11
Schiava
Dormire in un vero letto
dopo così tanto tempo era un'esperienza quasi mistica per
Nemeria. Quando aveva aperto gli occhi poi, aveva dovuto tirarsi un
pizzicotto sulla guancia per essere sicura di non stare sognando. Aveva
anche provato a toccare le lenzuola con entrambe le braccia, ma la
sinistra non si era mossa dal suo petto: era stata steccata e una
fasciatura molto stretta le impediva anche solo di spostarla. In
realtà, come si era resa conto un istante più
tardi, non era l'unica cosa che faceva fatica a muovere. Tutto il suo
corpo era un livido, pieno di tagli e bruciature.
Sbatté un paio di volte le palpebre e, come se non avessero
atteso altro, i ricordi del combattimento nell'arena si riassemblarono,
assieme alla consapevolezza di aver attinto, per la seconda volta, al
potere dell'aria. L'elementale aveva una bella voce, più
acuta rispetto a quella dell'elementale del fuoco, come di una giovane
fanciulla, non più bambina ma non ancora donna.
- Grazie. - sussurrò, sperando che la sentisse.
Trasse un altro profondo respiro, si puntellò su un gomito e
riprovò a tirarsi su. Tutti i muscoli gemettero e il dolore
la fece tremare così tanto che per poco le forze non le
vennero meno. Anche quando riuscì a mettersi seduta,
racimolò le energie per raddrizzarsi solo dopo un lungo,
sofferente minuto. Dopodiché si guardò intorno.
“Per la Madre!”
Era senza fiato. La stanza era grande, molto più grande di
qualsiasi altra avesse mai visto. Sul pavimento a mosaico si svolgeva
una battuta di caccia a cavallo che sembrava continuare sulle pareti e
poi su, fino al soffitto, dove i commensali banchettavano con le prede
catturate. Di fianco a lei, vicino alla testiera di bronzo, su una
cassapanca con inserti di madreperla e pasta vitrea, erano stati
appoggiati dei bracieri. Gli incensi che vi bruciavano spandevano un
delicato profumo di limone e mirra che le solleticava le narici.
Nemeria si allungò e lo inspirò a pieni polmoni,
come la prima volta che aveva presenziato ai rituali dell'Alta
Sacerdotessa. Il fumo la fece tossire e lacrimare gli occhi,
costringendola a ritrarsi.
Zoppicando, sfiorò con deferenza e timore il vaso rosso
poggiato sul tavolinetto vicino all'armadio. La luce biancheggiava sul
legno lucido, ne delineava le teste di cavallo sui tre piedi, correndo
lungo l'asse di sostegno fino al piano di marmo rosa.
“Ma dove sono finita?”
Osservò ancor più meravigliata il copriletto
damascato.
Sapeva che si sarebbe dovuta preoccupare, tuttavia non poté
che ammirare ciò che la circondava. Arsalan le aveva
raccontato spesso di quanto alcuni mortali fossero ricchi, molto
ricchi, ma solo in quel momento Nemeria prese coscienza di quanto
possedessero. Estasiata da tutta quella bellezza, si era persino
dimenticata di quanto fosse difficile stare in piedi.
Si appoggiò al materasso per riprendere fiato. Il dolore la
pungolava dall'interno e, quando meno se lo aspettava, affondava i suoi
denti velenosi nei muscoli.
“Forse dovrei tornare a letto.”
Ma il tarlo di scoprire a chi appartenesse quella casa era impossibile
da ignorare. Inoltre, chiunque fosse, l'aveva portata via dall'arena,
doveva quantomeno ringraziarlo.
Piegò la gamba per compiere un passo, ma si fermò
col piede a mezz'aria, il cuore improvvisamente pesante. Lo sguardo
vitreo di Kimiya le asciugò la bocca e soffocò
l'euforia sotto le acque del dubbio: dov'era finita? Era scappata o era
rimasta lì, nell'arena? Il solo pensiero che fosse ancora
tra le mani di Abayomi le raggelò il sangue.
Strinse forte i denti e gli occhi e si obbligò a camminare.
La porta non era altro che una semplice tenda di lino; le
scivolò sulle spalle e sul viso come una carezza, quasi la
volesse invitare a proseguire.
Nemeria fece un respiro profondo e, appoggiandosi al muro con l'unico
braccio sano, avanzò lungo il corridoio un passo dopo
l'altro. Si sforzò di aumentare l'andatura un paio di volte,
ma le sue gambe protestarono e la obbligarono a rallentare. O, quando i
crampi le annebbiavano la vista, la costrinsero addirittura a fermarsi.
Non seppe come fece ad arrivare alla fine senza scoppiare in lacrime.
Si affacciò su un altro corridoio, anch'esso dipinto di
rosso, e si trascinò finché non arrivò
in una nuova stanza, ancora più grande della sua. Sul tavolo
centrale, attorniato da cinque letti con le testiere istoriate
d'argento e avorio, era stata adagiata una ciotola di bronzo con fichi,
datteri, pesche e mele, mentre in un'altra, molto più
piccola e anonima, delle olive nere. Quando Nemeria si
avvicinò, scoprì che sotto il panno bianco c'era
anche un piatto con diverse pagnotte. A quella vista, il suo stomaco
emise un lungo e sonoro brontolio.
“Da quanto tempo sono qui?”
La domanda sorse spontanea e rimase in sospeso, assieme a tutte le
altre che le si affastellavano davanti agli occhi. Scosse veementemente
la testa e si dovette appoggiare al tavolo per non cadere. Prima che
ginocchia le cedessero, si diede la spinta per andarsi a sedere su uno
dei letti. Il materasso scricchiolò e la bambina
sprofondò, finendo quasi per cadere dall'altra parte. Quando
riuscì a rimettere i piedi a terra, si accorse di stare
girando scalza. La pelle sulla pianta era ruvida, screpolata lungo
tutto il tallone e dura al centro. Non si era mai resa conto di quanto
si fossero rovinati fino a quel momento. Nel tempo passato con la
Famiglia non aveva più fatto caso a tante cose.
“Non ci pensare, non ora.”
Lasciò le gambe a penzoloni per un momento, prima di saltare
di nuovo giù e avvicinarsi al tavolo. Prese una panetto con
semi di papavero, finocchio e sedano, li infilò nelle tasche
della tunica e poi prese due manciate di datteri.
“Sono sicura che anche lei avrà fame.”
Lo stomaco gorgogliò ancora. Nemeria analizzò i
frutti rimasti e prese la mela più rossa di tutte. Quando
l'addentò, il sapore dolce della polpa le esplose in bocca.
Era così tanto che non ne mangiava una che si era
dimenticava che gusto avesse.
- Sì, non potrà non piacerle. - mugolò
tra sé e sé, - Anzi, quasi quasi gliene porto
una. -
Tastò quelle rimaste come aveva visto fare ai fruttivendoli
del Quartiere del Legno e alla fine optò per una pesca. Non
era molto grande, ma la buccia era morbida e profumatissima.
Con le mani appiccicose e il succo ancora fresco sulle labbra
tornò a guardarsi intorno. A parte quegli strani letti
– ma se era una sala da pranzo, perché i
commensali avrebbero dovuto dormirci? – c'erano altri due
tavolini tondi di bronzo, tutti con le zampe lavorate a forma di testa
di leoni; infine notò diverse sedie, alcune con lo
schienale, altre senza, altre ancora ne avevano uno lungo e poco
più sotto della metà spuntavano i braccioli.
Nemeria si diresse verso la porticina socchiusa e sbirciò
all'interno. Rimase sorpresa e delusa nell'appurare che la cucina era
un ambiente piccolo rispetto alla sala, con diversi treppiedi sopra un
bancone sporco di carbone. Sotto il piano di laterizio si aprivano
delle arcate in cui erano state riposte fascine, paglia e qualche
ciocco di legno. Il cuoco non si vedeva da nessuna parte.
Compì un cauto passo all'interno.
- Kimiya? - chiamò a bassa voce, - Kimiya, sei qui? -
Sondò l'ambiente circospetta e attese un momento. Si
aspettava di veder sbucare la testa arruffata della sua amica da sotto
la tovaglia. Si batté una mano sulla fronte quando le
tornò in mente che anche se avesse urlato il suo nome,
Kimiya non avrebbe potuto sentirla.
Si avvicinò al tavolo e con un gemito dolorante
tirò su il lembo. A parte un po' di farina e qualche
briciola di pane, non c'era nessuno. Si morse le labbra e
uscì quanto più in fretta poté. Si
diresse verso la tenda in fondo alla stanza. Un venticello tiepido del
tardo pomeriggio le soffiò sul viso e le asciugò
il sudore sulle gambe e sul collo. La luce aranciata del sole sfumava
nelle gradazioni del giallo per poi incupirsi in un rosso purpureo, che
imbruniva nel viola del crepuscolo. Dalla sua prospettiva, Nemeria
riuscì a scorgere anche le prime stelle. Inspirò
a pieni polmoni l'aria fresca e avanzò fino alla vasca al
centro. Il vento increspava la superficie dell'acqua illuminata
dall'apertura sul tetto, sospingeva le foglioline contro le sponde come
barchette alla deriva. Le fauci spalancate dei lupi sui doccioni
parevano fissarla con i loro occhi inanimati, freddi, feroci,
così realistici da farla indietreggiare. Si fermò
solo quando andò a sbattere contro il pozzo alle sue spalle.
Sussultò e tese le orecchie. Silenzio, solo il sibilo del
vento e le ombre sempre più lunghe della sera.
Strinse la pietra di luna perché le infondesse un po' di
coraggio. Trattenne il fiato quando con la punta delle dita
sfiorò un collare di cuoio. Si trascinò fino al
bordo della vasca e si inginocchiò. Il suo riflesso le
rimandò una bambina spaventata, vestita con una tunica
bianca, stretta in vita da una cintura. Abiti nuovi, leggeri, puliti,
come quelli che indossava quando viveva nella tribù. Avrebbe
potuto pensare di essere libera, se non avesse avuto quel pezzo di
cuoio placcato con un metallo rossastro, simile al rame. Un pizzicore
le intorpidì le dita quando ve le passò sopra, lo
stesso che le trasmise la fibbia.
“Basterà scioglierlo.”
Non aveva mai usato il fuoco in quel modo, non era nemmeno sicura di
poter sprigionare il calore sufficiente senza bruciarsi. Chiuse gli
occhi e trasse un lieve respiro, prima di fissare la sua attenzione
sulle pareti. Una volta Etheram le aveva detto che anche l'ambiente era
importante per concentrarsi, e che il silenzio, a volte, poteva essere
più rumoroso di una stanza piena di gente.
- Ci sono due modi di guardare il mondo, Nemeria: puoi osservarlo da
lontano e coglierlo nella sua armoniosa interezza, oppure avvicinarti e
lasciarti catturare dalle minuzie più pregevoli. Non
c'è un metodo più giusto dell'altro, è
la situazione e il tuo stato d'animo a decretare se è meglio
rimirare un paesaggio mentre cavalchi o quando bivacchi. Lo stesso
discorso si può applicare al metodo con cui attingi potere
dagli elementali: puoi protendere la mano e rimanere distante,
così come puoi avvinarti e immergerti in loro. -
Nemeria puntò lo sguardo sui monti che affrescavano le
pareti. Le vette si innalzavano verso il cielo, sconfinando nelle
nuvole bianche, dipinte tamponando il pennello con tocchi rapidi. Un
branco di lupi correva nella foresta come un'unica entità,
si avventava sulla cerva in fuga con ferocia, la braccava tra gli olmi
e gli ontani imbiancati di neve finché il capobranco non la
atterrava. Era una scena cruenta che, come quella nella sua stanza,
continuava su tutte e quattro le pareti. Nemeria seguì i
predatori senza riuscire a rivolgere la sua attenzione altrove,
attratta dalla bellezza dei colori e dal realismo con cui erano stati
riprodotti. Socchiuse le palpebre e si concentrò sul naso,
biancheggiato attorno alle narici per rendere il sudore, poi sulle
orecchie abbassate, parallele alla testa, e sulle zampe che sfregiavano
lo strato spesso di neve.
La pietra di luna le trasmise un pallido calore.
Contemplò la cerva... no, il giovane cervo,
poiché il pittore aveva tratteggiato un accenno di corna, e
osservò il manto lucido e le zampe chiazzate di rosso.
Nemeria immaginò che fosse rimasto ferito o che fosse
l'unico sopravvissuto della sua famiglia. Come lei.
Strinse di più il ciondolo e abbassò le palpebre.
Poteva sentirlo, il soffio del vento, quello che sferzava il paesaggio
innevato. Le si infilava tra le dita e tra le bende, come un nastro di
seta appena lavato. Davanti ai suoi occhi divenne una raffica che
ingrossava la fiamma, danzava con essa lasciandosi lambire dalle lingue
ardenti. Allungò la mano verso il cerchio di luce, lo
oltrepassò mentre il vento spirava più forte e...
La visione svanì e tutto piombò
nell'oscurità.
La bambina attese un istante, quindi aprì gli occhi e si
guardò attorno senza capire dove avesse sbagliato. Aveva
fatto come sua sorella le aveva detto e gli elementali avevano
risposto. Allora perché poi se n'erano andati quando aveva
provato ad attingere al loro potere?
Venne colta da un senso di vertigine e dovette appoggiarsi alla parete
per non svenire. Fissò il pavimento finché la
griglia delle piastrelle non tornò a essere una sola, ferma.
Avrebbe parlato con Kimiya, forse lei poteva aiutarla. Sempre se
l'avesse trovata.
Si raddrizzò e, senza staccare la mano, percorse il
perimetro della stanza per vedere se ci fossero altri corridoi. Non
voleva tralasciare nulla se voleva avere la certezza di trovare la sua
amica. Sicuramente, appena si era svegliata, era corsa a nascondersi
nel posto più buio e lontano della casa.
Il portone si aprì che non aveva ancora finito il suo giro.
Nemeria si immobilizzò come un topo davanti al gatto quando
vide un uomo attorniato da una ventina di servi avanzare all'interno.
Era alto, svettava al di sopra di tutti gli altri di almeno una testa,
i capelli brizzolati rasati ai lati e tenuti fermi con un legaccio di
cuoio sulla spalla. L'aveva notata subito, Nemeria se n'era accorta
dallo sguardo attento e curioso che le aveva lanciato, ma non si era
avvicinato. Si era rivolto all'uomo alla sua sinistra e gli aveva fatto
un cenno con la testa, abbracciando con un gesto della mano i servi che
portavano ceste cariche di frutta, verdure, pane e cereali.
- Sì, mio signore. -
- Bene, muovetevi. -
Aveva una voce baritonale che risuonava chiara e forte
nell'immobilità del silenzio. Il servo piegò la
testa in un cenno di assenso e scattò, seguito dagli altri.
Passarono accanto a Nemeria scoccandole appena un'occhiata, prima di
svanire al di là della tenda. I loro passi animarono la casa
e si dispersero nelle camere e nei corridoi.
- Finalmente ti sei svegliata. - disse l'uomo rimasto, non appena le fu
vicino, - Noto anche che hai trovato da mangiare. Molto bene, significa
che stai riprendendo le forze. -
Non era stata una sua impressione, era davvero molto alto. Indossava
una tunica corta blu dalle maniche lunghe e dei calzoni morbidi
infilati in stivali di pelle di montone. Da sotto le sopracciglia
folte, sollevate in un cipiglio divertito, la fissavano delle iridi
argentee.
- Avrai molte domande da farmi. Seguimi, andiamo nel mio studio, ti
spiegherò tutto. -
Senza attendere risposta, sparì oltre la tenda. Nemeria
attese un momento, poi non vedendolo riapparire lo seguì.
All'interno la casa fremeva, di nuovo viva e popolata da uomini e donne
che correvano per il corridoio, portando vassoi, piatti, vivande.
L'aria trepidava del rumore di stoviglie, del profumo degli aromi
cosparsi sul pesce e sulla carne messa a cuocere. I domestici la
scansavano senza fermarsi, le sfrecciavano accanto o piroettavano con
grazia senza che dai piatti cadesse nemmeno una goccia di sugo, un
pezzetto di carota, uno spicchio di mela.
- Segui il corridoio e quando vedi la grande tenda rossa, aprila. Il
padrone ti aspetta lì. Non puoi sbagliare, è la
tenda più grande di tutte! - la informò un
giovane servo con un accenno di barba, vedendola persa in mezzo al
corridoio.
Nemeria annuì, sebbene non fosse proprio certa di aver
capito. Ripercorse la strada che aveva fatto precedentemente, stando
bene attenta a non urtare nessuno, anche se le sembrava che quegli
uomini fossero abituati ad avere gente tra i piedi.
- Ragazzino, di là. -
Senza troppe cerimonie, una ragazza le mise le mani sulle spalle e la
girò. I ricci le incorniciavano il viso paffuto, non ancora
adulto, e solleticavano le spalle e il collo sottile. Nemeria non ebbe
il tempo di puntualizzare di essere una femmina, figurarsi opporre
resistenza mentre la serva la trascinava lungo il corridoio, svoltava a
sinistra e la sospingeva verso la tenda che copriva l'interna parete.
Anzi, era essa stessa la parete.
- Ricordatelo la prossima volta, al padrone non piace aspettare. - la
redarguì con un sorriso bonario, - Ora va', non star qui a
fissarmi come un baccalà. -
- Non devo aspettare che mi chiami? -
- Lui cosa ti ha ordinato? -
Nemeria ripeté quello che le aveva detto.
- E allora fai così. Il padrone è sempre molto
chiaro: se ti dice che vuole che lo segui nel suo studio, significa che
lo devi seguire nel suo studio. Semplice, no? -
A lei non sembrava così, ma decise comunque di annuire per
non fare la figura della stupida. La ragazza le batté una
pacca sulla spalla, ignorando l'occhiata di rimprovero di una donna
più anziana che passava nel corridoio.
- Bahar, scansafatiche, non perdere tempo e vienimi a dare una mano con
la cottura del maiale. -
- Arrivo, arrivo! -
Nel suo tono c'era un che di esasperato che strappò un
sorriso a Nemeria.
- Me la cavo da sola, ora. - si sentì in dovere di dire.
La serva annuì. Si era già girata per andarsene
quando tornò a guardarla, stavolta con maggior interesse.
- Ma i tuoi occhi... -
- Bahar, che la peste ti colga se non ti muovi adesso! -
Quell'ultima esortazione bastò per smorzare qualsiasi
curiosità. La ragazza le lanciò un'ultima
occhiata curiosa prima di correre via come se avesse la morte alle
calcagna.
Nemeria la seguì con lo sguardo finché non
sparì dietro l'angolo, poi tornò a fissare la
tenda. Si sentiva come un agnello che stava per andare di sua spontanea
volontà nella tana del leone, ma non aveva scelta.
“Sorella, dammi la forza.”
Strinse nel pugno la pietra di luna e trasse un profondo respiro, prima
di scostare la tenda.
Venne accolta in un ambiente piccolo, intimo. Gli angoli delle pareti
erano foggiati a pilastri e sembravano sorreggere le statue dipinte.
Libri e tomi più o meno spessi e polverosi erano stati
ordinatamente impilati sugli scaffali delle diverse librerie che quasi
toccavano il soffitto. Diverse sedie attorniavano il grande e tornito
tavolo centrale, anch'esso gremito di pergamene, tavolette di cera,
calamai e stili di legno.
L'uomo alto, il padrone, era seduto dalla parte opposta e non sembrava
essersi accorto di lei. Nemeria attese in piedi finché le
gambe non ripresero a tremare e le imposero di sedersi su una delle
sedie. Non sapeva come comportarsi. Il padrone di casa continuava a
scrivere, incurante della sua presenza, inspirando di tanto in tanto
dalla lunga pipa bianca, che riponeva su un sostegno di legno a portata
di mano dopo ogni boccata.
Doveva chiamarlo oppure doveva attendere che fosse lui a darle il
permesso di parlare? Aveva fatto bene a sedersi oppure si doveva
aspettare un rimprovero per la sua poca resistenza?
“Mi fa male dappertutto.” si scusò, in
un dialogo immaginario. Le gambe soprattutto, non riusciva a stare
troppo a lungo in piedi.
Il suo stomaco protestò, un basso gorgoglio che la fece
trasalire. Si mise una mano sulla pancia e provò a non
pensare al profumo di carne che filtrava attraverso la tenda, alla
consistenza che doveva avere sotto i denti quando la si masticava. Un
altro borbottio risuonò nella sala.
- Se hai fame, mangia. È ora di cena e tu sei in via di
guarigione, è normale che il tuo corpo pretenda
più attenzioni del solito. - esordì a quel punto
l'uomo, mentre due nuvolette di fumo si librarono dalle sue labbra
nell'aria, sprigionando un profumo dolciastro di resina, - Cosa hai
lì? -
Nemeria svuotò le tasche. Alla vista della frutta, il suo
stomaco borbottò ancora, con più veemenza. L'uomo
abbozzò un mezzo sorriso, prese un dattero da un piattino di
terracotta, tolse il nocciolo prima di metterlo in bocca e
lanciò un'occhiata alla bambina, spingendo appena il piatto
nella sua direzione.
- Davvero buoni, domani devo dire a Farshad di comprarne altri. - ne
afferrò un altro e fece altrettanto, - Mangia, mangia,
abbiamo tempo prima che la cena venga servita. -
Nemeria non se lo fece ripetere due volte. Si impadronì di
tre datteri e li infilò tutti insieme in bocca. Poco ci
mancò che si strozzasse nella foga, ma era così
affamata che subito ne ingoiò un altro, assieme alla buccia
e al nocciolo.
- Come vi... -
- Puoi darmi del tu quando siamo da soli. -
Nemeria deglutì l'ultimo boccone e tossì per
darsi un contegno. Fissò con desiderio la mela, ma represse
l'istinto di azzannare anche quella, e nascose le dita dietro la piega
del ginocchio.
- Qual è il tuo nome? -
- Tyrron. - il sorriso si allargò e le labbra si
assottigliarono fino quasi a sparire, - A giudicare dalla tua faccia,
qualche voce su di me ti è giunta. -
Nemeria annuì e poi si affrettò a scuotere la
testa.
- No, non so granché. Solo il nome non mi è
nuovo. -
Lui annuì. Da vicino, la sua pupilla era poco più
che una fessura slargata, contornata da un alone giallo dorato.
“Tyrron Occhi di Lince.”
- Cosa ne sarà di me? -
- Diventerai una mia gladiatrice. -
Il cuore inciampò nel petto e le parole rimasero impigliate
tra i denti come pesci in una rete. Si rese conto di aver trattenuto il
respiro solo quando i contorni divennero sfocati.
- Morirò? -
Tyrron appoggiò il mento sulle mani intrecciate, inclinando
la testa a destra e a sinistra. La coda ondeggiava a ogni movimento,
frusciando sulla veste. Nemeria sostenne il suo sguardo come poteva,
respirando il più piano possibile: sperava che se avesse
mantenuto la concentrazione su quei movimenti, lui non si sarebbe
accorto di quanto avesse paura.
- Dipenderà dalle tue abilità. Di solito i
gladiatori non vengono uccisi, sarebbe un enorme spreco di denaro e
risorse. Se ricevono ferite mortali, i guaritori fanno l'impossibile
per salvarli. - si esibì in un ghigno stiracchiato, - Se
quello che mi chiedi è se voglio mandarti a morire, la
risposta è negativa, ma non vedo il futuro, non ti posso
dare alcuna garanzia che qualcuno non tenterà di ammazzarti.
-
Nemeria deglutì a vuoto. Aveva la gola secca e la lingua si
era improvvisamente atrofizzata.
- Ci... - strinse il ginocchio, - ci andrò subito? -
- No, ovviamente. Prima ti dovrai riprendere. -
- E dopo? -
- Dopo verrai sottoposta a una valutazione fisica e magica dai miei
allenatori. Saranno loro a decidere come indirizzarti, verso quale
stile di combattimento. -
- Sarò mai... libera? -
Nemeria pose quell'ultima domanda in un sussurro. Tirò su
col naso e si strofinò gli occhi, i denti piantati nelle
labbra e lo stomaco contratto. Aveva ancora molte, tante, troppe
questioni aperte, eppure in quel momento erano scolorite,
insignificanti.
- Anche in questo caso, dipende da te. Ho speso molti soldi per
comprarti. -
Srotolò una pergamena e gliela mise sotto il naso. Nemeria
lesse i termini del contratto senza capire davvero ciò che
c'era scritto. Parole come “vendita”,
“proprietà”e
“riscatto” erano incomprensibili.
- Sai leggere? -
Il cervello di Nemeria non sapeva più nemmeno elaborare un
pensiero logico. Annuì con poca convinzione e Tyrron dovette
interpretare quel suo tentennamento come una dimostrazione d'ignoranza.
- Mi sei costata duemiladuecentocinquanta shekel. - incrociò
il suo sguardo, - Sai quanti sono? -
“Troppo.”
- Sì, ora sì. -
- Quando riuscirai a ripagarmi, riavrai la tua libertà. -
avvolse un nastro attorno alla pergamena e la andò a
sistemare su uno degli scaffali, - Se hai finito, desidero farti io
alcune domande. -
Lo sguardo che aveva, simile alla lama di un pugnale, bastò
a inchiodarle la lingua al palato e a pietrificarla. Sentiva freddo, un
freddo che germogliava dalla paura dell'ignoto e della morte e dalla
certezza di non poter avere segreti con quell'uomo: avrebbe annusato la
bugia dopo le prime sillabe.
- Mi piacerebbe sapere il tuo nome, prima d'ogni cosa. - riprese posto
e si protese verso di lei, - Non mi piace condurre una conversazione
senza sapere a chi mi sto rivolgendo. -
- Nemeria. - esalò flebilmente.
- Bene, Nemeria. Come ti ho detto, sarai una mia gladiatrice. Lavorerai
per me. I miei allenatori provvederanno a renderti una guerriera capace
di far divertire il pubblico. Se sarai brava, riuscirai a racimolare
abbastanza shekel da pagarti la libertà. Nel frattempo,
verrai alloggiata in una stanza nel dormitorio della scuola.
Condividerai la camera con un'altra ragazza che ho acquistato assieme a
te. Lì sarà la tua vita, d'ora in avanti. Visto
quanto ho dovuto sborsare per averti, mi aspetto che tu non mi deluda,
se non altro se ci tieni a non essere più una schiava. -
Schiava. Quella parola la colpì come uno schiaffo e le
trafisse la pancia, attaccandola allo sedia. Meno di un animale, meno
di un oggetto, meno di nulla: aveva perso il diritto di definirsi un
essere umano. Una lacrima le sfuggì dalle ciglia prima che
Nemeria riuscisse ad asciugarla.
- Non piangere, non ne vale la pena. Lì fuori saresti morta
prima o poi, uccisa da un'infezione o da una mela andata a male. Qui
verrai nutrita, curata e avrai un tetto sopra la testa, e in cambio ti
verrà solo richiesto di far divertire il tuo pubblico, il
tuo cliente più pretenzioso e indulgente di tutti. Non so
cosa ti abbiano raccontato, ma ti posso assicurare che ben presto
comincerai a pensare d'essere stata fortunata a finire qui. - fece un
tiro dalla pipa e trattenne il fumo in bocca prima di soffiarlo fuori
in un filo sottile, - Ci sono poche regole, ma ce n'è una in
particolare che pretendo venga rispettata: non provare a fuggire. La
scuola è sorvegliata e anche volendo usare il tuo potere, il
collare non è l'unica cosa placcata in oricalco. Non ti sto
minacciando, Nemeria, ma ti prometto che se mai tenterai la fuga, le
ossa rotte e le bruciature ti sembreranno dei fastidi a confronto di
quello che patirai. -
L'occhiata che le scoccò la fece rabbrividire.
Più delle parole, erano quegli occhi taglienti a gelarle
l'anima.
- Hai capito, Nemeria? -
- S-sì, ho capito. -
- Ottimo. - l'uomo ripose la pipa sul sostegno e si portò
alla bocca l'ultimo dattero, - Per il resto, puoi fare quello che
più desideri. Più avanti potrai anche uscire
dalla scuola, ma fino a quando non sarò certo che non
dovrò mobilitare i Kalb per venirti a stanare, non posso
permettermi di rischiare. -
Nemeria annuì. La testa si era svuotata, la sentiva leggera,
piena d'aria, con le domande tutte compresse contro la scatola cranica.
Il collare, ora, le pesava come se fosse stato di piombo. Era la catena
che la vincolava a quell'uomo, a Tyrron; il nodo scorsoio da cui
penzolava la sua dignità.
- Se non hai altro da chiedermi, puoi tornare nelle tue stanze fino a
quando non sarà pronta la cena. Il guaritore afferma che per
il momento è meglio tenerti sotto controllo e io concordo
con lui. - concluse e le fece un lieve cenno della mano, - Ho delle
faccende burocratiche particolarmente noiose di cui mi devo occupare,
puoi andare. -
Nemeria non attendeva altro. Scese dalla sedia, chinò il
capo e si trascinò in camera sua. L'odore del cibo le
stuzzicava le narici, ma lo stomaco era chiuso in una morsa gelida,
così stretta da darle l'impressione che avrebbe potuto
vomitare da un momento all'altro. Deglutì il gusto acido
della bile assieme alla tristezza, alla frustrazione, al dolore. Tra le
lacrime si domandò perché non avesse chiesto che
fine avessero fatto tutti gli altri, e chi fosse l'altra ragazza che
aveva comprato.
“Perché ti preoccupi? Gli schiavi non hanno
amici.”
Soltanto quando ebbe raggiunto la sua camera e nascosto il viso nel
cuscino si concesse di piangere.