una gran carogna. Tutti conoscevano la passione dei nazisti per le reliquie germaniche, così li convinse che si trattavano degli alberi di Idunn, e nessuno toccò i suoi meli.»
Stella alzò lo sguardo ai rami carichi di frutti.
«Ma chi è questa Idunn?»
«Nella mitologia scandinava, Idunn era la moglie di Bragi, il dio della poesia. Si diceva che avesse un giardino in cui crescevano delle mele magiche che garantivano agli dei l’eterna giovinezza.»
«E l’immortalità?», chiese Stella.
Bruna sorrise. «La mitologia scandinava è particolare. La fine arriva per tutti, anche per gli dei.»
«Ah, il crepuscolo degli dei.»
«Quello è Wagner. La traduzione corretta è Destino degli dei. Quello che attende tutti, mortali e divinità. Quindi, a che ti serve l’immortalità se tanto, prima o poi, dovrai morire? È uno spreco di risorse. Meglio mantenersi giovani e forti, no?»
Bruna le sorrise, ma Stella non le si accodò. «È una visione pessimistica del Destino.»
«No. Il Destino è il Destino», rispose Bruna. «Ka
«Ka? Sempre Tolkien?»
«No, Stephen King. Hai mai letto i suoi romanzi del ciclo della Torre Nera
«No. È la prima volta che ne sento parlare.»
«Leggili, sono stupendi! Te li presterei volentieri, ma ho l’edizione in svedese. Luke, però, dovrebbe avere quella originale.»
«Okay. Ma che c’entra col discorso delle mele di Idunn?», chiese Stella, l’espressione confusa. «Non ti seguo.»
«C’entra, c’entra», rispose Bruna con fare sibillino. «Il Ka è il destino, quello a cui non si sfugge. È un archetipo comune a molte culture. C’è il Ragnarok per Asgard, Tyche per l’Olimpo e il Ka per Roland il Pistolero. Ma è sempre la stessa storia.»
«D’accordo, ma come si ricollega tutto questo colle mele di Idunn?»
«Perché anche le mele sono un archetipo.» Bruna si alzò e raggiunse il melo che suo nonno aveva piantato lì più di quarant’anni prima, ne colse un frutto e se lo rigirò tra le dita come a saggiarne la perfetta rotondità. «La mela è il frutto per eccellenza. Per una mela, Adamo ed Eva furono scacciati dall’Eden. Le mele di Idunn garantivano l’eterna giovinezza e la salute degli Asi e dei Vani. Una mela d’oro scatena la Guerra di Troia e una rossa come il sangue avvelena Biancaneve.»
«È vero», commentò Stella, rapita. «Adesso che mi ci fai pensare…»
Bruna si strinse nelle spalle. «È tutto sotto i nostri occhi. Il trucco è sapere dove guardare e cosa cercare.» Le lanciò la mela. Stella la prese al volo. «Assaggiala. Sono buonissime.»
«Senza lavarla?»
«Non usiamo pesticidi», rispose Bruna, infilando le mani nelle tasche dei jeans. «Assaggiala e dimmi se non è deliziosa.»
Stella si lasciò convincere. Spolverò la mela sulla manica del suo abito, poi l’addentò. Squisita. La polpa era soda e zuccherina e la buccia aveva un profumo intenso e avvolgente. Chiuse gli occhi e masticò il boccone sprofondando in un vero e proprio abbraccio multisensoriale.
«Allora?», chiese Bruna.
«Squisita», mugolò Stella, a bocca piena.
«Che ti avevo detto?», ribatté l’altra. «Questa è tutta roba genuina. Usiamo la buccia per aromatizzare il sidro e creare dei pot-pourri, e la polpa per il sidro, le marmellate e le torte di mele.»
«Devono essere squisite!»
«E lo sono. Freja ha le mani d’oro, quando si tratta delle mele.» Bruna la raggiunse. «Però adesso sarà meglio rientrare. È sceso il crepuscolo.»


«Questa donna dice di avere un messaggio urgente per il Santuario, signore.»
Ban fissava la straniera con aria perplessa. Venticinque anni portati male, capelli arruffati, troppa carne sulle ossa minute e negli occhi la volontà di mettere al più presto quanta più strada possibile tra lei e quel posto.
Ambasciator non porta pene, di solito. Ma stavolta sembrava proprio che la donna fosse consapevole della portata della sua ambasceria.
«È cosa seria, dice. Io non sapevo se fosse il caso di scomodare le alte sfere, sicché mi rimetto a voi, signore.»
Nella testa di Ban si formarono due pensieri, brillanti come diamanti contro il velluto nero. Il primo era che la lingua parlata al Santuario era antiquata, un greco vecchio e polveroso che alle sue orecchie sembrava provenire da un altro tempo, quando pepli, chitoni e coturni erano all’ultima moda.
Il secondo, invece, riguardava quanto aveva detto quel soldato semplice di cui non rammentava il nome – erano tutti uguali per lui, tutta marmaglia che ingrossava l’esercito di Athena non avendo trovato niente di meglio da fare nella vita.
Non volevo disturbare i Santi d’Oro, così ho chiamato te.
È un’offesa?
, si domandò. Poi Ban si disse che no, non lo era. Il soldato aveva ragionato seguendo gli schemi mentali di chi vive in una gerarchia: aveva seguito la catena del comando e aveva avvisato chi stava sopra di lui in grado. E loro, abituati a lavorare da soli, come un branco di cani selvatici, facevano fatica a capire certe sottigliezze che invece questa marmaglia dava per scontate.
Se ti avessi scavalcato, poi tu me l’avresti fatta pagare, gli stavano dicendo gli occhi del soldato.
«Signore?»
Ban si riprese e annuì. «Ben fatto…»
«Sakis.»
«Sakis. Giusto. Ben fatto, Sakis. Ora, lasciaci. Parlerò io con questa donna e…»
«Signore», lo interruppe Sakis, «mi scusi se insisto, ma è cosa grave. Grave assai», ribadì e solo in quel momento Ban si accorse che quell’uomo aveva superato la trentina da un pezzo. E che il suo sguardo non era allarmato perché stava parlando con un suo superiore, un ragazzetto di tredici anni, nossignore, ma perché il messaggio della donna doveva essere davvero fondamentale. Di vitale importanza. Ma cosa avrebbe dovuto fare, lui? Ascoltare il messaggio della donna e poi correre dritto filato da Mu o da Shaka?
Ban si voltò verso la donna. La quale, in un inglese secco e dai suoni spezzettati, mormorò che veniva da Asgard e che era lì in veste di ambasciatrice. Ban annuì e la donna aprì la borsa che portava a tracolla, estraendone un sacchetto di velluto rosso, legato da un nastrino. Glielo porse. Pesava. Ban slegò il nodo che teneva chiuso quell’involto e vi guardò dentro. E il mondo intorno a lui cominciò a girare all’impazzata.
Sentì appena la donna mormorare qualcosa. Delle scuse, delle… condoglianze, ecco, sì. Condoglianze. Il suo signore era dispiaciuto e porgeva al Santuario le sue condoglianze più sincere.
Il battito del cuore di Ban gli inondò le orecchie, poi il Leone Minore gridò:«Sakis!», pallido in volto e le mani tremanti.
«Sissignore!»
«Sakis, corri ad avvisare il Nobile Mu o il Nobile Shaka e di’ loro di venire qui subito!»
Sakis annuì, schioccò i talloni e si allontanò di corsa, lasciando Ban e la misteriosa mabasciatrice a pochi passi oltre l’emporio di Agathê.
«Io vado», disse la donna nel suo inglese elementare e fece per muovere un passo quando la mano di Ban si chiuse sul suo polso, paralizzandola.
«No. Abbiamo bisogno di alcune informazioni che solo tu puoi darci», scandì Ban, parola per parola, cercando aria buona da respirare.
«Io non so niente!», strillò lei, prima di divincolarsi e di gridargli qualcosa che Ban non capì.
«Desolato, ma tu non vai proprio da nessuna parte...»

 
«Sei stata bene?»
L’abitacolo della Volvo di Luke era caldo e confortevole. Stella si sfilò le scarpe e si massaggiò i piedi. «Benissimo.»
«Sono contento», disse Luke mentre Tantolunden scompariva nello specchietto retrovisore e l’automobile s’immetteva nel traffico serale. «Ci tenevo che tu e i ragazzi andaste d’accordo.»
«Sono molto simpatici. E sono stati molto carini nei miei confronti.»
«Tranne Freja», disse Luke. «Devi scusarla, tende ad essere iperprotettiva, ma vedrai che quando vi sarete conosciute meglio diventerete ottime amiche.»
Sì, e stanotte nevicherà blu.
Non sarebbe mai successo. Freja la detestava, altroché, e Stella sapeva che quella di accattivarsi le sue simpatie era una battaglia persa in partenza, ma preferì che Luke cullasse questa sua convinzione.
«Ne sono sicura», mentì Stella guardando la città illuminata sfilare oltre il finestrino. «Scommetto che è simpatica come sua sorella.»
«Scommessa persa.» Luke si fermò ad un semaforo e si voltò verso di lei, un alone rosso ad illuminargli il viso. «Bruna è estroversa, Freja introversa. Bruna ama chiacchierare, Freja ascoltare. È una brava ragazza, ma devi apprezzarla per quella che è.»
«Ho capito.»
Il semaforo divenne verde e la Volvo riprese la marcia.
«Di che avete parlato, tu e Bruna? Siete state via un’eternità…»
«Cose da donne», rispose Stella. «Cos’è, sei geloso?»
«No, no», rispose lui. «Se posso guardare, va tutto bene…»
«Luke!!»
«Scherzavo, scherzavo…»
«È uno scherzo cretino», ribatté lei accoccolandosi sul sedile, i piedi sotto al corpo.
«Hai ragione. Ti chiedo scusa.»
La Volvo superò una serie di incroci prima che Luke le chiese se avesse ancora freddo. «Avete preso un po’ d’umidità in giardino. Sicura di stare bene, fiorellino?»
«Sì, sto bene», lo rassicurò Stella. «Quei meli sono bellissimi. E ci sono tutte quelle siepi deliziose attorno alla casa.»
«Ti piacciono?» Stella annuì. «Sono siepi di vischio.»
«Non l’avevo mai visto così.»
«È molto popolare in Svezia. Si crede protegga dalla sfortuna e dalla malattia. Ce n’è una siepe in quasi tutti i giardini.»
«Scommetto che Bruna avrà una storia da raccontarmi anche sul vischio.» Luke rise. «Non ridere. C’è stato un momento, oggi, in cui mi sono sentita davvero strana.»
«Definisci strana.»
«Non lo so. Forse sono solo mie sensazioni. Parlare in inglese per tutta una giornata può essere stancante.»
«Non mi stai dicendo tutto, Stella», la rimproverò lui, collo stesso tono che usava suo nonno quando smascherava le sue frottole. Stella rivide il suo volto rugoso contrarsi in uno sguardo serio e accigliato, ma qualcosa, in quel ricordo, stonava. Suo nonno non la chiamava Stella. Suo nonno la chiamava S…
«Stella? Stella, mi stai ascoltando?»
«Sì, Luke. Scusami, sono molto stanca.»
«Posso immaginarlo», disse lui. «Ma puoi dirmi cosa c’è che non va, amore mio?»
«Non c’è niente che non va.»
«Avanti, Stella, non ricominciamo. Dimmelo.»
«Dirti, cosa?»
«Qualcosa non è andato per il verso giusto.» Pausa. «Io credo di averlo capito, ma gradirei che tu me lo dicessi.»
«No, Luke, davvero», si schernì lei.
«E invece no.» Luke scalò in terza, poi in seconda e la Volvo imboccò una stradina a destra. «Ma siccome è una questione di fiducia e di rispetto, vorrei che me lo dicessi tu, e che non dovessi cavarti le parole di bocca. Questo mi ferisce, Stella, sappilo.»
«Non reagire così.»
«E come dovrei reagire?» Pausa. «Tu non ti fidi di me!»
Luke aveva tirato fuori l’artiglieria pesante. L’aveva colpita e l’aveva affondata. Il semaforo in fondo alla strada divenne giallo. Luke scalò le marce e la vettura si fermò sulla linea d’arresto.
«No, Luke. Non è questo.»
«E allora cos’è, tesoro?» La luce rossa del semaforo proiettava un alone minaccioso sul suo volto. «Dimmelo.»
Stella tacque. Il semaforo divenne verde e qualcuno sventagliò i fari alle loro spalle. Luke distolse lo sguardo e mise in moto.
«Sono… sono i tuoi amici, Luke», mormorò Stella guardando le luci della città.
«Pensavo ti piacessero.»
«Sì. Mi piacciono. Ma tutti quei discorsi che abbiamo fatto nel pomeriggio… Mi sono sentita strana perché mi risultavano familiari.»
«Davvero?»
«Sì, davvero.»
Le labbra di Luke si curvarono all’insù. «Ma è meraviglioso!» Si voltò verso di lei e le coprì la mano sinistra con la propria. «Amore, che bella notizia!»
Stella arrossì. Quelle cinque dita avvolgevano le sue, il palmo di Luke era caldo e rassicurante, come una coperta sulle spalle o il fuoco scoppiettante di un camino in una fredda sera di gennaio. Le dispiacque quando lui ritirò la mano per azionare la leva del cambio.
«Una bella notizia?», chiese, titubante.
«Sì! Tu sei sempre stata una grande appassionata dell’Odissea.»
«L’hai detto anche oggi. Eppure…»
«Quando ci siamo conosciuti, alla festa di compleanno di Julian, abbiamo passato quasi tutta la sera a chiacchierare in giardino. O meglio, tu mi hai raccontato tutta l’Odissea, io ascoltavo. Ricordi?»
Stella assottigliò lo sguardo. Il compleanno di Julian Solo era stato in marzo, ed era stata una serata piacevole. L’aria era tiepida, la villa di Glyfada era illuminata e strapiena di persone. L’orchestra suonava, la fontana in giardino disegnava giochi d’acqua e la luna splendeva in cielo così grande e vicina e luminosa da dare l’impressione di poter allungare la mano e prenderla, come fosse un fiore di campo. E il sorriso di Luke, il suo sguardo impossibile in cui immergersi per non riaffiorare più, mentre lei gli raccontava di Odisseo, Circe, Nausicaä, Calypso…
«Per questo ho chiesto ai ragazzi di darmi una mano. Freja sta scrivendo la tesi proprio sull’Odissea.» Le sfiorò la mano colla sua. «Qualcosa», disse accarezzandole la testa, «si sta muovendo in questo cervellino. Ecco perché ti sei sentita strana.».
«Dici?»
«Oh, sì. O. Acca. Esse. I.»
Si fermarono all’ennesimo semaforo rosso e Luke ne approfittò per scoccarle un bacio tra i capelli. L’aroma della sua acqua di colonia avvolse Stella in un abbraccio che le tolse il respiro.
«Dobbiamo festeggiare, tesoro», le disse guardandola negli occhi. «Domani andiamo per negozi e ti compro qualcosa di speciale.»
«Quanto speciale?», chiese lei.
Lui ridacchiò, il semaforo divenne verde e si rimisero in moto. «Lo deciderai tu.»
«Quel paio di scarpette che ho visto in centro eiri pomeriggio sono abbastanza speciali?»
«Quali? Quelle rosso ciliegia così sexy da meritarsi il centro della vetrina?»
«Quelle», ridacchiò Stella.
«Oh, sì», e il sorriso di Luke fece sciogliere Stella fin nelle viscere. «Ma quelle scarpe sono così sexy che avrai bisogno del porto d’armi, tesoro…»
«Troppo?»
«Niente è troppo per la mia regina», commentò Luke svoltando per una stradina stretta e tortuosa, ma Stella non era più con lui.
La mia regina.
La mia regina.
La mia regina.

Al viso magro di Luke se ne sovrappose un altro; più infantile, forse, ma che fece tintinnare una distesa di campanellini nell’animo di Stella mentre gli occhi verdissimi di Luke mutavano in un caldo marrone, e un nome diverso saliva alle labbra di Stella. Sa… Shi… Su… Se…
Luke le batté la mano su un ginocchio e quel volto misterioso ripiombò nel dimenticatoio, catapultato indietro anni luce dal sorriso splendente del suo fidanzato. «Non vedo l’ora di dirlo ai ragazzi!»
«C’è un’altra cosa, Luke.»
Lui sbatté le palpebre, intimorito. Stella strinse le labbra. Mi è uscita più dura di quanto avrei voluto, pensò.
«Cosa, pavoncella mia?»
«Viggo. Mi guardava in maniera strana.»
«Strana?»
«Sì. Sembrava che fossi io, il Palladio.»
Luke scoppiò in una risata di cuore, come se lei gli avesse appena raccontato la più formidabile delle barzellette.
«Non ci trovo nulla da ridere», lo sgridò lei. «Mi fissava come se fossi un animale raro.»
«Scusami, amore, è che l’inglese di Viggo lascia molto a desiderare e ha fatto una fatica pazzesca a seguire i nostri discorsi.»
«Mi fissava», protestò lei.
«È perché sei bellissima», le spiegò Luke. «Ho spiegato ai ragazzi la tua situazione. Sono sicuro che Viggo volesse solo vedere se i nostri discorsi facessero suonare qualche campanello, tutto qui. Ma se ti dà così fastidio, scambierò due parole con lui.»
«Te ne sarei davvero grata.»
«Ma certo, tesoro. Adesso non pensiamoci più. Sei così bella, quando sorridi…»





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Torno ad aggiornare questa storia dopo una pausa indecente, lo so, ma per farmi perdonare ecco a voi un bel capitolo corposo.
Troppo, dite?
In effetti, non posso darvi torto, ma sappiate che mi sono messa una mano sulla coscienza e quello che state leggendo è solo la metà di quanto avevo preventivato. Contenti, vero?

La tesi dell'Odissea ambientata nel Baltico non è mia, ma appartiene a Felice Vinci, che l'ha illustrata nel suo saggio Omero nel Baltico. Le origine nordiche dell'Odissea e dell'Iliade, Roma, Palombi editore, 1995. La tesi è quella di cui parla Freja, confutata dagli esperti per le stesse motivazioni addotte da Stella. 

Tantolunden esiste davvero ed è un posto delizioso che ho conosciuto grazie a Diario Nordico. Le casette sono poco più che capanni, ma siamo pur sempre in un racconto di fantasia, no? 

Tutto il resto è noia è una canzone di Franco Califano del 1977. Mi sono lasciata prendere la mano anche qui, ché Stella... pardon, Saori, nel 1977 era già al sicuro in Giappone, e quindi difficilmente poteva aver sentito qualcuno canticchiare questa canzone nei corridoi in penombra del Santuario. Voi chiudete un occhio, vero?
   
 
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