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Autore: Itsamess    19/09/2017    1 recensioni
In tutta la sua vita, Alaska non ha mai perso l’occasione di fare amicizia.
Anche ora che la sua vita è finita, sarebbe scortese non attaccare bottone con una sconosciuta apparentemente simpatica.
«Ciao» la saluta, avvicinandosi e tendendole la mano «Io mi chiamo Alaska!»
 
La ragazza gliela stringe, un po'confusa.
«Alaska come lo Stato?»
 
«Alaska come lo Stato!» replica lei, scrollando le spalle e chiedendosi se anche sulla sua lapide scriveranno qualcosa di simile, qualcosa tipo Qui Giace Alaska Come Lo Stato Young «E tu invece?»
 
«Hannah, come il nome femminile.»
[Crossover Cercando Alaska/Thirteen Reasons Why]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alaska, Altri, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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 Il filo di Teseo
 



 
Non so dove sia quel laggiù,
ma credo che da qualche parte esista e spero che sia bello.
 


 


Dritto e veloce, dritto e veloce, dritto e veloce.
 
La Blue Moka è un vecchio catorcio scalcagnato, ma quando si tratta di dare gas fila che è un piacere. Da impulsiva qual è, Alaska è abituata a pensare in fretta ma questa volta ha a disposizione solo qualche decimo di secondo: si è distratta un attimo per controllare nello specchietto retrovisore che i tulipani che ha con sè non si fossero sgualciti e ora c'è un'auto della polizia ferma in mezzo alla strada. Di traverso, così, come un ostacolo – o come la linea del traguardo che c'è alla fine di una gara.
 
Alaska la vede.
La vede nonostante le lacrime e il buio, la vede benissimo ed è inutile raccontarsi il contrario.
 
Sa che schiantarsi contro quell'auto la ucciderà, ma invece di premere sul pedale di mezzo e fermarsi, schiaccia quello di destra e sfreccia dritta e veloce fuori dal labirinto.
 
Tutto diventa di un bianco accecante, come se le fosse appena esplosa in faccia una stella. Per un istante c'è solo dolore, puro e lancinante e insopportabile, ma tanto non è un dolore fatto per essere sopportato.
 
Alaska non fa in tempo a dire nulla – niente ultime parole memorabili, per lei, anche perché non ci sarebbe nessuno ad ascoltarle.
L' impatto dura solo un secondo.
Dopo, è tutto nero.
 
---
 
 
Quando Alaska riapre gli occhi, è in piedi in mezzo all’ingresso di quello che sembra una specie di parco, o di parco naturale, perché riesce a vedere filoni di alberi di specie diverse e il tetto in ferro battuto di una voliera, poco più avanti.
È tutto così familiare – come in un ricordo, o in un déjà-vu.
 
Ci sono tantissime persone. Famiglie e coppiette, perlopiù, ma anche gruppi di turisti carichi di macchine fotografiche e mappe del parco. Nessuna di quelle persone sembra accorgersi di Alaska, come se lei fosse invisibile, o come se loro fossero solo le animazioni in 3D con cui non puoi interagire davvero.
 
Alaska cammina fino a fermarsi davanti alla voliera, piena di pappagallini verdi e arancioni che continuano a cinguettare come un coro a cappella, interrotti soltanto dalle esclamazioni emozionate dei bambini.
 
È già stata qui, davanti a questa voliera, un pomeriggio di molti anni prima.
Alaska ricorda di aver letto ad alta voce nome di quella specie di pappagalli – Inseparabili, perché capaci di lasciarsi morire se divisi – e ricorda le mani grandi di sua madre che le scompigliano i capelli e la sua voce che commenta «Come me e te, tesoro» e improvvisamente capisce.
Quello non è un semplice zoo, è lo zoo.
 
Quello in cui era stata così felice da sentirsi scoppiare il cuore e il giorno dopo aveva chiesto alla maestra se fosse possibile morire così, e per fortuna non lo era.
Forse adesso è morta sul serio, ma questo è il suo nuovo Giorno più Bello.

(E Alaska vuole tenerlo a mente, casomai un giorno le capiti di giocare a Giorno Più Bello/Giorno Più Brutto con gli altri zombie/anime/qualsiasi cosa lei sia diventata)

Alaska si alza in punta di piedi e si guada intorno per cercare di vedere sua madre, ma la sua attenzione è catturata da una ragazza. È seduta in disparte, in quella che in uno zoo vero – e non nella sua versione post-mortem – si definirebbe Area Ristoro ma che in effetti è semplicemente costituita da un paio di tavoli da pic-nic.
Deve avere più o meno la sua stessa età. Ha i capelli ricci tagliati sopra le spalle e ha una tazza di carta fra le mani, ma soprattutto ha lo sguardo fisso su Alaska.
Non in un modo inquietante, solo curioso.
 
In tutta la sua vita, Alaska non ha mai perso l’occasione di fare amicizia.
Anche ora che la sua vita è finita, sarebbe scortese non attaccare bottone con una sconosciuta apparentemente simpatica.
«Ciao!» la saluta, avvicinandosi e tendendole la mano «Io mi chiamo Alaska!»
 
La ragazza gliela stringe, un po'confusa.
«Alaska come lo Stato?»
 
«Alaska come lo Stato!» replica lei, scrollando le spalle e chiedendosi se anche sulla sua lapide scriveranno qualcosa di simile, qualcosa tipo Qui Giace Alaska Come Lo Stato Young «E tu invece?»
 
«Hannah, come il nome femminile.»
 
Per la prima volta in quella giornata, Alaska ride e Hannah fa lo stesso. Ha una bella risata, aperta e sincera, che assomiglia un po’ a quella di Lara, si ritrova a pensare Alaska. Le piace quella ragazza. Non ha la solita aria spocchiosa dei Settimana Corta, si veste casual e ha le unghie corte e colorate di blu, proprio come le sue.
 
Hannah le fa cenno di sedersi con lei al tavolino e poi abbozza: «Devi essere nuova… non ti ho mai visto da queste parti.»
 
«No, infatti. Sono appena arrivata… solo che non riesco bene a capire dove.» risponde Alaska, guardandosi intorno. Le scolaresche sono sciamate da un’altra parte del parco, perché c’è molto più silenzio di prima e il cinguettio dei pappagallini Inseparabili si sente più chiaramente. Torna a guardare l’altra ragazza: «Secondo te questa è una specie di… sala d'aspetto, o cosa?»
 
«Non penso, sai? Io non sono qui da molto, ma credo non ci sia niente oltre a questo. Se è così devo dire che non mi dispiace, questo posto.»
 
«Neanche a me! Certo che, cazzo, non avrei mai detto che il paradiso assomigliasse a questo!» esclama Alaska, gesticolando con enfasi in direzione degli elefanti indiani, proprio di fronte ad un gruppo di fenicotteri rosa in bilico su una zampa sola. Non può fare a meno che sorridere fra sé e sé pensando a come quelle che sta vedendo sia diverso dalla tradizionale raffigurazione religiosa della vita dopo la morte. Se il professor Hyde lo sapesse gli verrebbe un colpo, sicuro. «Voglio dire, Dio – o chi per lui – ha dei gusti davvero bizzarri! Animali esotici, sul serio?»
 
Le labbra di Hannah si incurvano in un sorriso sorpreso.
«Tu è questo che vedi?»
 
«Perché, tu no?»
 
«No, questo posto è diverso per ognuno di noi… Credo che dovrebbe essere il nostro “luogo sicuro” o qualcosa del genere…» le spiega Hannah, accarezzando i bordi della propria tazza. Sembra distratta, come se fosse persa in un ricordo lontano, e anche la sua voce suona distante quando aggiunge: «Per me è un caffè dove andavo sempre con i miei amici, dopo scuola. Fanno una cioccolata calda imbattibile!»
 
«Per me è uno zoo…» mormora Alaska, mentre le parole luogo sicuro le echeggiano nella testa «Alla tua destra ci sono dei fenicotteri rosa.»
 
«Devono essere carini.»
 
«Lo sono.»
 
Rimangono in silenzio per un po', ognuna ad osservare la propria versione del limbo in cui si trovano.
Hannah guarda un gruppo di cheerleader preparare lo striscione per la partita della sera successiva, tutte chine sul tavolo sopra ad un enorme cartellone azzurro, e ricorda che sono i colori del suo liceo e che il ragazzo a cui aveva dato il suo primo bacio faceva parte della squadra di basket. Alaska nota un bambino, nell’area destinata agli animali da cortile, che per un attimo smette di dare da mangiare ad una capretta e divide un po’ del proprio mangime con un paio di ragazze che sembrano straniere.
È tutto così in pace.
 
«Tu sei come me.» mormora ad un certo punto Hannah, fissando Alaska negli occhi.
Non è esattamente una domanda.
Non c'è bisogno che specifichi che sta parlando del fatto che siano entrambe suicide, perché mentre pronuncia quelle parole si tormenta le maniche e Alaska ha notato i segni sui suoi polsi quando le ha dato la mano.
 
Alaska però non sa dire come Hannah lo abbia capito di lei, perché non credeva che fosse così evidente. Forse semplicemente tutti i suicidi si sanno riconoscere a vicenda, con quel sesto senso che accomuna le persone che stanno aspettando lo stesso autobus.
 
«Sì, anche se in realtà non so bene come sia successo… Avevo bevuto un casino, non ero proprio in me. Non sono sicura di averlo fatto apposta.» mente Alaska, distogliendo lo sguardo. Non si tratta di Hannah, perché davvero le sta piacendo chiacchierare con lei ed è abbastanza sicura che Hannah non la giudicherebbe per essersi uccisa, avendo fatto la stessa cosa. La verità è che Alaska non è ancora pronta ad ammetterlo ad alta voce, e forse non lo sarà mai.
«Devo trovare mia madre… Io- devo vederla.»
 
«Lei è qui?» chiede Hannah con cautela.
 
«Da anni.» le risponde Alaska, prima di mordersi il labbro inferiore e correggersi «Dieci anni, oggi.»
 
«Mi dispiace. Dovevi essere davvero piccola quando è mancata… Se vuoi posso aiutarti a cercarla.»
La voce di Hannah è sincera, come se davvero le importasse di aiutarla, di fare qualcosa di buono ed essere utile a qualcuno.
 
«No io- credo di sapere dove si trova-»
Alaska chiude gli occhi e le parole le scivolano facili dalle labbra, come la risposta ad una domanda che aveva portato con sé.
«Deve essere davanti alla gabbia delle scimmie. A lei erano piaciute le scimmie.»
 
Hannah non può vedere le scimmie – non può vedere altro che tavoli e baristi e enormi finestre velate da tende che hanno sopra le Ninfee di Monet – però non ci mette più di un secondo a dirle: «Aspettami, vengo con te.»
 
Girano per lo zoo lentamente, guardandosi in giro ma senza fretta. Come hanno detto ridendo, hanno tutta l’eternità davanti. Intanto continuano a chiacchierare, mentre un sole che non dovrebbero poter sentire scalda le loro ossa infreddolite –perché il Paradiso sarà anche bello ma, cazzo, gli zoo sono all'aperto, sto congelando! – e le piccole confidenze scaldano i loro cuori.
Quando era viva Hannah lavorava in un cinema, per cui ha un sacco di aneddoti divertenti su macchine del popcorn inceppate e fughe sul tetto del cinema per guardare le stelle e cose così. Quando è il turno di Alaska di raccontare, Hannah si piega in due dalle risate nel sentire dello scherzo che hanno organizzato lei e il Colonnello il primo anno.
Sembra così felice, almeno adesso.
 
Forse è per questo che Alaska trova il coraggio di farle la domanda che ha in testa da quando l’ha conosciuta.
«Hannah, se posso chiedertelo… Tu ci sei uscita? Dal labirinto, dico.»
 
«Quale labirinto?» domanda lei, senza capire, continuando a camminare in mezzo ai tavoli, schivando Jeff e la sua nuova fidanzata impegnati in un bacio appassionato.
 
«Il labirinto del dolore.»
 
Hannah smette di camminare e rivolge ad Alaska un sorriso un po’ triste.
«Immagino di sì. È per questo che siamo qui, no? È per questo che siamo morte, per uscire dal “labirinto del dolore”, come lo chiami tu. Quello che ho fatto...» dice, mentre di nuovo gioca a tirare più giù le maniche della maglia in un gesto involontario «Quello che ho fatto l'ho fatto perché non riuscivo più a sopportare il modo in cui la gente mi guardava, pensando di conoscermi... come se avessero già deciso che cosa ero e come meritavo di essere trattata. Era così dura, io- sono felice che sia finita. Solo che a volte… non so, è stupido pensarci adesso, ma non posso fare a meno di chiedermi-»
  
«Che cosa?»
 
Hannah non riesce a guardare l’altra ragazza negli occhi nel dirle: «Niente, mi chiedo se il nostro fosse l'unico modo per uscirne.»
 
Alaska non sa rispondere. A dire il vero non ci ha pensato molto, semplicemente ha visto l'auto e ha accelerato. Morire è stato facile, molto più che vivere. Ma forse Hannah ha ragione, forse la loro non è stata una vera via d'uscita dal labirinto.
È stata solo l'uscita di emergenza.
Forse dal labirinto non si esce infrangendone il muro, forse si esce seguendo un filo di lana, come Teseo in quel mito greco, forse quel filo lo tendono gli amici. Alaska ripensa a tutte quelle sigarette clandestine fumate con il Colonnello e alla battuta pronta di Takumi e alle labbra di Miles e agli abbracci di Lara e si chiede se con loro sarebbe potuta essere felice di nuovo, nonostante quello che le era successo. Forse sì.
«Almeno ne siamo fuori,» risponde alla fine «Per adesso mi basta questo.»
 
È in quel momento che la vede, esattamente dove pensava di trovarla
Mamma.
È davanti alla gabbia delle scimmie e dà le spalle alle due ragazze, ma Alaska è certa che si tratti di lei.
Riconosce i suoi capelli biondi e ricci – che purtroppo Alaska non ha ereditato – e il suo vestito azzurro a quadretti – che invece è in fondo all’armadio di Alaska, nascosto in una bara di cellophane.
 
«Eccola. È laggiù.» mormora Alaska, mentre sente gli occhi riempirsi di lacrime.
 
Hannah le sfiora con delicatezza una spalla.
«Va’ da lei.»
 
«Sì, io- Non puoi immaginare quanto ho aspettato questo momento.»
Alaska detesta piangere davanti agli altri, ma non riesce a trattenere un singhiozzo.
Non si è mai sentita più felice, nemmeno davanti agli orsi.
«Grazie, Hannah.»
 
«Stai scherzando?» replica lei con un sorriso, prima di aggiungere: «Le ragazze come noi devono restare unite!»
 
Sembra soltanto un motto tosto e femminista di quelli che fanno impazzire Alaska, ma è molto di più. È la promessa di un’amicizia basata su un passato comune. È l’estremità di un gomitolo di filo da usare in caso di un altro labirinto.
 
Alaska annuisce soltanto, guardando solennemente Hannah negli occhi, e un attimo dopo sfreccia via, dritta e veloce, verso sua madre.
Lei si volta e spalanca le braccia, come se l’avesse aspettata tutto questo tempo, e poi la stringe con forza a sé.
Alaska chiude gli occhi.
Non ha più freddo.
 
---
 
 
Alla fine i genitori di Hannah avevano deciso di organizzare il funerale nella loro vecchia città, Culver Creek, in Alabama, qualche giorno dopo l’accaduto.
Non tanto perché Hannah lì avesse degli amici – perché non ne aveva – quanto più perché loro stessi avevano bisogno di cambiare aria. Forse non sopportavano l’idea di svegliarsi ogni mattina nella casa in cui loro figlia aveva commesso suicidio, o forse si sentivano semplicemente estranei in un posto in cui avevano passato solo pochi mesi, fatto sta che avevano raccolto armi e bagagli e se ne erano tornati in Alabama.
Ormai è passato più di un anno.
 
Clay stava soltanto facendo un giro in Mustang da quelle parti e casualmente si è ricordato il nome della cittadina e ha pensato di fare un salto, quindi è completamente un caso se ha con sé un mazzo di fiori e una lettera per Hannah, che sono cose che uno di solito tiene sempre in tasca, no?
D'accordo, lui e Tony hanno fatto 1700 km per venire fin lì e lunedì perderanno le prime lezioni perché saranno in una cazzo di autostrada dell'Alabama, ma Clay non poteva non rivederla.
 
Sta per andare al college. Astronomia. Quelle eclissi penumbrali che ha fatto vedere ad Hannah dal tetto del Crestmont le studierà sul serio e se mai gli capiterà di scoprire una nuova stella lontana anni luce saprà che nome darle.
 
Il cimitero è quasi deserto, come è anche normale trattandosi di un venerdì sera.
Oltre a Clay – Tony lo aspetta in auto, le ha detto addio molto tempo prima di lui – ci sono soltanto un altro paio di ragazzi. Sono abbastanza distanti, per cui Clay può osservarli senza che loro ci facciano caso: sono entrambi vestiti in modo piuttosto  trasandato, con i loro jeans a vita bassa e la felpa della scuola tutta stropicciata, ma non sembra che siano lì per creare guai. Uno di loro si è inginocchiato sulla lapide, l'altro si è acceso una sigaretta e continua a guardarsi nervosamente in giro, come se la sola idea di trovarsi lì lo mettesse a disagio. Non potranno avere più di diciassette anni.
Clay non può fare a meno di pensare che hanno la stessa età che aveva lui quando Hannah-
 
Non importa.
Non li conosce, la loro storia non è la sua.
 
Il ragazzo con la sigaretta dice qualcosa all’altro ragazzo, qualcosa che Clay non riesce a sentire con precisione ma che assomiglia a «Diobono, io me ne vado.», cosa che in effetti fa, e l’altro ragazzo resta da solo, i capelli spazzati dal vento e le margherite che ha in mano tutte sgualcite.
 
Clay gli passa accanto mentre sta tornando all’auto, e senza volerlo lancia un’occhiata alla tomba sulla quale l’altro ragazzo è mezzo inginocchiato. Appartiene ad una certa Alaska Young – Alaska come lo Stato, pensa Clay – la quale a quanto sembra dalla fotografia doveva essere straordinariamente bella e straordinariamente giovane, come Hannah.
 
La lineetta sulla sua lapide separa due date troppo, troppo vicine.
Quella ragazza è morta prima del tempo e inaspettatamente, perché il ragazzo sembra sconvolto e la ragazza non sembrava malata, in apparenza. Clay non può fare a meno di chiedersi se si tratta di un suicidio, ma probabilmente è lui che dopo Hannah vede aspiranti suicidi ovunque.
 
Il ragazzo si è alzato in piedi e Clay non vuole che si accorga che lo stava fissando, per cui riprende a camminare.
In effetti, camminano fianco a fianco.
Clay non vorrebbe parlargli, perché sa che il lutto si elabora da soli e in ogni caso non vorrebbe risultare invadente o inopportuno, però quel ragazzo continua a piangere silenziosamente e Clay non riesce a vederlo così senza fare niente.
 
«Migliora, dopo un po'…» mormora tutto d'un fiato.
 
Il ragazzo si volta a guardarlo, confuso.
«Scusa, hai detto qualcosa?»
 
«Tutto questo… quello che stai provando, il dolore, il senso di colpa, il senso di vuoto… migliorano, dopo un po'. Passano, quasi. So che è difficile da pensare adesso, ma è la verità.»
 
E Miles non sa perché dovrebbe credergli, perché quel ragazzo è uno sconosciuto e non sa niente di lui e di Alaska, ma decide che ha bisogno di farlo.
Ha bisogno di credere che il senso di colpa si affievolirà e che il mondo riprenderà a girare, in un modo o nell'altro, anche senza di lei; ha bisogno di sapere che un giorno lui e il Colonnello e Takumi e Lara si ritroveranno a parlare di Alaska senza ricordare altro che i suoi scherzi e i suoi occhi verdi;  ma soprattutto ha bisogno di credere che Alaska sia in qualche posto bello, con dei fiori nei capelli e con degli amici migliori di quelli che ha avuto in vita, per cui fa un cenno della testa al ragazzo del cimitero e con un filo di voce gli dice: «Grazie.»








 
Angolo dell'autrice

Innanzitutto, grazie a chiunque sia arrivato fin qui. Leggere fanfiction crossover su un libro uscito più di tre anni fa non è da tutti, quindi grazie anche solo per aver letto questa storia.
Il fatto è che io ho sentito proprio il bisogno di scriverla.
Ho finito il libro due notti fa (pur avendolo acquistato quando era uscito, perchè anche io come Alaska ho una montagna di libri da leggere ahahaha) e non ho potuto fare a meno di notare della affinità con un altro libro/serie tv che amo moltissimo, ovvero Thirteen reasons why. Avevo bisogno di sapere che, da qualche parte, ragazze come Hannah e Alaska potessero essere felici, essere amiche, guardare pappagallini, per cui ne è venuta fuori questa storia.
Spero che non abbia offeso la sensibilità di nessuno - trattandosi di tematiche delicate cerco di andarci con i piedi di piombo, ma non si sa mai.
Vi lascio solo una nota, dato che nel testo non ho approfondito:
- Il mito racconta che l'eroe greco Teseo si fosse avventurato nel Labirinto del Minotauro per ucciderlo e che per ritrovare la strada per uscire avesse semplicemente seguito il gomitolo di filo tenuto da Arianna, fuori dal labirinto. Mi piaceva l'idea di una soluzione alternativa per la domanda di Alaska, degli amici come gomitolo per ritrovare la via quando uno si perde. 
Sono una sentimentalona, lo so.

Se avete voglia di farmi sapere cosa ne pensate, o anche solo di dirmi se anche voi vi immaginavate Alaska come Kaya Scodelario, fatemelo sapere in una recensione (:

Un abbraccione 

Itsamess
  
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