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Autore: Red_Coat    05/10/2017    1 recensioni
Genesis.
La mia vita, per te.
Infinita rapsodia d'amore
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DAL TESTO:
Un bagliore accecante invase la grotta, ed io capì che l'avevo raggiunta appena in tempo. Alzai gli occhi, e vidi uno splendido angelo con una sola ala, immensa, nera e maestosa, planare dolcemente su una roccia. Rimasi incantata, con gli occhi pieni di lacrime, a fissare la sua sagoma, fino a che non mi accorsi che i suoi occhi verdi come l'acqua di un oceano di dolore e speranza seguitavano a fissarmi, sorpresi e tristi.
Fissavano me, me sola, ed in quel momento mi sentii morire dal sollievo e dalla gioia
" Genesis! " mormorai, poi ripetei il suo nome correndogli incontro
C'incontrammo, ci abbracciammo. Mi baciò.
Ed io, per la prima volta dopo tanto tempo, piansi stretta a lui.
Genere: Avventura, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genesis Rhapsodos, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Vincent Valentine, Zack Fair
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Triangolo | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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Capitolo XXIII
 
 
Alice: “E’ impossibile!”
Cappellaio: “Solo se pensi che lo sia.”

(Alice in Wonderland)
 
Genesis Rhapsodos.
Gli haters lo odiano, pensano non sia altro che un ricco figlio di papà montato di testa, orgoglioso, testardo e sbruffone, in cerca di un tesoro che non esiste e ossessionato semplicemente da un libro che non è mai stato completato, perché convinto di poterne scoprire il reale significato.
I fan lo adorano, attratti dal suo carisma, dalla sua passionalità, dal suo aspetto e dalla posizione che ricopre, come membro d’élite dell’élite della Shinra.
Io, invece … lo amo, e basta, dal primo momento in cui vidi quei suoi occhi intensi e tristi e capii che non c’era superbia nel suo cuore, né orgoglio nel suo sguardo. Solo dolore e tanta voglia di sapere, di redimere sé stesso e riuscire anche solo un’ultima volta a identificarsi ancora con quell’umanità che credeva di aver perso per sempre. Tornare a sentirsi normale, bambino, anche solo per una volta ancora prima di chiudere gli occhi nel dolce sonno della morte.
Ognuno dà alla parola eroe un significato diverso, più adatto alle proprie aspirazioni e inclinazioni d’animo.
Per Angeal significava non perdere mai l’onore, la propria dignità, e credere sempre nei propri obiettivi e sogni, qualsiasi ostacolo si potesse incontrare sul proprio cammino.
Per il diciottenne Zack Fair significava diventare un first come il suo beniamino, Sephiroth, essere invincibile e ammirato, capace di prodezze ineguagliabili.
Per Sephiroth era solo un carico in più di responsabilità e oneri da portare.
Per Genesis invece … diventare un eroe non voleva dire altro che completare il messaggio della dea, trovarne il segreto. E così restituire al mondo una parte immortale di sé, quella a cui in fondo tutti gli artisti ambiscono e che continua a vivere dopo di loro attraverso le proprie opere.
La tua, amore mio, sarebbe stata la più indimenticabile di tutte. L’ultimo atto di Loveless.
E tu saresti stato colui che né svelò il mistero.
 
***
 
Il giorno dopo la rivelazione fu il principio della mia nuova vita.
Ancora confusa dal sogno che avevo avuto, riaprii gli occhi e mi guardai intorno.
La luce del sole del mattino inondava la stanza, rischiarandola col suo piacevole tepore, e dal piano di sotto non proveniva ancora nessun rumore. Lanciai un’occhiata alla sveglia, segnava qualche secondo alle otto.
Cacciai la testa da fuori le coperte e aprii la bocca, concedendomi qualche secondo per respirare visto che mi accorsi di iniziare a farlo con fatica.
Mi succede a volte.
In quel preciso istante poi mi sembrava come se il cuore mi battesse forte in petto. Mi misi supina sul materasso e provai a regolare la respirazione, appoggiando una mano sul cuore per sentirlo ma accorgendomi invece di come battesse calmo e regolare come al solito.
Sospirai. “Ci risiamo.” Pensai rassegnata.
Quindi mi alzai mettendomi a sedere, ma evidentemente lo feci troppo bruscamente e la testa mi girò facendomi malissimo.
Strinsi le tempie con entrambe le mani, e i denti.
È sempre stato così da quando sono nata. Di solito quei giramenti di testa mi colpivano spesso quando ero stanca o debilitata e mi sottoponevo a sforzi estremi o movimenti bruschi.
Lo sai, questa è una cosa di me che credo di non averti mai raccontato, ma che mi rappresenta molto.
All’epoca della mia venuta al mondo questi mi sembrava così bello ed emozionante da vivere che decisi di fare in fretta a farlo, e così nacqui un mese prima.
Quello che non potevo sapere però è che questo mi avrebbe causato molti problemi, nel corso della mia vita, tra i quali costituzione gracile e convulsioni, soprattutto quando la febbre saliva oltre i trentasette e non si abbassava più, per via della mancanza in me di un sistema immunitario completamente formato.
Presi medicine fino all’età di dieci anni, e non so dirti quante visite mediche mensili feci ogni anno, e quanti natali e inverni passai in ospedale, solo per colpa di un semplice raffreddore o di un’influenza.
Ad ogni modo la vita in campagna, fino a che ci fu, alleviò il mio sconforto e mi regalò la gioia di vivere, e col passare del tempo questi problemi si fecero sempre meno evidenti fino a scomparire, e il mio corpo si rimise in sesto da solo seguendo le leggi di madre natura.
Ma qualche cicatrice me l’ha lasciata, come gli attacchi di panico, ma non solo.
Non posso sopportare le alte temperature, il freddo alle orecchie e al collo, determinati cibi mi sono indigesti e ho bisogno di un ricostituente, ogni tanto.
A volte sono così stanca da non avere nemmeno la forza di alzarmi dal letto.
Come quel giorno.
Attesi qualche istante ancora prima di alzarmi completamente.
Stropicciai gli occhi con le dita delle mani e feci un paio di lunghi sospiri senza riaprire le palpebre.
Ascoltai il silenzio della campagna, il dolce canto degli uccelli e il ticchettare della vecchia sveglia sul comodino.
Sentii qualcosa vibrare un paio di volte proprio sopra di esso e solo allora mi ricordai di aver lasciato il telefono acceso dopo aver risposto al messaggio di buonanotte di Zack.
Pensai fosse il suo buongiorno, quindi sorrisi e riaprendo gli occhi di fretta lo afferrai, curiosa e ansiosa di leggerlo.
Quei messaggi … non erano una novità ormai per me, neanche nel loro contenuto.
Ma mi facevano bene al cuore, erano diventati ciò che più aspettavo durante tutto l’arco della giornata, per questo non avrei mai voluto rinunciarci.
Tuttavia, un messaggio come quello che stavo apprestandomi a leggere … era proprio quello che temevo di più, e a cui invece avrei rinunciato volentieri.
 
\\\
 
Ora più che mai spero di riabbracciarti presto. Mi manchi da morire, sorellina.
Ti giuro, non appena tutto sarà risolto verrò da te.
Un abbraccio.
 
Zack
 
Rimasi gelida davanti allo schermo del telefono, incredula, senza … senza riuscire a pensare a nulla.
Riuscivo solo a rileggere quasi caparbiamente quelle poche tragiche righe, immaginando il tono di voce di Zack, distrutto e impensierito, mentre le enunciava.
A bocca aperta annaspavo, inspiegabili lacrime cominciarono a scivolare lente e bollenti lungo le mie guance mentre con le mani coprivo la bocca e tentavo di soffocare i singhiozzi, sempre più incessanti.
Non hai idea di come fossi stata, da quando Zack mi aveva lasciato lì.
Il giorno tornavo bambina, con i suoi genitori e la natura che mi circondava, ma la notte.
La notte era orribile, affollata di pensieri e dilaniata da un silenzio insopportabile.
Ogni giorno verso il tramonto Zack mi mandava quei messaggi, per sincerarsi che stessi bene e che anche i suoi fossero al sicuro. Ormai li aspettavo con ansia, come l’unica consolazione dello starmene lì ad aspettare che il tempo passasse.
Mi sentivo impazzire.
E quando poi, all’improvviso, quel messaggio arrivò … mi sentii morire, e una paura folle s’impossessò di me mozzandomi il fiato.
Avrei preferito non saperlo. O in alternativa … avrei preferito essere ancora lì con te, anche se questo avrebbe voluto dire stare nel bel mezzo dell’occhio del ciclone.
Invece ero milioni di chilometri distante, e tu … tu te ne eri appena andato via.
 
Genesis ha disertato, o almeno questo è quello che sono riuscito a capire, e con sé ha trascinato molti 3rd e 2nd class.
 
Ecco che il momento era arrivato, alla fine.
Ma … in fondo io avrei dovuto saperlo.
Che fa male innamorarsi perdutamente di un personaggio dal destino così crudele, che non c’è speranza … se sei una ragazza che viene dal futuro e non puoi modificare neanche una singola riga di quello che poi diventerà rapidamente passato.
Mi sentii mancare davvero, stavolta. E un singhiozzo strozzato sfuggì dalla mia gola.
Le mani tremavano, gli occhi si riempirono di lacrime. Un calore assurdo divampò in me, fino a infuocarmi gli occhi.
Mi riscoprii devastata, e pensai che quella doveva essere semplicemente l’ennesima reazione fisica a quell’emozione così forte.
Iniziai a singhiozzare portandomi una mano davanti alla bocca e premendo per impedirmi di fare rumore. Non volevo che i genitori di Zack si preoccupassero, dato che molto probabilmente almeno sua madre stava dormendo nella stanza accanto alla mia.
Provai a smettere senza riuscirci, poi all’improvviso un bagliore attirò i miei occhi e uno strano gelo prese ad accarezzarmi il mento, le labbra e la parte di viso dove il palmo premeva contro la pelle.
Sobbalzai e mi guardai le mani, gli occhi gonfi e appannati.
Vivide fiamme danzavano sulle mie dita, intense e scoppiettanti ma ... quasi inesistenti per me, non le sentivo proprio non fosse stata per quella strana frescura sulla punta.
Mi sembrò … di stare sognando di nuovo.
Continuai a fissarle incredula, a muovere le mani chiudendo e aprendo i pugni, e ci misi un po’ prima di capire che invece quella era un’altra sorpresa della mia nuova, stupefacente realtà.
Me ne accorsi quando, alzando lo sguardo, vidi riflesso nello specchio in fondo alla camera il mio viso, e in particolare i miei occhi. Infuocati e ardenti come un tizzone acceso.
Scattai in piedi trattenendo un urlo, il fuoco nelle mani sparì in quell’istante ma non quello nei miei occhi. Avvertii ancora una volta quella sensazione di forte calore crescere in me, nel mio petto, fino a bruciarlo e strinsi le labbra trattenendo un grido di paura e dolore.
Annaspai. “Devo uscire immediatamente”.
Ma come feci per alzarmi le gambe tremarono e caddi a terra, le mani protese in avanti e poi una a stringere forte la stoffa della maglietta azzurra che mi copriva il petto. Era un regalo della madre di Zack. Quella famiglia mi ha dato tanto … e io sono sparita così.
Sembra essere il loro destino, donare senza ricevere nulla in cambio, solo preoccupazione e dolore.

Soffocai un altro grido, anche se stavolta fu più difficile e dovetti mordermi la lingua per resistere al dolore.
Una luce sempre più sfavillante iniziò a propagarsi dal centro del mio petto. Ebbi paura, una paura assurda. Non sapevo ancora cosa mi stava accadendo. Quello fu l’inizio di tutto.
Mi rialzai di nuovo, determinata a uscire fuori prima di venire scoperta, e radunando tutte le mie forze mi spinsi fino al piano di sotto, trascinandomi lungo la ringhiera delle scale e strisciando sui muri.
Attraversai di nuovo il breve corridoio tra salotto e cucina, verso l’uscita, quindi spalancai la porta e … ancora una volta, il miracolo avvenne.
Non fu il paesaggio di Gongaga ad accogliermi, ma uno più addomesticato, tranquillo e fiorente.
Era un villaggio sì, ma non quello in cui mi trovavo fino a pochi attimi fa.
Lo compresi dalla fattura diversa delle case, dall’atmosfera, e … dagli alberi di accidenmele sparsi qua e là lungo il sentiero di terra battuta che lo percorreva.
Un’espressione sbalordita e incredula si dipinse sul mio volto, la luce nel mio petto si spense.
Banora.
Era … io ero … ero arrivata a Banora. Ancora?
Ma come … come accidenti ci ero riuscita?!
 
 

///Flashback///
 
Ventidue anni dopo la sua partenza dal villaggio natio, non appena Angeal Hewley rimise piede sul suolo di Banora un nugolo di ricordi invase la sua mente, e guardandosi intorno assorto, quasi accecato da tutti quei colori che si scoprì non essere più abituato a vedere, sempre immerso com’era stato nel grigiore cupo e malato di Midgar, ci mise qualche minuto a elaborare ciò che gli era appena accaduto, ritrovandosi nuovamente a terra, proprio di fronte all’entrata del villaggio, il sentiero ricoperto dalle alte cime degli alberi di accidenmele.
Osservò a bocca aperta i nodosi e robusti rami degli alberi che crescevano sempre più carichi di frutti, e tutto gli sembrò esattamente come lo aveva lasciato, quasi come parte di una immortale cartolina, mentre nella sua mente scorrevano le lunghe giornate passate a giocare con Genesis sotto di essi, seduti sulla soffice erba ai lati del sentiero.
Genesis …
Era stata una sensazione strana, essere trasportato proprio da lui fin lì, sulle ali del vento, coi piedi sospesi a diversi metri da terra.
Un shock sentire di alzarsi in volo, stretto nella sua presa, e guardare la sua enorme ala nera sbattere i primi colpi in aria.
 
-Genesis …- aveva mormorato rivolgendogli uno sguardo stupefatto e sconcertato –Cosa sei tu?-
 
Quello era tornato a sorridere, malinconico e quasi addolorato.
 
-Te l’ho detto, Angeal …- era stata la risposta –Un mostro.-
 
Poi era tornato a guardarlo negli occhi e aveva concluso, con un’espressione affranta prima di incominciare a volare via da lì.
 
-Ma la domanda che dovresti farti è … chi siamo noi?-
 
Ci avevano impiegato quasi una settimana a raggiungere Banora da Wutai. Il volo in due stancava, e più volte Genesis aveva dovuto fermarsi a riposare, toccando di nuovo terra.
Ma per tutto quel tempo mentre lo guardava senza essere più capace di dire anche solo una parola Angeal non era riuscito a darsi una risposta, senza neanche comprendere fino in fondo il senso di quelle parole. Più volte Genesis gli aveva sorriso tranquillo, senza aggiungere altro, quasi fosse sicuro che, prima o poi, anche lui sarebbe arrivato a comprendere.
Avrebbe voluto avere la sua stessa fiducia.
 
-Bentornato a casa, amico mio.-
 
La voce del rosso lo riscosse da quei ricordi, riportandolo al presente.
Si voltò. Genesis richiuse la sua ala, sospirando stanco, quindi si guardò intorno nostalgico e infine si sedette a terra, proprio sotto uno di quegli alberi, appoggiò la schiena al suo tronco e toltosi un guanto affondò la mano nei suoi capelli arruffati dal vento e sudati, per poi riportarla atterra accanto a sé e raschiando con le dita la terra nuda e morbida sotto di esse, buttando indietro la testa ed emettendo un lungo sospiro mentre chiudeva gli occhi.
Affannava alla ricerca di aria.
 
-Sei stanco?- gli chiese dunque Angeal, preoccupato, avvicinandosi.
 
Quello tornò a guardarlo e a sorridere, sforzandosi con tutto sé stesso di farlo il più serenamente possibile.
 
-Sei pesante da portare …- scherzò –quasi più della tua spada.-
 
Angeal seguitò ad osservarlo, sempre più confuso e dispiaciuto.
Tutto era così … maledettamente cambiato, in pochi giorni. O magari senza che lui se ne fosse accorto era avvenuto l’evento più folle e pazzesco del mondo: Il tempo era tornato indietro, ma loro continuavano a crescere.
E, quasi senza che lo volesse, fu allora che si ricordo di lei, quella strana ragazza piovuta dal cielo.
Forse anche a loro era successa la stessa cosa, rifletté.
Erano stati catapultati nel passato, o forse …
Fermò i pensieri, imponendosi autocontrollo ma riuscendoci solo per metà. Che stupidate stava pensando? Genesis avevo ragione, forse tutti quegli sconvolgimenti stavano cominciando a farlo diventare matto.
 
-Ho bisogno di riposare.- aggiunse Rhapsodos a quel punto, e quando gli rivolse di nuovo attenzione notò ch’era pallido e aveva la fronte imperlata di sudore.
 
Quasi come una strana, consolatoria coincidenza, una leggera brezza fresca prese a soffiare in risposta a quella sua richiesta, scuotendo appena i fili ambrati dei suoi capelli. Genesis chiuse gli occhi per un attimo, sorridendo e assaporando quel momento di sollievo.
 
-Vuoi che resti con te?- gli chiese, ma l’altro scosse sicuro la testa e rivolgendogli di uno la sua attenzione suggerì, traendo un largo sorso di fiato.
-Gillian … va da lei, chiedile ciò di cui abbiamo parlato.-
 
Angeal rabbrividì.
 
-L’hai vista?- chiese ansioso.
 
Il rosso sorrise e annuì.
 
-Sta bene.- replicò tranquillizzandolo –Va’ …- seguitò ad incoraggiarlo .-Ti aspetto domani sotto all’albero di fronte a casa mia. Prenditi tutto il tempo che ti serve.-
-E tu che farai, nel frattempo?-
 
Seguì un breve attimo di assorto silenzio.
Genesis Rhapsodos, stremato, si diede ancora qualche istante prima di rispondere.
“Rimarrò da solo con la mia mostruosità, porterò dei fiori sulla tomba di quelli che un tempo mi chiamavano figlio.” Pensò amaro, ma ancora una volta evitò di appesantire il cuore già gravato dell’amico con quei suoi melodrammatici pensieri.
Non voleva dargli altri dispiaceri oltre a quelli che sarebbe stato costretto a subire, nei giorni a venire, e poi … non voleva in alcun modo vedere ancora una smorfia di paura o disgusto nei suoi confronti sul viso dell’amico del cuore.
 
-Andrò dai miei …- mentì, consapevole che prima o poi sarebbe stato costretto a dirglielo –Non temere.-
 
Angeal annuì, lasciando andare il fiato.
 
-Non cacciarti nei guai.- sorrise, sforzandosi di non apparire turbato più di quanto già non lo fosse.
 
Lontano da lì, Lazard aveva probabilmente avviato anche le sue ricerche, e tra poche ore o giorni anche lui sarebbe stato considerato un disertore alla stregua di Genesis.
E Zack? Cosa avrebbe pensato di lui?
Tutto questo … tutto questo andava contra la sua idea di onore.
Genesis sorrise e gli scoccò un occhiolino.
 
-Noted.- replicò.
 
Eppure, nonostante tutto, Angeal continuò a restare ancora qualche minuto con lui, fino a che, mosso dai continui incoraggiamenti, se ne andò verso casa sua e il suo destino.
E, poche ore più tardi, il messaggero di Minerva raggiunse il luogo a cui era destinata.
 
///Fine Flashback///
 
Da non crederci. Per l’emozione quasi non mi mancò il fiato.
Come … com’era stato possibile, di nuovo? Guardai le dita delle mie mani e vidi piccole fiammelle spegnersi velocemente sulle punte, e allora ripensai a quel sogno, alle parole della me stessa bambina.
Che centrasse questo?
Era magari, opera della dea?
Non seppi deciderlo, in quel momento avevo solo tanto stupore e tanta paura dentro di me.
Banora.
Come potevo essere a Banora, dall’altra parte del globo?
E soprattutto, quando ero arrivata lì? In che momento della tua storia?
Di sicuro prima che la tragedia si abbattesse anche su quelle case, visto ch’erano ancora intatte e non incenerite dal fuoco.
Un altro sordo dolore al petto, come una fitta dolorosa.
Dalle mie labbra sfuggì un lamento e afferrai di nuovo la stoffa della maglia sul cuore, abbassando il volto e stringendo i denti.
La mia bocca si aprì in un lamento.
 
-Ah!- esclamai dolorante annaspando, e per poco non ricaddi a terra.
 
Fu come essere pugnalata al cuore, o come quando qualcuno rigira il coltello nella piaga.
Ma durò pochissimo, e fortunatamente tornai a respirare.
Sollevata presi ampie boccate d’aria, continuando a chiedermi cosa mi stesse accadendo, e nel frattempo mi voltai a guardare la casa, e mi accorsi che anche quella era cambiata.
Ora mi trovavo in una baracca abbandonata, probabilmente un tempo abitata ma ora spoglia e piena di erba e polvere.
Sul fondo della piccola stanza dormiva una belva dalla pelle viola e dalla coda in fiamme, accucciata sul pavimento. Trattenni il fiato guardandola, temendo che potesse saltarmi addosso, ma non si era accorta neanche minimamente del mio arrivo e questo contribuì al mio stupore e alla mia incredulità.
Scossi il capo, richiusi la porta.
Non è possibile, sto sognando di nuovo.” Pensai, senza considerare che nel mondo in cui ero stata catapultata l’impossibile era soltanto ciò che i tuoi occhi non volevano vedere.
Un sogno? Forse. O forse no.
Ma non potevo starmene lì ferma a guardare quella belva feroce dormire in attesa di scoprirlo, così mi feci coraggio e aprii nuovamente la porta, mi immisi nel villaggio semideserto iniziando a camminare lungo il suo sentiero, tra voli d’insetti e polline, il profumo dell’erba estiva e un silenzio pacifico, mentre una brezza dolce mi accompagnava nel mio cammino spettinando il prato intorno a me e scuotendo le chiome degli alberi, avvolgendomi quasi a farmi coraggio.
Continuai ad avanzare a bocca aperta, e quasi senza che me ne accorgessi un dolore sordo mi circondò il cuore, ed i miei occhi si riempirono di lacrime che iniziarono a rigarmi il viso.
La casa di Angeal, la tua, quella grande e ampia dal tetto in tegole e i muri verniciati di cremisi, il grande albero di banora apple. Li superai tutti, fermandomi soltanto per un breve attimo di fronte alla tomba, proprio sotto a quest’ultimo.
Non caddi in ginocchio soltanto perché una forza misteriosa che mai avrei creduto di trovare in me me lo impedì, ma sentii comunque le gambe tremare paurosamente, e i singhiozzi ricominciarono, il viso rosso fu inondato di nuovo dalle lacrime.
Dunque … ecco il punto della tua storia in cui ero arrivata.
Tardi, visto che avevi già disertato e … ucciso la tua famiglia.
Non riuscivo … neanche a pensarlo.
E l’immagine di te cozzava costantemente contro l’immagine di quei fiori freschi su un paio di cumuli di terra senza nome.
L’avevi … già fatto. Ed io non ero riuscita ad impedirtelo, ero arrivata tardi.
Un dolore che mi lacerò l’animo, ripensando a tutti i giorni inutili che avevo trascorso sola a Gongaga, in attesa del ritorno di Zack, mentre tu soffrivi da solo e in silenzio, lontano da tutti.
Un’altra folata di vento, più forte delle altre, mi riscosse. Alzai il volto verso il cielo, nella speranza che questa bastasse ad asciugare tutte le lacrime e portar via il sale amaro che mi si era posato sulle guance in bocca, e voltando le spalle al sepolcro fu allora che, come un’epifania, ti vidi: Lontano, ma proprio di fronte a me, sulla collinetta che dava le spalle alla fabbrica al centro dell’ampio spiazzo in cui sfociava il sentiero.
Mi mancò il fiato, una mano si strinse sul cuore e l’ultimo singulto ricacciò in dentro l’aria di cui i polmoni avevano bisogno.
Te ne stavi seduto sopra un masso piatto, sotto un piccolo albero di banora white, e assorto osservavi tutto in silenzio, chiudendo ogni tanto gli occhi e riaprendoli velocemente come a ricacciare in dentro il dolore.
Sospirai, strinsi i pugni ed iniziai ad avanzare, decisa a raggiungerti. Mano a mano che avanzavo il mio passo si faceva più veloce e sicuro, le mie gambe ritrovavano forza e la tristezza sul mio volto lasciava il posto ad un sorriso sollevato.
È vero, ero stata lontana e forse non sarei più riuscita a rimediare agli errori che avevi già commesso. Ma avrei ancora potuto salvarti, starti vicino, amarti e consolarti. Abbracciarti.
Era quello che volevo fare, più di ogni altra cosa. Abbracciarti e basta, ripeterti che non era ancora finita.
Ma quando riuscii finalmente ad essere a pochi metri dietro di te, che non ti era ancora accorto di me, ancora una volta rimasi in silenzio a guardarti, rispettosa come un appassionato di fronte alla più bella opera d’arte mai vista prima.
La tua immagine forte, nonostante tutto, si stagliava malinconica e dolce in mezzo al magico sfondo del villaggio natio, Banora, coi suoi tetti di legno, le sue dolci colline e il verde prorompente, i tuoi capelli rossi dai riflessi accesi come il sole risaltavano ancor di più contro il blu intenso del cielo mentre i tuoi occhi verde acqua osservavano le piccole nuvolette che lo solcavano correre veloci verso l’orizzonte e sparire, distanti da tutto e da tutti. Come avresti voluto fare tu, ma le tue ali stanche non avrebbero avuto la forza di condurti là.
Soffocai un singhiozzo, troppo tardi però perché riuscissi a non disturbarti.
All’improvviso ti risvegliasti, alzasti la testa allertato e ti voltasti a guardarmi, colorando i tuoi occhi di stupore.
Tremai.
Quello sguardo, il tuo sguardo.
Stupefancente, ipnotico, misterioso con quei piccoli ciuffi rossi che ricadevano piano a coprirlo. E poi tutto il resto.
Il tuo modo di fare, il tuo corpo avvolto dalla divisa nera e da quel lungo e pregiato soprabito rosso i cui lembi erano ora accarezzati dal vento, la tua postura, dritta, decisa, sicura anche adesso che il degrado la appesantiva un po’.
Estasi.
Ancora una volta rischia di svenire, le lacrime che ricominciarono a scivolare giù dagli occhi e la bocca incapace di mormorare altro che non fosse il tuo nome.
 
- Genesis … - mi lasciai sfuggire, coprendomi subito dopo la bocca con la mano destra, incredula di me stessa.
 
Tu rimanesti lì immobile, continuando a fissarmi come la prima volta, con quello sguardo intenso e severo, stringendo i pugni quasi minaccioso dopo un breve attimo di stupore.
 
- Tu … - dicesti - Che ci fai qui? Come mi hai trovato? -
 
Incalzata, incapace di rispondere, annaspando nel tuo essere. Rimasi muta ancora una volta ripensando a quanto anche soltanto la tua immagine significava per me.
Ora, e anche prima di conoscerti, durante tutti i giorni della mia esistenza … tu sei il mio tutto, tutta la mia vita riassunta in uno sguardo.
Qualcosa capace di sopraffare chiunque.
Le mie paure, le mie gioie, le mie ansie, i miei dolori, le mie mille domande. Il mio modo di vedere e vivere, la mia passione per la scrittura, l’arte, la religione.
Tu sei … uguale a me. Sei me.
E sei anche dannatamente bello, da mozzare il fiato.
Ma adesso pretendevi una risposta, ed era anche giusto che fosse così. Non avresti potuto scappare, eravamo l’uno di fronte all’altro in una situazione senza via di uscita.
Scossi il capo, cercando di calmarmi e riprendere fiato.
 
- Non … - mormorai, senza riuscire a finire la frase.
 
Mi guardasti ancora per qualche istante, sospettoso, ed io ringraziai il cielo per l’ennesima folata di vento che mi sfiorò, perché soggiogata annaspai alla ricerca d’aria mentre la temperatura del mio corpo continuava a salire, salire, vertiginosamente, e qualcosa dentro di me cambiava, si muoveva.
Passione? O soltanto semplice timidezza?
La mia mente corse a qualche anno prima, mi ricordai di quel ragazzo di cui mi ero follemente innamorata ai tempi del liceo. Un inseguimento senza nessuno scopo, un amore non ricambiato e stancante, sfibrante. Alla fine la mia autostima ne era uscita pesantemente lacerata, e avevo capito che per tornare ad essere me stessa davvero avrei dovuto smettere di correre e imparare ad amarmi, prima di amare qualcun altro.
Con te, all’inizio, tutto tornò. Forse non avevo ancora imparato a scegliere l’uomo giusto per me, ancora non avevo smesso di correre dietro ai cuori di pietra.
Sapevo e so che non lo sei, non lo sei mai stato. Ma quando ti comportavi in quel modo era davvero difficile guardare oltre le apparenze, soprattutto dato il periodo di forte confusione che stavo attraversando. Ecco perché la dolcezza di Zack aveva fatto breccia nel mio cuore. Mi faceva sentire al sicuro, invece il tuo astio e la tua passionalità, seppur simile alle mie, mi spaventavano e mi tarpavano le ali.
Ghignasti, quasi sprezzante.
 
- Non vorrai di nuovo dirmi che non lo sai. - mi rimbeccasti.
 
Sollevai i miei occhi dentro i tuoi, smisi di piangere e sostenni il tuo sguardo con coraggio.
Strinsi i pugni. Cosa dovevo risponderti?
Non mi avresti creduto comunque, ma continuai a guardarti lo stesso lasciando che fossero i miei occhi a parlare per me.
Non credesti neppure a loro, e con una smorfia sbruffasti e tornasti a schernirmi, indicandomi con un cenno del capo.
 
- Ecco un’altra pedina del Presidente. -

Subito dopo, senza neanche darmi tempo di risponderti, mi scagliasti contro un globo infuocato dalla mano destra.
 
- No! - urlai, il cuore che mi rimbalzò in gola battendo all’impazzata, distogliendo lo sguardo, chiudendo gli occhi e incrociando le braccia davanti al viso quasi come se soltanto questo bastasse a proteggermi.
 
Chiunque, inclusi tu ed io, avrebbe saputo che quel banale gesto non sarebbe bastato a salvarmi.
Proprio per questo entrambi rimanemmo sorpresi a fissarci quando ci accorgemmo di ciò che era appena accaduto: Non solo non mi era successo nulla, ma … avevo chissà per mezzo di quale arcano potere creato una barriera magica che mi aveva protetto dal tuo attacco, lasciandomi indenne.
Trattenni il respiro osservando meravigliata il bagliore bluetto della barriera che velocemente si dissolveva.
Ecco un’altra di quelle cose che non riuscivo a spiegarmi. Questa però era ancora più evidente, ed era apparsa proprio davanti ai tuoi occhi.
Cosa … come … c’ero riuscita?
E … se avevo fatto questo, chissà cos’altro sarei stata capace di fare.
Cos’altro mi era accaduto durante al viaggio dalla mia dimensione alla tua?
Era diventata … una SOLDIER?
Alzai gli occhi di nuovo sui tuoi, specchiandomici quasi, e ripensando alla mia immagine nello specchio del bagno di casa di Tseng.
L’assenza di bagliori Mako nei miei occhi sarebbe bastata a scongiurare questa ipotesi?
Mentre me lo chiedevo, struggendomi e affannandomi a ricercare una risposta al più presto, all’improvviso tu avanzasti veloce verso di me, portandoti a pochi centimetri davvero dal mio viso, mi afferrasti il polso destro con la tua mano guantata di pelle color porpora e fissandomi ringhiasti, pretendendo una risposta.
 
- Come diavolo hai fatto, ragazzina? Cosa sei? Da dove vieni? -
 
Senza riuscire a staccare gli occhi dai tuoi, sopraffatta dalla vicinanza e dall’intensità del momento, lanciai un rapido sguardo prima alle mie mani, incredula, poi di nuovo tornai a sostenere il tuo e risposi, supplicante e disperata scuotendo il capo.
 
- Io non lo so, Genesis … - la voce tremula, quasi sull’orlo delle lacrime - Non lo so, credimi! -
 
Mi respingesti, scacciandomi nervosamente lontano esattamente sul ciglio della collina dove prima stavi tu. Ricominciai a piangere in silenzio, mentre ti osservavo sospirare spazientito e tornare a fissarmi con astio.
 
- Non lo so più cosa sono, io non riesco a capire cosa accidenti mi stia accadendo! - sbottai, tornando a piangere mentre seguivo a voce alta il filo scoordinato e confuso dei miei pensieri - Né perché sono piombata qui, dal mio mondo! Io non sapevo nemmeno di riuscire a fare … - gli mostrai le mani, tremanti - Questo! Tutto quello che ti ho detto fino ad oggi è vero! Tutto vero, io non ho la più pallida idea di che cosa devo fare adesso! -
 
Avevo la gola in fiamme quando finii di urlarti contro la mia agitazione. Ardente come tutto il resto del mio corpo, invaso da un calore innaturale che si propagava dal cuore e imperlava la mia fronte di sudore e di una carica di energia mai provata prima.
Tu restasti in silenzio ad ascoltarmi, pian piano la rabbia sul tuo volto scomparve per lasciar posto dapprima allo stupore e poi, sempre più chiaro, ad un bagliore di amorevole comprensione che trasformò i tuoi occhi e colorò le tue labbra avorio di un sorriso.
Era come se avessi all’improvviso compreso ogni cosa, come se un pensiero fosse giunto a darti la rivelazione, ma io ancora non riuscivo a decifrarla.
Di nuovo, inaspettatamente prendesti ad avanzare verso di me, ti avvicinasti con calma e infine stringendomi le spalle mi guardasti dritta negli occhi carico di speranza e disperazione. Le stesse che si riflessero nei miei occhi non appena mi accorsi che il vento stava cambiando.
 
- Valery … - mormorasti.
 
Rabbrividii, chiudendo per un attimo gli occhi e deglutendo a vuoto.
Il mio nome. Sorrisi appena, confortata.
“Dillo ancora, ti prego. Dillo di nuovo, il mio nome. Dillo per sempre … Genesis.”
Ora che i tuoi occhi erano inchiodati così a fondo nei miei. Adesso che le tue mani mi stringevano, e che potevo sentire forte la tua presenta, averti davvero accanto e non attraverso lo schermo di un dispositivo elettronico a dividerci …
Ora più che mai avevo bisogno di sentire la tua voce, calda e melodiosa, che mi aveva sempre infuso calma e serenità dalla prima volta in cui l’avevo sentita.
Era il mio calmante, il mio elisir.
Quando avevo bisogno di riposo, di distendere i nervi e pensare ad altro, mi chiudevo nella mia stanza e ascoltavo con le cuffie nelle orecchie Loveless dalla tua voce. Incantato, melodico, armonioso meglio della più bella delle sinfonie. E tutte le volte inevitabilmente mi ritrovavo a sorridere, come in quel momento.
La tua voce faceva parte del divino incanto che era la tua esistenza, e adesso sentirla decantare il mio nome come fosse parte di quei versi magici da te tanto amati …
Era ciò di cui avevo bisogno per dimenticare la verità e fare un sogno la mia realtà.
Mi chiamò di nuovo, più sommessamente stavolta.
 
- Guardami. - mi ordinasti dolcemente.
 
E quando lo feci, come risvegliandomi da un sogno, con una luce diversa negli occhi, quasi sognante, invasa dalla speranza, i tuoi occhi mi comunicarono ciò che tu ancora non avevi nemmeno avuto la forza di dire.
Un moto di fastidio (o forse era paura), mi coinvolse senza che riuscissi neanche a spiegarmelo.
Mi ribellai, prendendomela con me stessa, ti respinsi e mi voltai a guardare la vallata voltandoti le spalle. Sopraffatta.
 
- Io non sono il tuo dono della Dea! - sbottai - Sono soltanto una ragazza disperata quanto te … che probabilmente … è destinata a rimanere qui per sempre. -
 
Fu come sentire il cuore spezzarsi in petto.
Seguii un lungo istante, in cui mi chiesi il perché di tutto questo. In fondo dalle tue labbra non era uscita parola, non avrei dovuto spiegare o aggiungere nulla, ma … perché avevo sentito il bisogno di farlo invece? Cosa mi aveva spinto a dire quelle frasi che neppure io comprendevo appieno?
Il vento scosse leggero l’erba folta del prato intorno a noi, e mentre cercavo con ogni mezzo di frenare i singhiozzi sempre più violenti e di riprendermi da quella profonda tristezza che di nuovo mi aveva sopraffatto, di nuovo udii i tuoi passi felpati venire verso di me, attutiti dalla terra sul quale camminavi e mescolati al lento frusciare del vento tra le foglie, fino a che non fosti di nuovo dietro di me.
D’improvviso il calore si fece di nuovo molto più forte. Ti sentii, vicinissimo, ma nonostante tutto continuai a rimanere in mobile, gli occhi chiusi e i pugni stretti in una morsa isterica.
 
-My friend … - iniziasti, e una lacrima sfuggì al mio controllo arrendendosi alla solennità del momento - Do you fly away now, to a world that abhors you and I … -
 
Poi, inaspettatamente e senza che io riuscissi neanche a realizzarlo, mi spingesti giù, lanciandomi nel vuoto.
Urlai di nuovo, e ciò che doveva succedere accadde. Il fuoco divampò su tutto il mio corpo durante la discesa. Pregai di non morire, la paura si appropriò di me facendomi quasi impazzire e i pensieri si affollarono nella mia mente.
Perché l’avevi fatto?
Lo capii solo dopo, quando riuscii nuovamente a toccare terra. Ma nel frattempo il dolore al petto si fece così intenso da indurmi ad urlare, sembrò quasi che la mia anima stesse bruciando in mezzo al fuoco dell’inferno. Un grido si mescolò al mio, acuto, simile a quello di un'aquila, mi graffio la gola e qualcosa come una luce brillante si staccò dal mio petto. Svenni senza vedere quello che successe dopo, per poi rinvenire a pochi metri da terra, risvegliata da un’irradiante luce che fece esplodere il giorno nella mia mente e tutto intorno a me.
Qualcosa si spalancò alle mie spalle, riversando la sua ombra avvolgente sul terreno sottostante, e tutto il mio corpo ardente sembrò riacquistare vitalità mentre planavo piano, appoggiando dolcemente i piedi a terra, e cadendo subito dopo all’indietro, trovando le tue mani a sorreggermi.
Mi sentivo … confusa.
Stanchissima … ma in pace.
Perfino le palpebre faticavano a rimanere aperte, ma quel poco che fecero fu sufficiente per permettermi di vedere l’espressione del tuo viso luminosa e sbalordita, il tuo sorriso, e le mie mani sulle tue spalle forti.
Mi avvolgesti i fianchi, fissando un punto alto dietro la mia schiena e poi restituendomi lo sguardo.
 
- C-cosa ... - mormorai stanca - Cos’è successo? -
 
Tu continuasti a sorridere, poi tenendomi ancora stretta mi aiutasti a sedermi, e infine ti facesti da parte, indicando con un movimento della mano l’ombra di fronte a me.
La fissai, confusa.
Non capisco …
Sembravo io. Anzi, no ... ero io, visto che anche lei era seduta.
Ma … cos’erano quelle due sporgenze morbide che si protendevano verso l’alto e si muovevano frementi, scosse dal vento?
Ci misi un po’ a capire, guardandolo osservarmi con un sorriso quasi commosso.
L’epifania l’ebbi solo quando guardandomi le spalle scoprii che non erano più nude, ma da esse partivano alti tese piumate che si ergevano contro il cielo azzurro, dando l’impressione quasi di sfiorarlo.
Ali.
Quelle erano … ali.
Maestose, forti, grandi!
Una bianca, l’altra nera. Entrambe infuocate.
Le mie …
Le mie nuove ... ali.
Il fulcro del mio presente, e un cielo azzurro in cui edificare il mio radiante futuro. Il nostro futuro.
Forse non avrei mai saputo della loro esistenza se non fosse stato per te.
(Continua ...)

 

   
 
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