Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: A i r a    26/09/2017    1 recensioni
Uno aveva ucciso la persona più cara che aveva.
L’altro aveva bruciato il proprio futuro.
♦♦♦
Uno provava pateticamente a colmare ciò che ormai non aveva più.
L’altro cercava semplicemente un motivo per andare avanti.
♦♦♦
Uno era la personificazione di una notte d’inverno.
L’altro sembrava più una giornata di Sole con il vento.
♦♦♦
Due soggetti, la cui vita cambiò a causa di un errore, accomunati dal fatto di non sapere che a tutti, prima o poi, è concessa la possibilità di ricominciare.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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♦♦♦
4| Le lacrime non sono salate 
 
***  Ore: 17:30  ***
 
Sì, era vero, aveva passato la notte in casa di quella sottospecie di ghiacciolo diabolico, ma per Eren fu come trovarsi ad un ritrovo per depressi cronici. Quel salotto, al buio, faceva più paura di Mikasa, inoltre quel divano era duro, freddo e con solo due posti. A misura di Levi, insomma.
Al solo pensarci, una risatina isterica ruppe quel silenzio quasi surreale che vi era in quella casa, mentre Eren se ne stava sulla soglia della porta aperta a guardare il bianco divano tanto odiato.
Si voltò vero l’uscita, non aveva più niente da fare poiché non vi era un granello di polvere e, con valigia alla mano, munito di guanti, cuffia e sciarpa di lana avvolta attorno al collo, uscì dall’appartamento.
Mentre scendeva le scale, mise una mano nella tasca del giaccone e notò che quei sette dollari erano ancora lì, leggermente stropicciati sulla sua mano che sembravano urlargli “spendici!”; li ascoltò. Sapeva cosa fare con uno di quei sette dollari.
Cominciò a vagare senza meta quando vide un’edicola in cui spendere il primo.
Si comprò un giornale pieno di annunci di lavoro e quando lo prese in mano, ci fu un attimo in cui ebbe fiducia nel futuro. Sì, quello fu un gran bell’acquisto.
Mise il giornale nella tasca interna della giacca e continuò a vagare, fino a quando si fermò di colpo in mezzo a un marciapiede poco trafficato, facendo sbattere la persona dietro di lui contro la sua schiena.
Un «Ah!» fece voltare Eren, che si trovò di fronte una donna un po’ più alta di lui con capelli raccolti in un’alta coda e occhiali leggermente spessi. Nel momento in cui si guardarono, sentì una sensazione strana, come se gli mancasse qualcosa.
«Mi scusi, ma…» Eren iniziò a slacciarsi i primi bottoni del giubbotto, guardando dentro la maglietta.
«Oh, che ragazzo impavido! Però penso che non sia né il luogo né il momento più adatto…»
 
La collana che aveva attorno al collo non c’era più e nella testa cominciò a regnare il panico. Le parole della donna furono ignorate, era troppo concentrato nel cercare l’oggetto perduto.
«Ehi, mi stai ascoltando?» chiese la donna che con il volto leggermente imbronciato decise di agitargli la mano davanti al viso in modo da attirare la sua attenzione.
«Come?» Un Eren sulla soglia della disperazione la guardò negli occhi mentre frugava con una mano dentro la valigia. «La prego di scusarmi, ma penso di aver perso qualcosa d’importante.» ammise mentre i movimenti diventarono sempre più frettolosi e i denti sempre più stretti.
La donna lo notò, prendendosi il mento tra indice e pollice.
«Interessante… in una scala da uno a dieci, quanto era importante?» chiese con occhi curiosi.
«Dieci… ma non si preoccupi, non è colpa sua.» rispose chinandosi per cercare con una nuova prospettiva fino a quando la donna interruppe la ricerca a causa di quello che sentì uscire dalla sua bocca: non avrebbe retto ancora un’altra frase.
Era incredibile quanto le nuove generazioni fossero sempre più maleducate, pensò, aggiustandosi gli occhiali, mani sui fianchi e un’espressione quasi offesa.
«Ehi giovanotto, ti sembro così vecchia da darmi del lei?»
«Eh?» Eren alzò il capo leggermente confuso. «Ecco io… volevo solo essere cortese.» provò a spiegare cercando di calmare la donna che sembrava avercela a morte con lui finché l’espressione offesa della “signorina” fece largo ad una sonora risata che per il giovane sembrò simile a quella di un camionista del Texas.
«Stavo scherzando!» esclamò dandogli una pacca sulla schiena così forte che per poco il bruno non sputò un polmone. «Tu devi essere Eren, dico bene?» Il sorriso a trentadue denti confuse ancora di più il povero Eren che era sull’orlo di una crisi isterica. Era sicuro di non aver mai visto quella donna in vita sua.
«Scusa… ci conosciamo?» chiese facendo attenzione a non usare un’espressione formale.
«Sono Hanji Zoe, ti stavo seguendo da quando sei uscito dalla palazzina di Levi.» La sincerità prima di tutto.
Il solo fatto che quella donna dall’improponibile impermeabile giallo canarino e gli stivali color cioccolato lo stesse in un qualche modo seguendo lo spiazzò. Oltre a essere perseguitato dalla sfortuna, ci mancava solo un’amica del ghiacciolo.
«Perché?» chiese solamente.
Quella domanda fu decisiva per far scattare la scintilla negli occhi della donna che, contenta, iniziò a spiegare.
«Stamattina Levi ha accennato ad un “randagio idiota” che ha dormito in casa sua. Dovevi vedere la mia faccia,» una risata. «Mi sono catapultata a casa sua a vedere che tipo di cane avesse preso ma a quanto pare ho frainteso, eheh.»
Lo sguardo di Hanji fu talmente ambiguo che Eren ebbe un attimo di confusione interiore.
 
Okay, piano.
 
Eren, venticinque anni, sfrattato e senza lavoro.
Le uniche cose che gli rimanevano erano sei dollari stropicciati, un cellulare morto, una valigia piena di inutili cose personali e un giornale.
Certo, aveva bisogno di aiuto. Certo, Hanji poteva aiutarlo. Ma no, lui non voleva aiuto, specialmente dagli sconosciuti.
Nei suoi venticinque anni di vita gli erano stati affibbiati diversi soprannomi: cane rabbioso, pazzo suicida, mostro… ma mai “randagio idiota”.
E ora eccolo lì, a ritrovarsi con un sorriso idiota, senza soldi né un tetto sotto cui stare.
 
Sorrise così spontaneamente e senza secondi fini che lui stesso si sorprese. Ormai per lui i nomignoli erano come il pane, ma “randagio idiota”, alle sue orecchie, non suonava male. Pensò che quell’appellativo fosse la risposta involontaria al “ghiacciolo diabolico” che si era inventato per Levi. Karma, insomma.
«Piuttosto azzeccato direi.» Accennò una risatina, poi approfittò del loro incontro per chiederle una cosa.
«Hanji, potrei chiederti un favore?»
Per la prima volta in quella giornata, la donna si rese utile, prestando il suo carica-batterie portatile. Inutile descrivere la faccia di Eren quando lo vide, a metà tra la vista di un oasi in mezzo al deserto e una visione celestiale.
Subito dopo aver messo in carica l’aggeggio elettronico, con la mente leggermente più lucida, gli riaffiorò alla mente l’immagine infuriata dell’amica. Solo in quel momento capì che forse sarebbe stato meglio restare nella beata ignoranza e non vedere la home, ma sempre grazie al suo fantastico buon senso, andò avanti.
Cominciò a sudare freddo, il cuore iniziò ad accelerare i battiti, infine deglutì a vuoto aspettando che il cellulare si accendesse.
Inserì il PIN con dita fredde e rigide.
Aspettò cinque lunghissimi secondi.
Ottantotto chiamate e novantatré messaggi, venti dei quali in segreteria.
Notifiche quasi tutte di Mikasa.
Era fottuto.
 
***  Ore: 18:03  ***
 
L’appartamento di Mikasa si trovava in una palazzina di sei piani non molto lontano da una delle due stazioni di Boston; lei si trovava al quinto piano. L’edificio era tenuto bene, la gente era cordiale e lei era uno dei residenti più giovani assieme a Annie Leonhardt, collega di Eren, con la quale litigava spesso.
In quel momento stava camminando avanti e indietro per la camera da letto come un’ossessa, cellulare alla mano e piede che di tanto in tanto batteva nervosamente sul parquet come un tic nervoso.
«Cosa faccio, lo chiamo?» chiese per la quarantasettesima volta in quel giorno, affacciandosi leggermente alla porta della camera per farsi sentire meglio da Armin che se ne stava al tavolo della cucina a pensare come avrebbero potuto rintracciarlo.
«No, aspetta.» Disse solamente dopo aver fatto ruotare la penna tra pollice e indice.
«Okay, lo chiamo.»
Il biondo sbuffò guardando fuori dalla finestra, abbandonandosi ai suoi pensieri che dopo circa venti secondi furono interrotti da una Mikasa euforica.
«Suona! Il cellulare di Eren suona!» esclamò con un entusiasmo simile a quello dei tifosi di calcio.
Era veramente raro vedere le emozioni così trasparenti di Mikasa.
Dopo l’affermazione fatta, Armin si diresse nella camera della ragazza e aspettarono di sentire la voce dell’amico.
Ci vollero circa due squilli per sentire la paura provenire dall’altra parte.
«M-Mikasa?»
Inutile dire che i due si guardarono con occhi pieni di speranza e gioia.
«Eren dove sei? Stai bene? Cosa ti è successo? Torna a ca–»
La frase venne interrotta dalla voce di una donna, mentre in sottofondo, la voce dell’amico esclamò un «Ehi!» infastidito.
«Pronto pronto, mi senti?» Hanji aveva preso prepotentemente il cellulare del bruno mentre la sua espressione era abbastanza divertita; era una fortuna che i due amici non la potessero vedere.
«Accompagno io questo fanciullo a casa, non ti disperare. Passo e chiudo!»
Chiuse la chiamata senza neanche ascoltare la risposta della povera Mikasa che si ritrovò in mano un cellulare dal distinto suono di una telefonata chiusa in faccia.
«Chi era?» chiese un Armin curioso mentre Mikasa, turbata, fissava il frigo dal letto della sua camera, come se questo potesse rispondere al caos che aveva in testa.
«Non lo so.»
 
***  Ore: 20:32  ***
 
Era cresciuto in una famiglia felice, normale e semplice nel Connecticut.
Sempre stato vivace, era il classico bambino che tornava a casa pieno di lividi e che sorrideva nel mostrarli alla madre, fiero di essersi rialzato dopo le svariate cadute.
Aveva molti amici, una vita tranquilla fino a quando, un giorno di primavera, conobbe quel sentimento che lo avrebbe fatto diventare lo zimbello della scuola. L’amore, quella cosa che nei libri era sempre descritta come un sentimento puro, colorato, luminoso e passionale, per lui fu fonte di dolore, inadeguatezza e vuoto.
Tutti elementi che affollarono la testa di un Eren sull’orlo di una crisi.
Il primo anno di liceo fu uno dei più duri: quell’anno capì cosa significasse toccare il fondo.
Provò con tutte le sue forze a rialzarsi, a sorridere, a socializzare ma pensò seriamente che tutto quello che stava facendo non sarebbe servito a niente.
“Tu sei forte.”
Se lo ripeteva in continuazione. A casa, a scuola, al corso di karate, in autobus, in bagno e anche prima di addormentarsi. Quelle tre parole furono capaci di farlo andare avanti per un anno e mezzo, fino a quando non incontrò Armin e Mikasa, dopo aver cambiato casa e, di conseguenza, anche scuola.
Solo dopo molti mesi si rese conto di quanto fu fortunato ad aver trovato persone come loro.
 
Gli stessi amici che in quel momento lo stavano abbracciando più forte che potevano.
Per Eren, fu una sensazione liberatoria. Era tornato a casa e l’inconfondibile profumo di Mikasa gli inebriava le narici, calmando sempre di più i battiti del suo cuore. La gioia nel sentire di nuovo i suoi migliori amici affianco a lui era tale da farlo piangere.
Quelle lacrime finalmente potevano uscire senza esitazione né vergogna.
Le lacrime di gioia si tramutarono in lacrime amare, piene di tutto lo stress che provò negli ultimi giorni.
Frustrazione;
«Balle, Jaeger!»
Rabbia;
«Giuro che ve ne pentirete!»
Delusione.
«Moccioso.»
Le dita strette alle maglie dei suoi amici, il volto contorto dalle emozioni e i singhiozzi soffocati dall’orgoglio dimostrarono la sua fragilità, un lato di lui che solo loro avevano già visto in passato.
«Sono successe molte cose.» Ammise ancora tra le loro braccia.
Armin e Mikasa potevano sentire molto chiaramente il bagnato sulle loro spalle e quanto teso fosse Eren.
«Eren, scusaci se ti abbiamo lasciato da solo. Davvero, perdonaci.» Disse Armin.
Eren scosse leggermente la testa. «Non è colpa vostra. Piuttosto dispiace a me; non sono potuto venire con voi. So che non vedi tuo nonno da molto tempo, e se vive in montagna non è certo colpa tua. A proposito: sta bene?»
Si staccarono per guardarsi negli occhi ed Eren ne approfittò per asciugarsi le lacrime.
Armin sorrise, uno di quei sorrisi felici e incoraggianti che Mikasa non vedeva da molto. Nonostante avesse dato dell’eremita a suo nonno, gli voleva bene come se fosse suo. Quell’uomo era buono come un pezzo di pane. Rimasto vedovo ancor prima della nascita di Armin, aveva sviluppato doti culinarie che nemmeno lui sapeva di avere. Era sempre allegro e qualche volta, durante il liceo, andavano tutti insieme a mangiare a casa sua, in città. Mikasa ricordava ancora il pollo fritto con salsa barbecue ostruirle le arterie mentre Eren si strozzava con i maccheroni al formaggio da quanti ne metteva in bocca con un Armin che, nel frattempo, gli dava le pacche sulla schiena.
«Sta bene.» Rispose la mora distogliendo lo sguardo dal biondo per posare i suoi occhi su un Eren risollevato.
«Ne sono felice.» Sorrise.
Armin continuava a guardare Eren. Dopo ciò che raccontò l’amico, sapevano cosa aveva passato e in quel momento sapeva le parole da dirgli.
«Eren,» Attirò la sua attenzione, facendo in modo che lo guardasse negli occhi. «So che è dura. So che sei distrutto. Ma so, anzi, sappiamo che sei in gamba. Non importa quante volte tu cada, l’importante è che ci sia quell’unica volta in più che ti rialzi e ci riprovi. La vita è fatta per cadere, rialzarsi, camminare e volare.»
La bocca si storse; la delusione era tanta. «Il problema è che nonostante abbia venticinque anni sono ancora qui a cadere come un idiota!» Eren si odiava per questo. Pensava di non aver fatto abbastanza. Credeva di non avere più speranze. Ma l’amico, nel momento in cui abbassò lo sguardo, gli mise una mano sulla spalla. «Se continui a fallire vuol dire che quando inizierai a volare, avrai meno possibilità di cadere.»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che non stai sprecando tempo!» Armin aveva la situazione sotto controllo. «Arriverà il giorno in cui volerai e fidati, sarà il più bello della tua vita.»
Gli occhi smeraldini si spalancarono: quello che il biondo voleva fargli capire arrivò dritto e chiaro nella sua testa da idiota – in senso buono – qual era.
«Ti ho preparato l’occorrente per il bagno. Sei stanco, ti lavo la schiena.» Saltò su Mikasa, alleggerendo l’atmosfera involontariamente.
«No Mikasa, faccio da solo.»
 
***  Ore: 22:04  ***
 
Per colpa della notizia ricevuta il giorno prima, andò a lavorare nonostante fosse domenica. Il lavoro gli faceva venire sempre mal di testa e lo rendeva più irritabile del solito, cosa non molto gradita dalle sue poche conoscenze.
Prese fuori le chiavi di casa e dopo aver girato la chiave aprì la porta, scoprendo la figura dell’ultima persona che avrebbe voluto vedere sulla faccia della Terra.
C’era solo una persona che riusciva a tenergli testa anche alle sei di domenica sera, e quella era proprio lì, di fronte a lui.
Al lavoro, lei era denominata "la castra-uomini" mentre lui "lo squarciatore di anime". Quei due erano completamente diversi, accomunati dallo stesso lavoro e l’interesse per Grease Anatomy, serie tv non molto popolare, incentrata sulle storie di meccanici alle prese con diversi problemi ‘meccanici’. Che fossero questioni di cuore, sesso o motori, quei grandi lavoratori sporchi di grasso lubrificante, attizzavano sempre e comunque.
Comunque, collega, amica e rivale, Hanji era una delle poche persone di cui si fidava ma che, allo stesso tempo, non sopportava. Ogni volta che la incontrava, pensava che probabilmente aveva sbattuto la testa da piccola altrimenti non sapeva davvero come spiegare la sua insanità mentale.
«Cielo, no.» Voltò gli occhi al soffitto.
«Lo so, lo so che ti sono mancata.» Sorrise soddisfatta prima di tirar fuori sei pezzi di carta ritagliati accuratamente, sfoggiandoli come soldi appena vinti. «Guarda cosa ti ho portato, buoni sconto! Allora, sono o non sono stata brava?» chiese dandogli un leggero colpo di gomito sul braccio.
Tante erano le domande che stavano passando per la testa del povero uomo e una di queste era il come diavolo avesse fatto Hanji ad entrare nel suo appartamento. Poi pensò che non lo voleva sapere, arrabbiarsi gli avrebbe fatto sprecare troppe forze e l’unica cosa che voleva in quel momento era sedersi.
L’uomo si svestì, appoggiando la giacca e la sciarpa sul divanetto bianco per poi sedercisi sopra.
Voleva silenzio, voleva mangiare e voleva riposare: tutte cose impossibili con Hanji in casa.
«Buoni sconto applicabili a quale tipi di prodotti?» Si toccò un argomento importante, doveva sapere di più.
«Prodotti per la pulizia.»
«Per la cucina? Il bagno? Il salotto? Spiegati, quattrocchi.»
Hanji si sistemò gli occhiali sorridendo.
«Tutto quanto.» Fu attenta a scandire per bene quelle due parole che sicuramente avrebbero generato un’attenzione quasi mistica da parte del moro.
Infatti, al solo sentire una cosa del genere si alzò e lottando contro la stanchezza, le strappò dalle mani quei pezzi di carta.
Ma un pensiero gli attanagliò la mente: quando quella sottospecie di demonio si presentava con degli omaggi non era mai una buona cosa. In quel caso, tanti erano i buoni quanto più grave era la notizia che Hanji doveva dirgli e, su una scala dall’uno al dieci, sei buoni era decisamente un numero preoccupante per concludere la settimana in bellezza.
Gli occhi esaminatori di Levi si spostarono sulla figura in piedi vicino a lui.
«Cos’è successo?»
Il viso della donna si oscurò e, sedendosi nella poltrona di fronte al divano, accavallò le gambe.
«Si tratta di Grease Anatomy.»
Anche il volto di levi si oscurò.
«Di nuovo? Eppure mi era sembrato di essere stato chiaro l’ultima volta.»
C’era una ragione ben precisa per cui venne soprannominata la castra-uomini. Quella portatrice di caos era talmente logorroica da far cadere i cosiddetti a tutti coloro che intraprendevano un dialogo con lei.
Bisognava destreggiarsi nell’antica arte del dialogo per poter evitare potenziali spoiler.
«Il problema è un altro.» Fece una lunga pausa in cui si poté udire il suono di una sirena in lontananza. «Hanno posticipato l’ultimo episodio.»
Il sottile sopracciglio di Levi si alzò, impassabile.
«Avanti, che c’è?»
Lo sguardo di Hanji si spostò verso il piccolo mobile che stava vicino al televisore, su cui vi era una macchina fotografica senza obbiettivo.
«Si tratta del caso Ral. Mi hanno affidato la cliente di Moblit.»







 Schizzo Time 
Yohoo!
Come state? Io ho un bellissimo raffreddore :-,D [<--- sarebbe una faccina con il moccio]
Ok, finalmente la domenica è finita. E' stata lunga, ne sono successe tante ma almeno Eren ha potuto 
riabbracciare i suoi cari amici. 
Adoro Armin, nel manga ha avuto una crescita spaventosa e ne sono veramente orgogliosa. 
Per errori e/o incomprensioni, io sono qui =]
Spero di non aver annoiato nessuno e vi auguro buona giornata 
^^ 
Baci,
Aira.
 
  
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