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Autore: Lost In Donbass    30/09/2017    0 recensioni
Tom é un soldato, reduce dell'Afghanistan, scappa dal passato, da se stesso, dai suoi demoni.
Bill é solo, ha una figlia, divorato dalla depressione e dall'attesa.
C'è Loitsche, ci sono i ricordi, le incomprensioni, la passione mai davvero spenta, lettere mai aperte. Bill sta aspettando da due anni. Ma sarà disposto ad aspettare ancora?
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Mpreg
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CAPITOLO OTTO: THAT DAY
That day never came
That day never comes
I’m not letting go
I’ll keep hanging on
Everybody says that time heals the pain
I’ve been waiting forever …
That day never came
 
-Mi devi delle risposte, Tom. Delle risposte serie. Cos’è tutta sta roba? Lettere … le mie lettere! Le mie foto! Tutto … mi avevi … mi avevi detto di non averle mai ricevute! Di non saperne nulla! Invece guarda qua, sapevi tutto, tutto!
Bill stava girando in tondo nello studio, le mani tra i capelli, lacrime di trucco a sporcargli il volto pallido, le labbra frementi e lampi di furia a sgorgargli dagli enormi occhi dilatati e lucidi. Tom, semplicemente, lo fissava, con la solita espressione un po’ colpevole e un po’arrogante, com’era sempre stato suo solito. Si torturava distrattamente un dread, mordicchiandosi il piercing al labbro e lo guardava da sotto le lunghe ciglia, aspettando che si desse una calmata. Solo in quel momento, furibondo e a pezzi per l’ennesima volta, lo riconosceva come la Principessina Araba che aveva conosciuto a Berlino, forte come una pantera, altera come una zarina, la rabbia distruttiva che solamente lui poteva far scaturire da quel corpo anoressico che si spandeva in onde assassine per la stanza. Non avrebbe voluto pensarlo, ma lo trovava eccitante. Gli ricordava troppo la prima notte in cui si erano conosciuti, in quel locale di periferia dove si sentiva musica industriale e si parlava di politica alternativa, tra alcol e cannabis di ottima qualità. Ricordava con nitidezza quella notte, come avesse subito notato il look estremo di Bill in mezzo a tutti gli altri, come fosse stato subito affascinato dall’espressione graffiante, come fosse stato calamitato da quegli occhi d’inferno. Ricordava sé stesso che si avvicinava, strafottente e sicuro di sé, e si intrometteva nel discorso, andandogli contro, facendolo arrabbiare, e ricordava ancora meglio la smorfietta eccitata e furiosa di Bill, e i loro circoli di amici che si stringevano per guardarli dibattere furiosamente, una scommessa in mezzo, una sigaretta estratta da un pacchetto di alta classe, una leccata di labbra di troppo, uno sguardo ammiccante, due anime che si riconobbero e si scontrarono con la stessa forza distruttiva di due oceani in tempesta al Capo di Buona Speranza. Erano cozzati uno contro l’altro, litigando, ringhiandosi contro, forse anche odiandosi, ma chissà come mai ricordava con uguale nitidezza che la notte stessa Bill era sotto di lui, in un letto sfatto, e strillava di dargli di più, graffiandogli la schiena. E poi … e poi. Poi erano lì, due anni dopo, una bambina, lettere, odio e amore a unirli e allontanarli come era sempre successo. Poi erano soli a dover affrontare demoni che nessuno dei due voleva veder riaffiorare.
Lo guardò in lacrime, e si sentì il cuore stretto in una morsa di ferro. Faceva male vederlo così, eppure non abbastanza da smuovere la sua coscienza bastarda. Insomma, se l’era cercata. No, sto cazzo. Tom si morse il labbro, ma continuò a non dire nulla, lasciando Bill continuare la sua sfuriata da solo.
-Tu … tu! Come hai potuto?! Sapevi che io ti stavo aspettando, che mi stavo uccidendo per te, sapevi di avere una figlia, sapevi che era nata, sapevi che io ho passato l’Inferno per causa tua, qui, in questo posto orribile che volevo dimenticare, e non hai mai fatto nulla per consolarmi! Mai una lettera, una telefonata, un telegramma, nulla! Un silenzio atroce! E io che ti aspettavo con gioia, che pensavo che le lettere fossero andate perse chissà dove, che ho vissuto tutto questo tempo senza fare altro che pensare a te, a pregare che fossi ancora vivo, che un giorno saresti tornato a casa, che saresti tornato da me, da Mackenzie, dalla tua famiglia!
Perché? Perché mi hai ignorato? Perché tutto questo? Perché mi odi, Tom?
Tom avrebbe voluto poter trovare una scusa valida, un motivo che potesse reggere, poterlo stringere tra le braccia e sussurrargli che era tutto un brutto sogno, ma non disse nulla, invece. Lo guardò, sospirando, aspettando che finisse la sfuriata e si sgonfiasse come aveva fatto anni prima, spegnendosi come la marionetta a carica che in fondo era. Bastava aspettare che si scaricasse la batteria e poi metterla via, in qualche cassapanca, per non tirarla mai più fuori. Da un lato, sperava che Mackenzie, relegata di sotto a giocare a scacchi da sola con un pacco di biscotti, non stesse ascoltando le strilla inconsulte di Bill, perché, in fondo, lei non c’entrava nulla.
-Parla, per piacere!- Bill lo stava fissando con gli occhi a palla, in lacrime – Cosa ti ho fatto per meritarmi questo? Io, che ti ho amato e ti amo più di me stesso, io, che ho dato tutto quello che avevo per te! In cosa ho sbagliato, si può sapere?
-Ma cazzo, Bill, possibile che tu non te ne sia ancora reso conto?!
Tom era letteralmente esploso a quel punto, sbattendo un pugno contro il muro, i dreadlocks che si agitarono come impazziti. Non sapeva nemmeno lui se sentirsi furibondo, deluso con sé stesso, semplicemente stufo di tutta quella faccenda che lo stava torturando orribilmente ormai da anni a quella parte. Ogni volta che guardava Bill, adesso, non vi vedeva più la sensuale principessa araba piena di risorse che vedeva a Berlino, ma solo un pagliaccetto patetico e penoso con la sua bambina che sembrava un fenomeno da baraccone.
-Io non ti voglio più!
Quella frase risuonò nel silenzio della stanza e rimase lì, come l’ultima foglia appesa all’albero prima dell’inverno, come l’ultima lacrima di una madre, come l’ultimo respiro di un moribondo. Bill si era immobilizzato, fissando Tom come se lo vedesse per la rprima volta, la bocca spalancata, gli occhi vitrei di pianto congelato, e Tom … Tom era fermo immobile, il labbro fremente e si sentiva addosso l’espressione bestiale che gli stava ordinando di fare il soldato che era nato per fare. Bill era l’ostacolo. Bill sarebbe stato eliminato. In quel momento, sembrava non importargli più della sua salute mentale, della bambina grassa, niente di niente. Voleva solo mettere fine a un incubo che lo perseguitava ogni notte come un orrido fantasma che non riusciva ad esorcizzare. Finalmente, l’aveva detto. Non si sarebbe aspettato che sarebbe finito così, ovviamente, con loro due in una stanza a urlarsi contro come la peggiore delle vecchie coppie, loro, i padroni di Berlino, che erano esplosi insieme a una bomba nelle sabbie dei regni di Persia. Dovevano ancora raggiungere la loro Samarcanda, varcare porte infuocate di regni perduti, seguire Babilonia e vederla bruciare sotto ai loro sguardi. Dovevano ancora fare tirare giù la capitale e ricostruirla secondo le loro folli leggi. Invece erano lì, che litigavano come due idioti.
-Bill, dannazione, ma è possibile che tu sia così stupido?! Io non ti amo, non ti voglio, non me ne frega nulla di te!
Non l’avrebbe mai voluta mettere in quel modo infame, non avrebbe nemmeno mai voluto riaffrontare l’argomento, ma ora eccolo lì, gli occhi di fiamma e la rabbia che sgorgava amara dalla sua voce arrochita dalla guerra. E Bill, di fronte a lui, bellissimo e distrutto come una ninfea ultima su un lago salato. L’ultimo fiore del Caspio. L’ultimo rubino della regina di Saba. L’ultima stella del Wadi Rum. L’ultima principessa araba fuggita a Berlino a dorso di un cammello.
-Tom … Tom, cosa stai dicendo?
La voce di Bill si era improvvisamente spezzata, come il suo giovane proprietario, che si era lasciato cadere per terra, in ginocchio, come se le lunghe gambe da gazzella non fossero più in grado di trattenerlo. Era così bello, il sangue che sgorgava come lacrime dai suoi occhi d’inchiostro, le mani aperte come quelle di una Madonna 2.0 che fissava il cielo sporco di Loitsche, le labbra semi aperte come a mormorare un’antica poesia araba morta da tempo. La perfezione incarnata di un Botticelli, l’espressione di un Raffaello, i colori di un Turner, l’assurdità inquietante di un Dicks, la passione mal riposta di un Dalì, l’orrore senza tempo di un tardo-gotico, il parossismo del dolore innaturale di un Ernst, tutto contenuto dentro il corpicino di Bill, splendido e decandete come ogni zarina che si rispetti. Tom lo guardava, inginocchiato di fronte a sé, sotto al suo comando come era sempre sato, il ragazzino di periferia che si nascondeva dietro solenni facciate per poi capitolare come il debole che era quando arrivava lui, la sua forza, la sua brutalità, la sua … la sua anima bastarda e borghese.
-Quello che ho detto.- gli bruciava la ferita dietro alla testa, ma la ignorò. – Cristo, Bill, cerca di renderti conto. Se non ti ho mai scritto, se non ti ho mai risposto, era per un semplicissimo motivo: non ti volevo più vedere. Perché credi che sia andato in Afghanistan? Perché?- si era reso conto che stava urlando, ma non gli importava più di tanto. – Perché mi ero rotto di averti in giro, di dover stare sempre con te appeso al collo, perché mi stavi uccidendo, Bill!
Bill non rispose subito. Si limitò a piegare la testa da un lato, come fosse perplesso. Assottigliò gli occhioni, e fece una dolce smorfia innocente
-Co … cosa? Tom … Tom, non ho capito. Io ti amavo, non avrei mai voluto la tua morte!
Tom si mise le mani tra i capelli, guardandolo con quello che avrebbe voluto essere disprezzo ma che non era altro che disperazione e dolore così forte da starlo soffocando da dentro. Gli veniva da vomitare, come quando aveva visto i due ragazzini afghani nel villaggio distrutto. C’era qualcosa in Bill che lo aveva sempre attirato e nauseato contemporaneamente, qualcosa di così forte da essere atroce.
Lui non voleva fargli del male, non aveva mai voluto, ma voleva essere lasciato in pace. Bill sembrava essere ossessionato da lui, non riusciva a spiegarsi nemmeno perché, era qualcosa di orribile che non poteva più reggere.
-E’ proprio questo quello che non capisci, Bill! Io non ti amo! Non quanto mi ami tu, almeno.- Tom non sapeva più dove sbattere la testa – A Berlino era tutta un’altra storia, eravamo ragazzini, ora non lo siamo più! Tu sei diventato madre, io sono un soldato, non possiamo più pretendere che possa tornare tutto come prima. Come potrebbe?
-Potrebbe benissimo, Tom, non hai capacità di astrazione!- Bill si stava impuntando, come prima cocciuto come un mulo e troppo risoluto, come al solito – Mi porti a Berlino, a casa tua, non ti darò mai fastidio, sarà la mamma e la moglie perfetta, se vuoi non mando nemmeno Mackenzie all’asilo, aspettiamo le elementari, starò buono a casa, scriverò i miei libri in silenzio, e …
-E basta! Cazzo, Bill, ma la puoi smettere? Ti rendi conto di quanto tu sia schifosamente patetico e francamente penoso? La risposta è no, sempre e solo no!
Non me ne sarei andato e non ti avrei ignorato se avessi avuto il piano di sposarti e portarti a vivere con me, insieme alla bambina. Ma non ce l’avevo. Ho ignorato tutti quei piagnistei per farti capire che di te non ne volevo più sapere niente. Perché sei così caparbio?- Tom gli aveva afferrato le spalle, scuotendo la sua figura così sottile e delicata come fosse un delicato fuscello. Si stava arrabbiando, i lunghi dread che frustavano l’aria come tentacoli di Medusa. Più guardava il moro in faccia più non vi vedeva che la sua rabbia e il suo nervosismo, gli errori e i ripensamenti che aveva fatto e che voleva cancellare una volta per tutte dalla sua esistenza, il primo essere capitolato appunto ai piedi della principessina araba ed essersi messo nei casini con lei.
-Perché ti amo!- Bill stava urlando istericamente in quel momento – E ti amavo, e non capisco perché tu abbia smesso di farlo! Non vorrai farmi credere che a Berlino era tutta una farsa, perché mi ricordo come mi guardavi, mi ricordo come mi baciavi, mi ricordo tutto di te!
-Non ti ho mai detto questo.- Tom aveva abbassato gli occhi, aggrottando le sopracciglia. Perché parlare con Bill si era fatto così faticoso e avvilente? Perché anche solo guardarlo in faccia faceva dolere la ferita che aveva in testa? – Ma non capisci che io e te ragioniamo su due linee d’onda diverse. Fino a due anni fa eravamo diversi, entrambi annoiati, famosi nel nostro piccolo mondo berlinese, osannati come idoli da teenager. Ma ti rendi conto che siamo uomini, adesso? So che è difficile crederlo, ma se sono andato in Afghanistan era proprio per questo motivo: convincerti in maniera diretta che io e te non possiamo stare insieme. Non posso darti quello che cerchi, Bill, non posso, o forse non voglio, non lo so. Io … non sono fatto per avere qualcuno, per essere padre.
Bill lo guardò con astio, un astio vecchio e malato, da sotto la cortina di capelli corvini arruffati. Sembrò invecchiato di almeno vent’anni sotto lo spesso strato di trucco che gli raffinava i dolci tratti femminili, ma in fondo era sempre stato così. Il moro era sempre parso molto più grande di tutti loro, forse per lo sguardo ferito che tentava di nascondere, per le rughe invisibili che gli vergavano il corpo perfetto, l’aria abbattuta di una regina che ha perso il proprio impero nella sabbia ed è stata costretta a fuggire in groppa a un dromedario stanco. Proprio in quel momento Tom vi rileggeva quel dolore che non lo aveva mai abbandonato, il dolore che era stato così bravo a nascondere per così tanto tempo ma che ora riaffiorava pericolosamente, senza più la presunta fama a cancellarlo.
-Però Mackenzie, che tu la voglia o no, è pur sempre tua figlia.- aveva la voce spenta, non c’era più rabbia, furia e nemmeno dolore. Era solo vuota – Sei tu che me l’hai messa dentro, sei tu che hai contribuito a darla alla luce e non te ne puoi fregare così. Ma come fai a essere così senza cuore, Tom?!
L’ultima frase gliela urlò praticamente in faccia, piantandosi le unghie nei palmi, e il rasta non potè fare a meno di pensare che, effettivamente, aveva ragione. Lui era senza cuore, ma non poteva dare colpa alla guerra per quello. In fondo, lo era sempre stato. Egoista, freddo, esigente verso gli altri ma mai verso sé stesso. Viziato, e incapace a prendersi le proprie responsabilità, come al solito.
-E allora come fai tu ad essere innamorato di me?- gli rispose, scostandosi i dread dal viso con un gesto della mano.
-Può anche non esserci un motivo, sai? Anche se effettivamente me lo sto chiedendo anche io.- Bill sfarfallò gli occhioni umidi e arrossati dal pianto. – E cosa intendi fare, adesso? Tornare a Berlino?
-No, Bill. Intendo tornare in Afghanistan.- Tom si strinse nelle spalle, con quella sua solita aria scanzonata che non riusciva mai a togliersi dagli occhi dorati. – Anzi, vogliamo essere precisi? Torno a Berlino, e appena posso torno laggiù. Lontano dalla Germania, lontano dal mondo. Lontano da una vita che odio, Bill.
-Ah, davvero? Tu odi la tua vita?- l’occhiata di disprezzo che il moro gli lanciò fece male, male come del veleno – E io cosa dovrei dirti? Vivo all’inferno, quando avrei potuto avere il paradiso. Prendo tonnellate di barbiturici per dormire la notte, mia figlia è malata, e non so come tirare avanti. Vogliamo parlare di chi odia la vita?
I due ragazzi si guardarono negli occhi, uno distrutto dal suo orgoglio assassino, l’altro distrutto da un amore che lo stava divorando vivo giorno per giorno. Erano così belli, a vederli così, con occhio profano, due ragazzi così giovani e così disperati, ridondanti una luce oscura che ammantava il silenzio tombale della casa abbandonata a Loitsche, le nuvole nere che si rincorrevano nel cielo di piombo e che si rifletteva nell’atmosfera di perlacea angoscia che pervadeva la casa e il loro silenzio di metallo. Sarebbe bastata una goccia di rugiada per spezzare quell’incubo ad occhi aperti che loro due avevano disegnato insieme, col loro amore finto, con le loro chimere opposte, con i loro sogni divergenti, con i loro deserti e i loro cieli arabi infiniti. Bill si sentiva come Alice, ma un’Alice stupida, che era andata a letto col Cappellaio e ne era rimasta scottata, un’Alice che non voleva tornare a casa ma si costringeva a correre in giro per una Wonderland distrutta e in rovina, piangendo e urlando, rimanendo incastrata tra i rami cercando una salvezza che avrebbe trovato soltando trovando il coraggio di tornare nel mondo reale oltre allo specchio. Ma che non voleva lasciare il bambino mostruoso che aveva partorito laggiù, nella terra di tutto e di niente, nelle braccia di nessuno. Tom, invece, si sentiva esattamente come il Gatto del Cheshire, un sorriso fuggitivo nella nebbia, che andava e veniva, che ingannava, incapace ad amare ma anche ad odiare, un’impalbabile figura nell’orrore che si nascondeva nel Paese delle Meraviglie che lui aveva creato ma che lui aveva mandato al macero senza tanti ripensamenti, un gatto, appunto. Che nulla aveva di umano. Non avrebbero mai rotto quel silenzio, forse, continuando a fissare le loro vite sgretolate come un paio di fenici che non riescono più a risorgere dalle loro misere ceneri lanciate nel vento. Erano morti dentro, e nessuno li avrebbe più salvati. Nessuno avrebbe più portato Tom nelle braccia di chi veramente sarebbe stato in grado di amarlo, nessuno avrebbe più tirato Bill fuori dalla depressione.
Erano fatti uno per l’altro, ma, per qualche motivo, lo Specchio si era chiuso e Wonderland era caduta in rovina mattone per mattone. Sogno per sogno. Lacrima per lacrima.
 
2 settimane dopo, stazione dei treni di Loitsche
 
-Sei venuto, alla fine.
Tom stava guardando Bill con Mackenzie, in piedi di fronte a lui, in una brumosa mattina della pianura. Lo guardò, la sua sposa degli incubi, bello come nessuno e morto dentro. Una regina di Saba con nessun Salomone da venerare. Gli occhi spenti truccati come una maschera da pagliaccio, i guanti sulle mani meravigliose, i vestiti più provocatori del suo guardaroba di dubbio gusto. Bill era la Principessina Araba, e quello nessuno glielo avrebbe mai tolto.
-Siamo venuti.- voce spenta, lacrime di piombo. La regina dice addio, ma non piange altro che spine avvelenate.
-Tom, vai via?- Mackenzie lo fissò, coi suoi grandi occhioni tristi di bambina, avvolta da trine e merletti come al solito, il sorriso già vecchio sul suo viso di luna piena. Agitò le manine grasse verso di lui, e, timidamente, si decise a prendere una, accarezzandole i capelli corvini.
-Sì, tesoro. Ma tornerò, un giorno o l’altro.
Sapeva che era una bugia, e sentì una fitta dolorosa alla testa, ma non gli importava. In fondo, chi sarebbe stato lui? Un padre assente, un soldato, un ragazzo sconsiderato. Un idiota che le avrebbe solamente fatto del male. Lui non sarebbe tornato per lei, e nemmeno per Bill. Era un addio, quello, ma non ne aveva il vero sapore.
-Ciao, allora.- Mackenzie sorrise ancora, muovendo le manine, e il rasta sentì una sorta di magone spingergli sotto la gola. Già, ciao. Quando la parola giusta sarebbe stata “addio”. Chissà cosa le avrebbe detto Bill quando sarebbe cresciuta, se si sarebbero mai incontrati, dopo dieci, quindici, vent’anni. Se fosse riuscito a riconoscerla. Se avrebbe avuto il coraggio di dirle chi era davvero. O se oppure se la sarebbe dimenticata, nel deserto afghano, sotto stelle che sentiva sue. Se avrebbe visto i suoi occhioni mentre moriva nella sabbia di deserti lontani.
Si girò verso Bill, e sapeva che era già morto. Glielo leggeva negli occhi. Bill, che stava ringraziando il cielo di avere una bambina che lo stava tenendo ancorato per un filo al mondo normale. Bill, che sentiva il suo cuore spegnersi una volta per tutte. Bill, che guardava il ragazzo che un tempo aveva amato pugnalarlo così. Bill, che strinse Mackenzie a sé con tutte le sue forze e lasciò una sola lacrima di trucco rigargli il visino perfetto.
-Allora … addio.- Tom si morse il labbro a dire quella parola orrenda, e sapeva, con le sue piastrine al collo, la chitarra su una spalla e lo skate appeso allo zaino militare, che stava facendo il suo più grosso errore. Ma oramai aveva deciso, e sapeva anche che, in fondo, non si sarebbe davvero pentito di svoltare pagine e relegare il fantasma del ragazzo a una vecchia vita della quale non voleva più sentir parlare. Sapeva tutto, ma in quella mattina brumosa, sospeso in una realtà sognante e impalpabile, gli sembrava tutto uno strano sogno. Un sogno orribile, che sembrava non avere fine, ma che dal quale, forse, sarebbe riuscito a svegliarsi prendendo quel vecchio treno fermo in stazione, tutto scritto e puzzolente.
-Addio.- Bill stava piangendo, in silenzio, a capo chino. Aveva perso, quella volta. Anzi, aveva perso per sempre, e se ne capacitava in maniera ovattata, triste, dietro a uno specchio di bugie dal quale non riusciva a districarsi ma dal quale veniva avviluppato con forza sempre maggiore. Con orrore sempre maggiore.
Guardava Tom, guardava la sua vita, guardava l’uomo che lo aveva dannato girargli le spalle, per sempre, imprimendosi nella mente quel viso che non avrebbe dimenticato, il viso che avrebbe visto ogni giorno, ogni notte, fino alla fine dei suoi giorni orribili. Il viso bellissimo del suo demonio, del suo dio, del suo tutto. Guardò il suo corpo, i suoi dread ciondolanti, lo guardò avviarsi verso il treno e per un attimo gli sembrò che esitasse a salire. Per un attimo, fu sicuro che si sarebbe voltato, che avrebbe mollato tutto per terra e gli sarebbe corso incontro di nuovo, che lo avrebbe stretto a sé e che gli avrebbe chiesto scusa in ginocchio.
Ma quello, ovviamente, non avvenne. Avvenne solo di vederlo esitare dolorosamente, e poi salire sul treno, senza guardarlo, lasciandolo lì, da solo, con la bambina in braccio e il cuore a pezzi, a guardarlo scomparire per sempre dalla sua Wonderland, lasciandolo senza una guida, una luce, una speranza. Lasciandolo nel buio più totale a lottare contro demoni che cominciavano a riaffiorare davvero, questa volta. La volta in cui Tom Kaulitz, il soldato, lo aveva seriamente abbandonato al suo destino.
-Mamma? Mamma, cosa facciamo?- Mackenzie gli toccò il viso teneramente, col suo sorriso così uguale a quello di Tom e gli asciugò le lacrime con le piccole dita – Perché piangi, mamma? Aspettiamo Tom di nuovo? Tornerà prima questa volta?
La guardò, e poi guardò il treno. E il cielo, il cielo infinito con le sue nuvolette che si rincorrevano nell’azzurro che lui non si sarebbe mai goduto davvero. Il mondo che odiava e che sorrideva alla sua sfortuna, alla sua morte interiore, al suo dramma personale che si concludeva in quella lurida stazione di periferia.
-Niente, tesoro.- guardò Mackenzie, e le posò un bacio delicato sulla testa, osandola delicatamente a terra, accanto a sè – E’ solo che … non dobbiamo più aspettare. Tom … Tom non tornerà mai più. Mai più.
L’ultima cosa che Bill vide prima di accasciarsi al suolo senza più vita dentro al suo fragile e martoriato corpo, fu il treno che partiva alla volta di Berlino.
  
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