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Autore: virgily    14/10/2017    0 recensioni
Cacciò un piccolo gridolino aggrappandosi ai propri capelli: cominciava a vedere sfocato e per un attino le parve di non essere più in quella camera di albergo. Respirava a fatica, e se chiudeva gli occhi le sembrava che tutto attorno a lei stesse girando, sebbene non riuscisse a vedere proprio nulla.
Poi, improvvisamente, un flash la colpì con una tale violenza da farla sobbalzare tra le braccia dell'agente speciale della FBI. Durò pochissime frazioni di secondo che, tuttavia, le parvero una eternità. Inesorabilmente, con il cuore in gola e il fiato sospeso, Daphne Collins rivide tutto: la casa era stata messa a soqquadro; sua madre era stesa a terra, immobile e rigida sul pavimento bagnato del suo stesso sangue, mentre un'ombra scura torreggiava immensa sopra di lei. Qualcosa le aveva colpito un piede, e quando ebbe il coraggio di guardare mise bene a fuoco, e distinse nitidamente una mela, rossa e lucida, segnata da un piccolo morso.
Genere: Azione, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Spencer Reid, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Cap. 2 - Ritrovarsi, alle volte, equivale a perdersi
È proibito non essere te stesso davanti alla gente,
fingere davanti alle persone che non ti interessano,
essere gentile solo con chi si ricorda di te,
dimenticare tutti coloro che ti amano.
È proibito non fare le cose per te stesso,
avere paura della vita e dei suoi compromessi,
non vivere ogni giorno come se fosse il tuo ultimo respiro.
È proibito sentire la mancanza di qualcuno senza gioire,
dimenticare i suoi occhi e le sue risate
solo perché le vostre strade hanno smesso di abbracciarsi.
(Pablo Neruda)
 
 
Quel giorno, a Spencer sembrò di perdersi. O meglio, di perdere ogni conoscenza; ogni sentimento. Erano state poche parole di sua madre a farlo sprofondare nell’abisso dei suoi più cupi pensieri: “Helen e sua figlia se ne vanno”.
Per qualche secondo pensò di non averla ascoltata veramente. Come se le parole gli fossero entrare dall’orecchio sinistro, trapassandogli il cranio con una facilità mostruosa, per poi riuscire integre e prive di significato dal suo orecchio destro.
Senza dire nulla, il ragazzo ci mise poi pochissimi secondi ad attraversare il vialetto di casa sua, calpestando con foga il prato curato e verdeggiante della villetta di fronte.
Era stato accolto dalla madre di Daphne con un sorriso sereno e comprensivo, e tutto quello che i suoi grandi occhi indagatori riuscirono a scrutare furono solamente una miriade indefinita di scatoloni impalati l’uno sull’altro su diverse file ordinate. Quella era la prova inconfutabile della veridicità delle parole di sua madre… Eppure, ancora non riusciva a capire.  
-Signora Collins posso farle una domanda?- domandò schiarendosi appena la gola, come per cercare di mantenere un finto contegno che, sapeva, di lì a breve lo avrebbe fatto annegare in un pianto isterico.
-Certo mio caro, chiedimi pure..- sollevando ulteriormente gli angoli delle labbra in un piccolo sorriso, la giovane donna di fronte a lui si era poggiata comodamente sul divano nel mezzo del salotto, osservandolo con occhi talmente eloquenti che, con una sola e misera occhiata, parevano aver già compreso tutte le sue frustrazioni.
-P-Perché ve ne dovete andare?- aggiunse il ragazzo, immediatamente abbassando lo sguardo. Si fissò per secondi estenuanti le punte sporche delle sue converse scure, sperando con tutte le forze che quello che avrebbe sentito, finalmente, avrebbe portato un po’ di conforto alla sua mente sovraccarica di sensazioni contrastanti. 
-Purtroppo mi hanno trasferita- sospirò appena, con dolcezza -Sai, non sono un’infermiera ma soltanto un’operatrice. Vado dove c’è bisogno di me…- aggiunse poco dopo, cercando di scrutare il ragazzino di fronte a lei: quel buffo genio che da poco più di un anno era riuscito a stringere un legame quasi simbiotico con la sua unica figlia, riportandole il sorriso.
Non amava vederlo così, ma non poteva fare altrimenti.
-Se ti può consolare anche Daphne non vuole partire. Non posso biasimarla. Sei il suo unico vero amico dopo tanto tempo…- disse osservandolo cominciare a carezzarsi le mani con fare agitato e nervoso, come se proprio non riuscisse a starsene fermo sul posto. E del resto era proprio così. La sua mente viaggiava ad una velocità che non sarebbe riuscito a spiegare, e onestamente l’imbarazzo che stava provando in quell’esatto momento non migliorava la sua posizione. Non sapeva più cosa provare, se non un grande vuoto dentro che sembrava divorargli le membra. L’unico pensiero che riusciva veramente a razionalizzare riguardava Daphne.  
-Va da lei…- gli ordinò allora la signora Collins con un ghigno bonario sul viso:
-Salutatevi con calma-
E non se lo fece ripetere due volte. Il suo passo inizialmente fu veloce e ben cadenzato, rintoccando sui gradini delle scale a ritmo regolare, per poi arrestarsi di fronte a una piccola porticina chiara proprio all’imbocco del piano superiore. Sentì un lieve singhiozzo, e il suo cuore perse immediatamente un battito. Senza neanche bussare, entrò nella camera della sua migliore amica lentamente, quasi trattenendo il fiato. Pur essendo pomeriggio ormai inoltrato c’era poca luce, ma questo non lo stupì più di tanto: quando era di cattivo umore, Daphne tollerava poco la luce. A suo dire, la ragazza somatizzava tutte le sue ansie e le sue frustrazioni sulla testa, causandosi delle fortissime emicranie.
Avvicinandosi con la massima cautela la ritrovò a pochi metri da lui, stesa in posizione fetale all’angolo del suo letto: gli dava le spalle e sebbene la luce fosse molto fioca, per Spencer non fu affatto difficile scorrere lo sguardo sulla sua sinuosa silhouette. I capelli, folti e corvini, erano sparpagliati disordinatamente sul suo cuscino, lasciandogli intendere che era ormai molto tempo che si trovava lì, e che ancora faticava a trovare una posizione comoda.
Per un decimo di secondo, per lui fu inevitabile pensare a quanto fosse bella anche così, per la prima volta totalmente distrutta di fronte ai suoi occhi. La sentì poi singhiozzare ancora una volta, e quasi meccanicamente il castano la raggiunse:  
-Daph… stai piangendo?- la voce gli uscì a fatica. Era confuso, forse anche spaventato. Non l’aveva mai vista in quello stato: a differenza sua, lei era una tipa tosta, una di quelle che non aveva paura di battersi con chi era più grande di lei perché era orgogliosa e testarda di natura, e alle volte anche fin troppo.
-N-No!- strillò la mora senza muoversi- Io no piango mai l-lo sai…- aggiunse subito dopo, muovendosi come se stesse cercando di coprirsi il viso per negare l’evidenza. Il ragazzo non le rispose, si limitò ad arrampicarsi sul suo lettino, coricandosi proprio al suo fianco. Il suo odore ora era decisamente più intenso: un misto di fiori e alloro, un profumo al quale si era ormai abituato e che difficilmente avrebbe rimosso dalla sua mente. Pensò subito al suo imminente trasferimento, e quel vuoto che sentiva nelle membra si dilatò ulteriormente di qualche centimetro. 
-Non voglio andare via Spence…- sussurrò lei in un flebile respiro, senza mai voltarsi contro di lui. Sentiva i suoi occhi puntati contro la nuca, e per la prima volta ebbe il terrore di guardarlo in viso. Spencer era la sua unica debolezza, l’unica persona con cui non aveva avuto paura di aprirsi, di confrontarsi. E la consapevolezza di perderlo fu come una coltellata nel petto.
-Allora non farlo…- meccanicamente, il castano avvolse la ragazza in un abbraccio, stringendola al suo petto non appena riaprì bocca:
-Resta con me…- e alle sue parole, Daphne sentì le lacrime rinnovare i solchi invisibili lungo le sue guance.
-Le nostre madri non lo permetterebbero- rispose frettolosamente, pulendosi gli occhi alla buona con le maniche della sua felpa scura.   
-Perché no?-
-Perché sono madri. Una non lascerebbe mai un figlio e l’altra certo non glielo porterebbe via. Lo sai. Sei tu quello intelligente fra i due- ribatté la moretta cercando di trattenere i singhiozzi. Pur essendo un vero genio in qualsiasi ambito riuscisse a venirle in mente, quando ci si metteva quel ragazzo sapeva essere anche più ingenuo e testardo di lei. Questo in realtà le piaceva da impazzire, ma non aveva mai trovato il modo di dirglielo, e in quell’esatto momento cominciò a temere che non glielo avrebbe detto mai.
-Anche tu lo sei: intelligente… coraggiosa… bella…- erano parole che si era abituata a sentire uscire dalla sua bocca. Tutte tranne che era bella. Questo quasi la fece sobbalzare nel tentativo di voltarsi contro di lui. E lo fissò dentro i suoi grandi occhi scuri per minuti interminabili.
Spencer Reid era uno di quei ragazzi che amavano gli scherzi ben studiati, ma quello decisamente non lo era: lo capì perdendosi nel profondo delle sue iridi, proprio in quel punto in cui i suoi occhi nocciola assumevano una lieve sfumatura verdognola.  
-Scemo…- sogghignò visibilmente in imbarazzo, abbassando improvvisamente lo sguardo mentre, con la mano stretta a pugno, picchiettava sulla sua spalla sinuosa e snella:
-Anche tu sei coraggioso- gli confidò subito dopo, tornando a cercare il suo sguardo che, di tutta risposta, le espose un sopracciglio innalzato contro l’alto in segno di sorpresa:
-Non mi risulta…-
-Si, invece. Sei mio amico, e già questa è una cosa coraggiosa- Daphne questa volta prese posizione, avvicinandosi quel tanto che le bastava per nascondersi nel suo petto. Pur irrigidendosi di colpo, Spencer la lasciò fare senza controbattere, accogliendola a braccia aperte in un caldissimo abbraccio che lo fece sciogliere in breve tempo attorno al suo corpo.
-Quello che gli altri ragazzi dicono di te è falso. E tu lo sai- Ora che ci pensava, non erano mai stati così vicini, e questo aumentò il ritmo irregolare del suo cuore. La mora riuscì a sentire il suo battito perdere un colpo, e impulsivamente sorrise.
Poi però ripensò a tutte le volte che si era messa nei guai, a tutte le volte che le sue coetanee la guardavano in modo strano, come se non fosse come loro.
Come se fosse diversa solo perché non voleva farsi mettere i piedi in testa da nessuno.
Come se volersi difendere ad ogni costo dai bulli fosse sbagliato. S’incupì prima ancora di finire questo pensiero.
-No Spence. Credo di avere veramente i mostri dentro…- fu tutto quello che la ragazza riuscì a dire… e la presa del castano, inesorabilmente, si fece più forte.
-Come farò senza di te?- le domandò improvvisamente, spezzando quel breve silenzio che li aveva abbracciati per qualche misero istante.
-Dovrai essere forte- disse lei, senza neanche pensarci: -E non permettere a nessuno di farti del male. Perché tu sei migliore di tutti gli altri. Me lo prometti?-
-Sarà difficile…- confessò lui, carezzandole i capelli, arricciandoli appena attorno alle sue dita sottili.
-A me basta che ci proverai…- sollevandosi dal suo caldo nascondiglio, Spencer si perse per qualche secondo negli occhi verdi e profondi della ragazza, sentendosi le guance cominciare ad ardere dall’imbarazzo. Era uno sguardo intenso, uno di quelli che sembravano spogliarlo e scomporlo in piccoli pezzi. Un’occhiata che lo faceva sentire forte ma al contempo inerme.
-Voglio darti una cosa…- scostandosi appena, la moretta ci mise qualche secondo buono per scendere dal suo lettino. Sciogliere quell’abbraccio non era stato per niente facile, e per qualche istante Spencer sentì freddo. Tuttavia rimase immobile seduto sul suo giaciglio, seguendola con gli occhi mentre si avviava verso la libreria addossata dall’altro lato della camera. La vide indugiare di fronte a diversi titoli impolverati. Poi, con tutta sua sorpresa, afferrò un piccolo libricino consumato, dalle pagine giallastre. Ci mise pochi secondi per riconoscerlo, e quando la mora gli porse la sua copia delle fiabe originali dei fratelli Grimm, si sentì risucchiare da quel vuoto invisibile dentro la sua cassa toracica:
-Daph, non posso accettarlo. È il tuo libro preferito…- affermò frettolosamente, cercando invano di restituirglielo,
-Appunto- disse lei, afferrandogli le mani per bloccarlo:
-So che non è il tuo genere, ma quando avrai voglia di leggerle potrai pensare a me- un piccolo sorriso si disegnò sulle sue labbra carnose. Fu proprio quella sottile curvatura a far scattare qualcosa dentro la testa del giovane Spencer. Qualcosa che, per qualche istante, bloccò saldamente quella sensazione di vuoto cosmico che sembrava mangiargli dentro.
-Anche io voglio darti una cosa…- disse, con una serietà che lasciò la moretta di fronte a lui interdetta e confusa. Allora chiuse lentamente gli occhi, non sapeva esattamente il perché, ma istintivamente sentiva che il suo corpo le stava mandando un segnale al quale non poteva sottrarsi. E proprio come in attesa di una sorpresa, il suo cuore cominciò a battere forte quando, con un gesto del tutto timido e impacciato, sentì le labbra di lui premere piano sulle sue. Non aveva mai pensato al suo primo bacio. Eppure, in quell’esatto frangente, quando la bocca di Spencer sostò morbida sulla sua, si sentì leggera e, finalmente, spensierata. Quando percepì che si stava staccando da lei, immediatamente riaprì gli occhi, scrutandolo con attenzione: le sue guance si erano fatte paonazze, aveva gli occhi lucidi e faticava persino a guadarla in viso per l’imbarazzo. Eppure, sebbene fosse stato un primo approccio assai incerto, Daphne capì che in realtà non aveva desiderato altro fin dal loro primo incontro.
Spencer fece per dire qualcosa, stringendo il libro al petto usandolo quasi come uno scudo mentre si grattava sbadatamente la nuca, ma Daphne non gli lasciò il tempo di dare fiato alla bocca, impossessandosene con foga mentre con la lingua gli schiudeva appena le labbra. A differenza del primo, questo fu più spavaldo, più intenso e coinvolgente.
Per la prima volta si assaggiarono e scoprirono l’una il sapore dell’altro. Il vecchio libro di favole cadde a terra provocando un piccolo tonfo che accompagnò i movimenti del ragazzo, ora più fluidi e spontanei, che le avvolse i fianchi con un vigore che non aveva mai mostrato prima. E se si concentrava, poteva riuscire ad ascoltare i suoi respiri farsi sempre più irregolari.
-M-mi batte forte il cuore…- sussultò la mora, senza più fiato, scostandosi appena da lui quel tanto che le bastava per riprendere aria e, al contempo, accoccolarsi nuovamente al suo petto.
-Anche io ho la tachicardia- ammise il castano con un sorriso sghembo:
 -Ma credo sia normale. Ho letto uno studio secondo cui al variare dell’intensità e della durata di un bacio possono variare anche le quantità di ossitocina e cortisolo in circolo, provocando un aumento del battito cardiaco e…- temendo che, come suo solito fare, il suo piccolo genio prendesse una tangente indesiderata, la moretta lo baciò un’altra volta, solamente per farlo tacere e rimetterlo a proprio agio.  
-Promettimi che tornerai- sussurrò allora il ragazzo fra le sue labbra, mordendogliele piano come per provocarla dispettosamente:
-Anche solo per venirmi a trovare-
-Spence…- se avesse potuto, Daphne non sarebbe mai partita, soprattutto dopo quello che era appena successo. Ma doveva, anche se avvertiva una brutta sensazione ogni volta che doveva trasferirsi, e non era legata solamente al lavoro di sua madre. Era una sensazione strana, pericolosa. Ma non ebbe il coraggio di parlargliene, e questo perché sentiva che, probabilmente, rivederlo sarebbe stato difficile. Sentì una scossa elettrica percuoterla tutta, e una fitta acuta all’altezza del petto.
-Non puoi uscire dalla mia vita così Daph. Non ora- Spencer scandì bene le ultime due parole, e la serietà nel suo sguardo fece intendere alla moretta che la lontananza da quel ragazzo probabilmente l’avrebbe devastata.
-Va bene. Te lo prometto-
***
“Te lo prometto” tre parole che Spencer si era ripetuto per anni e che, oramai, avevano perso di significato. Incassato sul suo sedile, con lo sguardo sperso nel vuoto al di là di un finestrino che mostrava una solitaria distesa di nuvole bianche, il giovane dottor Reid aveva ripensato al loro addio e, inevitabilmente, a quel maledetto bacio che non aveva fatto altro che tormentarlo. Pensava sinceramente di essersi liberato di quel vuoto che voleva a tutti i costi attanagliarli lo stomaco. E invece, suo malgrado, dovette rendersi conto che il malessere non se ne era mai andato. Si era solamente nascosto, preparandosi per tirargli un nuovo agguato. 
-Quindi le autorità hanno capito chi era il colpevole ma ci hanno chiamati solo adesso?- Domandò Emily posizionandosi sul sedile vicino al finestrino mentre JJ si accomodava al suo fianco, posizionando sul tavolo innanzi a loro diverse cartelle contenenti tutti i file disponibili sul caso.
-La polizia pensava di averlo in pugno ma è sparito assieme alle tre ragazzine che ha rapito- affermò di rimando Hotchner mentre con fare ansioso cominciava a rovistare fra le pratiche.
-Magari voleva prendersi gioco delle autorità… - disse la nuova arrivata attirando in un attimo l’attenzione dell’intera squadra su di sé:
-Pensateci: lascia fibre e piccole tracce di DNA su ogni scena del crimine, e inoltre non ha avuto neanche lo scrupolo di nascondersi dalle telecamere di servizio degli stabili adiacenti ai parchi dove ha prelevato le ragazze. Guarda caso quando la polizia arriva a lui sparisce nel nulla con le sue vittime…- il giovane dottore l’aveva osservata con grande attenzione, ma in realtà il suo cervello non aveva ascoltato neanche una parola del suo discorso. Al contrario, i suoi occhi si erano puntati con avidità sul suo ovale pallido, e tornando indietro di anni, si era inevitabilmente ritrovato a fare il paragone fra lei e quella ragazzina che un tempo gli aveva letteralmente aperto una voragine nel petto. E sebbene la sua memoria eidetica fosse di una precisione impeccabile, gli parve comunque di guardarla per la primissima volta: i capelli erano più lunghi, mossi e assumevano una sfumatura rossastra al variare della luce. Le sue iridi invece, grandi e luminose avevano ancora quell’intensità sfuggente che sapeva fargli venire la pelle d’oca.   
-A che cosa stai pensando?- non gli fu affatto difficile riconoscere la voce calda e vellutata di Derek, che con un velo di malizia, ora l’osservava di sottecchi con suoi grandi occhi scuri e guardinghi.
-Reid?- dovette chiamarlo una seconda volta, distraendo anche gli altri dal loro lavoro.
-Eh?, oh… nulla. Scusatemi…- sentendosi in evidente disagio, il castano si alzò frettolosamente, raggiungendo ad ampie falcate il divanetto sul fondo dell’aereo, isolandosi in uno dei suoi amati trattati tecnici che, come consuetudine, non lasciavano mai la sua borsa di pelle. Daphne, dal canto suo, non riuscì a fare a meno di notare come il giovane, nel suo tentativo di allontanarsi con nonchalance dal resto del gruppo, non avesse esitato a lanciarle un piccolo sguardo che per lei fu del tutto indecifrabile. Capire che fosse arrabbiato era stato anche fin troppo facile eppure, in quel brevissimo istante, la mora non vide alcun segno di rabbia in quell’occhiata fugace ma piuttosto ci vide malinconia, rammarico. Capì che forse anche lui stava ripensando al passato: ai pomeriggi sul divano a guardare il Doctor Who mangiando donuts ricoperti di glassa al cioccolato con i confetti; alle lunghe passeggiate verso mete indefinite, ai segreti scambiati di notte… al loro primo bacio.
Al solo ricordo sentì il suo stomaco stringersi, e non riuscì ad evitare di sentire un lungo brivido scuoterle tutta la colonna vertebrale. Inevitabilmente si convinse che doveva parlargli o, almeno, che doveva provare a scoprire se avesse mai letto le sue lettere.
Non appena raggiunsero la giusta quota, la mora slacciò la cintura di sicurezza cercando di raccogliere tutto il suo coraggio, e senza dire nulla si avviò con decisione verso il suo giovane collega, fingendo di ignorare le occhiatine loquenti e malevole che Prentiss e Morgan si scambiarono non appena li superò.   
-Posso sedermi qui?- gli domandò arrestandosi proprio innanzi a lui, aspettandosi che sollevasse lo sguardo da quel mattone di migliaia di pagine che stringeva fra le lunghe dita affusolate.  
-Non vedo perché non dovresti…- rispose seccamente, senza neanche degnarla di uno sguardo. Daphne si morse appena il labbro roteando appena gli occhi contro il soffitto foderato del jet, prima di posizionarsi con cautela al suo fianco. Doveva trovare una valida strategia per cercare di innescare un dialogo, altrimenti poteva dire addio a quel briciolo di speranza che, per anni, non aveva fatto altro che cercare di mantenere in vita.
-Ti trovo bene…- sussurrò piano, schiarendosi la gola… come se fosse effettivamente imbarazzata di tutta la situazione che si era venuta a creare.
-Anch’io-  ancora una volta, Spencer si rifiutò categoricamente di sollevare gli occhi da quelle pagine che, in realtà, stava fissando senza il benché minimo interesse. Stava impiegando tutte le sue risorse emotive e cognitive nel tentativo di non mostrarsi agitato, ma dentro sentiva il suo cuore prendere un andamento decisamente incauto e irregolare.
Lei che un tempo era la sua fonte di serenità, ora era riuscita a mettergli un’ansia addosso che non sapeva neanche a spiegare in modo logico e razionale.
Forse era la rabbia a fargli questo.
Forse era il dolore.
Forse era odio.
-Come sta tua madre?- gli domandò allora, spezzando bruscamente quel silenzio che si era venuto a creare fra di loro. E lasciando il dito indice adagiato sulla pagina, Spencer socchiuse nervosamente il suo libro per guardarla dritto negli occhi. Ma a differenza di quegli sguardi dolci a cui era abituata, la giovane Collins restò in balia di una occhiata seria, fredda e al contempo folgorante.
-Che cosa vuoi, Daphne?- le domandò schiettamente, pronunciando con cura e austerità ogni parola. Inevitabilmente, la mora si ritrovò con la gola secca, spiazzata dal suo atteggiamento.
-Come?-
-Cosa vuoi? È una domanda semplice…- questa volta sembrava aver assunto un tono da piccolo genio saputello che la fece sentire profondamente a disagio. Lui sapeva benissimo che cosa volesse, ma pretendeva di sentirlo dalle sue labbra. Esigeva di sentire chiaramente le sue sincere scuse. E dentro di sé, anche se non l’avrebbe ammesso mai ad anima viva, Spencer voleva vederla struggersi per lui. Un po’ per vendetta. Un po’ perché in tutto quel tempo non era stato in grado di immaginarla dispiaciuta per quello che era successo. Certo, non poteva dirlo con certezza, ma la sua paura si era cementata nella sua mente in maniera talmente profonda che, oramai, era diventata una vera e propria convinzione.
-…Parlare con te- fu tutto quello che la moretta riuscì a dire, cercando di modulare al meglio la voce per non fargli vedere che, in realtà, aveva le labbra tremanti.
-Scusami ma sono abbastanza impegnato al momento- era testardo, e Daphne sapeva che non le avrebbe mai dato la soddisfazione di chiedergli scusa tanto semplicemente. Ma lei era orgogliosa e tenace tanto quanto lui, e sapeva bene che non avrebbe mai mollato. Soprattutto ora.
-Finirai comunque quel libro in mezz’ora quindi non vedo il motivo per cui…-
-Te lo ripeto. Cosa vuoi?- la zittì prontamente, portandola ad inarcare un sopracciglio verso l’alto, piacevolmente stupita. Sebbene non fosse cambiato molto, quello che aveva davanti era pur sempre un uomo, e per lei fu difficile ammettere a sé stessa che quel vigore non la lasciò affatto indifferente. 
-Chiederti scusa…- ammise sinceramente cercando di ritrovare il suo contegno. E non abbassò mai lo sguardo dagli occhi di lui. Voleva che la capisse. Questa era la sua massima prerogativa. Ovviamente desiderava anche che la perdonasse, ma intuiva perfettamente che non sarebbe stato facile.
-Per cosa esattamente? Per non essere tornata o per non esserti mai fatta sentire in… quanti? Dieci anni, sette mesi e quindici, no… sedici giorni?- il tono di voce del dottor Reid si era fatto provocatorio, e il suo sguardo sornione le fece ben intendere che non era ancora pienamente soddisfatto.
-Ti ho scritto delle lettere. Molte lettere…- specificò la giovane Collins, questa volta abbassando lievemente lo sguardo.
-Davvero? Che strano io non ho ricevuto nulla. E comunque bastava una telefonata-
-Se avessi potuto lo avrei fatto, non credi?- mentre con un gesto del tutto meccanico provava ad aggiustarsi una ciocca corvina dietro l’orecchio, una smorfia vagamente rassomigliante a un sorriso si dipinse sulle labbra della giovane che, con amarezza, sospirò lentamente.
-No. Non credo proprio- e quella risposta la irrigidì.
Capiva il rancore. La rabbia.
Capiva che volesse fargliela pagare in un qualche modo a lei ancora sconosciuto. Ma ora intuiva anche una sorta di capriccio che, inesorabilmente, la infastidì.
-Spence, ho sbagliato lo so… ma se tu mi ascolta-
-Ho da fare, Daphne. Ci sono delle ragazzine da salvare e adesso onestamente non ho né il tempo né la voglia di parlarne…- la zittì frettolosamente, riaprendo il suo libro per tornare a leggere. In realtà il giovane dottore sentiva le guance ardere e sperò con quel piccolo espediente che la sua collega non se ne accorgesse. Si stava innervosendo, e non avrebbe permesso agli altri della squadra di origliare ulteriormente la loro conversazione. 
-Certo. Come vuoi Reid- dopo qualche secondo di sbigottimento, l’agente speciale Collins si schiarì appena la voce, riacquisendo il suo ruolo distaccato e professionale. Poi, si sollevò dal divanetto aggiustandosi appena la giacca scura del suo completo elegante,
-Fammi uno squillo poi, quando ti passa il ciclo- commentò acidamente con voce seria e austera prima di tornare con ampie fiancate al suo sedile, poco più avanti, accanto a Rossi. Quella provocazione, che certamente non passò inosservata, fece dipingere un buffo ghignetto sulle labbra sottili del castano che, tuttavia, riprese a leggere nel vano tentativo di ritrovare la concentrazione.
Pur non essendo stata una conversazione molto piacevole, Reid comprese che Daphne, in fin dei conti, non era cambiata affatto. Sapeva ancora come farla arrabbiare, e sapeva altrettanto bene che prima o poi non sarebbe più riuscito ad ignorare il fatto che, per quanto potesse detestarla, lui provasse ancora una certa frenesia che nessun termine tecnico sarebbe riuscito a definire.
Era dispiaciuta, ed era sicuro di questo. La sua unica certezza in merito a Daphne Collins era proprio che la moretta non diceva mai il falso. Eppure, la faccenda delle lettere non gli era chiara. Per niente. E questa insicurezza lo irritò al quanto: lui che sapeva sempre tutto, su una cosa così importante ora aveva un dubbio che, effettivamente, poteva rimettere in discussione anni della sua vita.
Nel frattempo, a pochi metri da lui, Derek, JJ e Prentiss si guardarono silenziosamente in modo complice e tutt’altro che ingenuo:
-Ho davvero sentito Reid e ciclo nella stessa frase?- sogghignando, Morgan rivolse uno sguardo sottile alle due donne di fronte a lui:
-Credo proprio che ci sarà da divertirsi qui…- gli rispose Emily facendogli un occhiolino fugace quando, senza minimamente scomporsi, Aaron chiuse tutti i fascicoli di fronte a sé per aggiornare il resto della squadra sulla strategia da eseguire:
-Va bene, siamo quasi arrivati a Sacramento quindi ascoltatemi: Morgan, Reid, Prentiss e Collins; voi andrete a perlustrare l’abitazione del latitante per cercare di scovare un qualche indizio che possa suggerirci dove ha nascosto le ragazze. Rossi e Jareau verranno con me a parlare con le autorità locali- tutti lo ascoltarono con la dovuta attenzione, tranne Reid che nuovamente tornò a guardarla. Daphne questa volta però non percepì il suo sguardo, forse perché era troppo presa dal suo primo vero incarico per la FBI. Eppure se si fosse distratta, anche solo per un attimo, magari questa volta sarebbe riuscita a vederlo.
Il suo sorriso.  
 
***
La casa del loro S.I era una semplice villetta a schiera di un quartiere nella periferia di Sacramento, con una bella veranda, un prato curato e anche dei bei fiori coltivati proprio intorno alla palizzata che recintava il giardino. L’interno poi era semplicemente impeccabile: mobili di buona manifattura, pavimento pulito e qualsiasi oggetto era disposto secondo un ordine ben preciso che rendeva l’ambiente, per quanto fosse paradossale ammetterlo, piuttosto armonioso e “normale”. Non che i quattro agenti si aspettassero un covo sudicio e sporco di sangue con strumenti di tortura sparpagliati ovunque, ma la maniacale cura dei dettagli, dal gusto prettamente femminile, fece scattare in loro un rimbombante campanello di allarme:
-Beh… al primo sguardo sembra una casa ordinaria…- constatò immediatamente Morgan, cominciando a osservare con attenzione le poche foto adagiate su di una piccola mensola nel salotto: George Wigh era un uomo di costituzione robusta, non troppo alto con i capelli bruni e due grandi occhi scuri. In una delle sue foto c’era una giovane donna dai capelli neri e gli occhi chiari che sorrideva alla telecamera con fare del tutto rilassato e sereno.
-Anche troppo: da un uomo celibe di trentacinque anni incline alla violenza non mi aspetto che sia così ordinato…- ammise Spencer osservando con stupore che, passando un dito sui mobili più alti, tutto fosse perfettamente pulito.
-Sembra quasi come se stesse aspettando ospiti. I copridivani sono immacolati. Così come le tovaglie e i cuscini. Non c’è un grammo di sporcizia e anche a giudicare dal modo in cui sono disposte le fotografie e i quadri sembrerebbe soffrire di un disturbo ossessivo compulsivo…- l’agente Collins aveva immediatamente sbandierato i suoi grandi occhi verdi e indagatori per tutto l’ambiente, ma non era riuscita a fare a meno di notare un ghigno divertito sulle labbra sottili del suo giovane collega.
-Beh…Vado a vedere il piano superiore- Emily cercò immediatamente lo sguardo di Derek che, facendo spallucce, cominciò a seguirla senza dire una parola. I due amici di vecchia data, ritrovandosi soli, sprofondarono in un lungo silenzio.
Non si dissero nulla per qualche minuto buono, ambedue cercando di controllarsi dall’irrefrenabile impulso di dire qualsiasi cosa inerente ai loro trascorsi. Allora, Reid notò una porticina laccata sul fondo del corridoio che univa il salotto all’ingresso, e in quell’esatto istante vide una succulenta via di fuga da quella situazione piuttosto imbarazzante.
-Io controllo lo scantinato- disse senza neanche voltarsi a guardarla, aprendo la porta frettolosamente come se, effettivamente, stesse scappando da lei. Non voleva riprendere quell’argomento, anche se parte di lui, forse quella più infantile, aveva una miriade di domande da farle.
-Resto qui allora…- si limitò a rispondergli roteando scocciatamene gli occhi al cielo. Avrebbe potuto offrirsi di scendere con lui, ma non lo fece. Vista la loro ultima conversazione, la moretta pensò bene di non metterlo ulteriormente sotto pressione, e così facendo anche lei avrebbe avuto tutto il tempo per riflettere ad una strategia migliore per confrontarsi con lui.
La cucina, come il resto della casa, era ordinata e pulita, e riusciva ancora a sentire l’odore dei prodotti utilizzati per sgrassare il piano cottura e per disinfettare le superfici di marmo che correvano lungo gli angoli della stufa per almeno un metro, terminando con un frigorifero a destra, e una piccola credenza sulla sinistra. Di fronte all’angolo cottura, invece, un piccolo tavolo di legno scuro sorreggeva un vassoio di rame antico ricolmo di ricevute, anch’esse impilate ordinatamente l’una sull’altra. Queste colsero immediatamente la sua attenzione, tanto da convincerla ad infilarsi i guanti e cominciare ad analizzarle con attenzione. Sembravano essere rimaste lì da tempo, e il fatto che i colleghi della polizia locale non le avessero notate la turbò parecchio. Si trattava, infatti, di ricevute di pagamento di diversi prodotti di ferramenta presi in vari negozi della città: lucchetti, catene, ruote per carrelli, guaine di silicone, una cassaforte e un generatore di corrente. Tutti oggetti che, ripensandoci bene, le instillarono una brutta sensazione. Poi, quando il suo cervello fece per formulare una prima ipotesi, sentì l’auricolare nel suo orecchio gracchiare appena:
-Ragazzi credo di aver trovato qualcosa…- era Reid, ma il giovane non fece neanche in tempo a finire la frase che un suono metallico seguito da un forte trambusto le fracassò il cranio, mandandole il cuore in gola. Mollando tutte le scartoffie sul tavolo della cucina, la moretta corse immediatamente verso la porta di quello scantinato che pareva aver inghiottito Spencer in un silenzio soffocante che subito la mise in allerta:
-Reid?! Morgan Prentiss io scendo!- Estraendo meccanicamente la pistola dalla fondina assieme ad una piccola torcia, la ragazza si portò piano il polso all’altezza delle labbra per avvisare i suoi colleghi mentre, a passo lento, scendeva i gradini che la separavano da una stanza buia e lugubre che, immediatamente, la riportò alla realtà. Rispetto al pian terreno, ora quella cantina sembrava esattamente un luogo degno di un assassino psicopatico: la polvere sembrava fluttuare leggera sotto il raggio freddo e sottile di quella piccola torcia che le permetteva a malapena di vedere dove stesse mettendo piede.  E sebbene ci fossero diversi scaffali ricolmi di cianfrusaglie varie quali vecchi attrezzi di lavoro, corde e flaconi senza etichetta pieni di liquido incolore, i suoi occhi non riuscirono a fare a meno di notare, con forte disgusto, una chiazza di sangue colare lungo l’angolo di uno di quegli ampi espositori.   
 -Merda… Reid?! Spencer mi senti?- si avvicinò piano caricando la pistola finché, seguendo delle piccole goccioline purpuree sparpagliate come una guida su quel lurido pavimento, la nuova recluta del BAU non si ritrovò di fronte ad una mensola spoglia e piuttosto nuova che, con tutta sua sorpresa, era stata fissata ad una porta a scomparsa dagli angoli rivestiti di una guaina in silicone. Quella che aveva davanti, proprio come stava per supporre pochi istanti prima, era un passaggio segreto.
Finalmente capì quanto quel pedofilo bastardo fosse abile, ma la sua mente non riuscì a pensare ad altro che a Spencer, e a tutta quella pista di sangue che stava seguendo.
Sapeva che avrebbe dovuto aspettare Emily e Morgan. Sapeva che non era saggio entrare da sola, senza giubbotto antiproiettile. Ma oltre quella finta parete c’erano delle povere ragazzine indifese, e c’era l’uomo che un tempo era il suo migliore amico. Il suo primo amore. E avrebbe fatto qualsiasi cosa per portarlo in salvo.  
Prese allora un respiro profondo, cercando di ignorare il ritmo sconclusionato del suo cuore che cominciava ad iniettarle adrenalina densa e focosa nelle vene. Così, senza rimuginarci troppo, attraversò quell’apertura nel muro, continuando a tenere la guardia alta e la pistola ben sollevata. Si ritrovò in un piccolo tunnel stretto e umido, e subito percepì un brivido percuoterle la spina vertebrale. Poi, d’improvviso, sentì il portale cigolare e chiudersi pesantemente alle sue spalle.
-Ma che…- voltandosi di scatto, notò una spia rossastra accedersi all’altezza della sua testa, mostrando una piccola tastiera alfanumerica. Fu così che la mora riuscì ad ammirare il genio nascosto nella follia di quell’uomo: non solo aveva costruito un covo segreto, ma aveva anche assicurato l’ingresso con una chiusura ermetica a tempo. Ecco cosa aveva fatto con tutti quegli attrezzi: si era ingegnato un modo incredibilmente vincente per prendere in giro chi gli stava alle calcagna.
Tornò allora a camminare sospirando piano, convincendosi del fatto che non aveva molto tempo e che, inevitabilmente, era rimasta da sola. E doveva farsi forza. Per sé stessa, per Reid e per quelle bambine.
C’era odore di chiuso lì dentro, ed era talmente intenso che pareva grattarle la gola. Poi, scorgendo una fioca luce di una lampadina a basso consumo, la mora si ritrovò all’interno di una piccola stanza provvista di stufa, macchinari elettrici di diverso genere e quella che le parve inequivocabilmente una gabbia coperta da una spessa e ampia coperta di lana. Invece, proprio ai suoi piedi a pochi metri da lei, riconobbe un’esile figura rannicchiata a terra in posizione fetale.
-Spence!- riponendo subito la pistola nella fondina di pelle attaccata alla vita, la ragazza si precipitò al fianco del giovane dottore ancora privo di conoscenza. Aveva le labbra socchiuse, proprio come se stesse dormendo, ma sulla sua fronte c’era una bella ferita dalla quale ancora vedeva del sangue colargli sul pallido ovale.
-Grazie a dio…- affermò non riuscendo a nascondere un piccolo sorriso quando, sentendogli il battito, constatò che il suo cuore pulsasse ancora forte e regolare.
Per qualche istante si era sentita nuovamente inerme, e per secondi interminabili le era mancato il fiato.
 Di tutta fretta, Daphne si tolse la giacca dalle spalle, appallottolandola disordinatamente per posizionarla sotto la nuca del suo collega. Poi, aggrappandosi con forza a quella sporca coperta a pochi centimetri da lei, la ragazza scoprì una spessa gabbia d’acciaio, al cui interno vi erano tre ragazzine brune tra i dieci e i quindici anni, tutte vive, ma ancora prive di conoscenza, probabilmente a causa del cloroformio.
-Ora cerco di portarvi via di qui…- sussurrò appena sfilandosi una forcina dalla folta chioma corvina per poi cominciare a destreggiare con il grosso lucchetto appeso ad una delle estremità della catena che sigillava la loro piccola prigione.
Qualcosa di freddo, poi, si posò sulla sua testa poco al di sopra della sua nuca. La giovane Collins si maledì, per aver abbassato la guardia, proprio quando capì di avere una pistola puntata alla testa. Era stata troppo ambiziosa e impulsiva, e ora doveva assolutamente mantenere la calma o per il suo stupido errore ci avrebbero rimesso tutti.
-Butta la pistola e tieni le mani dove possa vederle…- era una voce seria e roca, e in quell’esatto istante, il suo istinto le suggerì di fare quello che diceva mentre il suo cervello elaborava alla svelta un piano per neutralizzarlo senza mettere in pericolo sé stessa e gli altri. Aveva già affrontato situazioni simili in accademia, ma ora, nella vita reale, tutto le sembrava così illogico: qualsiasi pensiero, qualsiasi sensazione serbavano non avere più alcuna importanza perché il tempo stesso si era fermato. Eppure, non poteva fare altro che affidarsi ai propri sensi se proprio voleva restare in vita. Così, cercando di mostrarsi il più naturale possibile, la ragazza adagiò la sua arma per terra a pochi centimetri dal suo collega, sperando quasi che, una volta tornato dal mondo dei sogni, potesse intuire cosa fare nel caso in cui le cose si fossero messe male per lei. Poi si sollevò lentamente portando le mani alla testa, così che il suo assalitore potesse appurare il fatto che fosse completamente disarmata.
-Girati…- le intimò, e con grande lentezza la mora eseguì ancora una volta i suoi ordini. Sebbene il suo candido ovale non esprimesse alcuna emozione, dentro si sentiva un fuoco. Era come se qualcosa le stesse corrodendo le pareti dello stomaco ma, al tempo stesso, le infondesse una forza che prima o poi l’avrebbe fatta esplodere.
In effetti, proprio in quel momento Daphne ripensò automaticamente al suo percorso, a tutto quello che le era successo, alla promessa che aveva fatto a sé stessa quando sua madre morì. E quel tragico ricordo, paradossalmente, le infuse coraggio.
-Però… non vi facevo così attraenti voi della FBI- proprio come in quelle foto che aveva visto al piano superiore, George Wigh era un uomo non molto alto ma dalle spalle ampie e uno sguardo talmente viscido e compiaciuto che le fece venire la nausea. Poteva solo immaginare le sofferenze che aveva inflitto a quelle povere innocenti alle sue spalle, e il solo pensiero la costrinse a mordersi appena le labbra:
-Dovrebbe lusingarmi?- ai suoi occhi, quella giovane donna dalla costituzione slanciata e i begli occhi verdi pareva una di quelle che sapeva il fatto suo, proprio come la sua bellissima Becky. Eppure, nel suo sguardo, vide un calore che, per qualche decimo di secondo, lo spiazzò. Non era rabbia, e neanche paura. Era un vigore al quale non sarebbe riuscito mai a dare un nome ma che, inevitabilmente, lo portò a puntarle nuovamente la pistola addosso, questa volta all’altezza del torace:
-Può darsi. Sei spavalda per essere disarmata e senza giubbotto antiproiettile- un ghigno beffardo si aprì sulla sua bocca carnosa contornata da un lieve accenno di barba grigiastra. Voleva mostrarsi forte per sottometterla come un vero maschio alpha, ma la moretta aveva intravisto una lieve agitazione nel suo sguardo e, di fatti, il cane della sua arma era ancora sollevato.
-Già, me lo hanno detto spesso…- disse lei sorridendogli a sua volta, avanzando contro di lui di un misero passo, portandolo a caricare il colpo in canna. C’erano pochi centimetri a dividerli, e dando uno sguardo furtivo al soffitto, l’agente Collins si rallegrò di vedere del cemento armato.
-Non fare la furba con me… Non mi porterete via le mie bamboline- le aveva detto, questa volta agitando la pistola con fare nervoso: non gli piaceva il fatto che fosse troppo tranquilla, che non avesse paura di morire per mano sua. Ecco perché non prendeva mai donne adulte, perché non erano facili da tenere sotto controllo. Ma la cosa che in quel momento non gli piacque affatto fu nuovamente il suo sguardo feroce.
-Ah è così che ci vedi? Eh? Come dei giocattoli?- la mora aveva digrignato i denti, stringendo meccanicamente i pugni. Ora che si stava cominciando a rivelare per quello che era, la strana sensazione che sembrava attanagliarle lo stomaco si attenuò, senza però alleviare la sua rabbia.
-Sì. E tu ne sei uno che sto per fare a pezzi- la mora allora trattenne il fiato e con tutta la sua forza, prima ancora che il suo assalitore potesse premere il grilletto, gli sferrò un potente calcio dal basso che, inevitabilmente, lo portò a fare fuoco contro il soffitto, causando una piccola esplosione che provocò una cascata di polvere e frammenti di cemento, annebbiandogli la vista. Rantolando per il dolore agli occhi e per la sorpresa, l’uomo innanzi a lei lasciò cadere a terra la sua pistola portandosi il polso livido contro il petto mentre la più piccola, caricandolo con tutte le sue forze, lo tramortì proprio all’altezza dello stomaco con un gancio destro che lo costrinse a piegarsi dolorosamente contro il suo ginocchio, già sollevato per colpirgli la fronte. E sebbene il cuoricino della mora avesse ripreso a battere in modo irrequieto e irregolare, in quell’esatto frangente Daphne Collins sentì una pace mai provata prima.
Questo era quello che voleva fare da sempre, e ora ne aveva la prova. Tuttavia, per quanto fosse stata abile, Wigh non era ancora a terra ma barcollava sul posto con una mano tremante e il volto gonfio. E nel suo sguardo, cupo e austero, questa volta intravide un barlume di follia che la fece quasi fremere in maniera impercettibile. Ringhiando come un animale affamato, l’uomo la caricò con forza, afferrandola per i fianchi, ma quando fece per sollevarla da terra, Daphne approfittò di quel momento per sfruttare la sua spinta e sormontarlo agilmente, legandogli le gambe ben serrate attorno alla vita e le braccia strette al suo collo.
 
Reid riprese conoscenza quando sentì un verso strano quanto familiare attraversargli il cervello. Era disorientato, gli girava la testa e non riusciva bene a capire come mai fosse steso a terra in una sorta di rifugio rudimentale sporco, umido e poco illuminato. Poi, ricordò un uomo dai folti capelli corvini che, con forza, lo aveva afferrato per i capelli sbattendogli la testa contro lo spigolo di uno degli scaffali del seminterrato, mettendolo k.o in meno di un minuto. Ma ora che i suoi occhi cominciavano ad abituarsi a quella luce soffusa, riusciva a mettere a fuoco due figure lottare senza sosta come due bestie feroci per la supremazia sul territorio, e gli ci volle molto per riconoscere il suo assalitore sormontato da un’esile figura che sembrava volergli indurre uno svenimento tramite la pressione delle sue atletiche braccia sulla gola. Poi, d’improvviso, sentì un profumo dolciastro solleticargli le narici. Effettivamente aveva un giacchetto posizionato sotto la nuca, così che potesse far defluire il sangue dalla testa, e se si concentrava un poco poteva distinguere perfettamente un aroma particolare impregnato in quella stoffa morbida e scura: sembrava essere quello di freschi fiori di campo mischiati ad un bel mazzetto d’alloro.
E fu in quell’esatto istante che sentì il suo cuore bussargli freneticamente nel petto. Quella che stava lottando con tutte le sue forze era proprio Daphne, che senza alcuna esitazione si era lanciata in suo soccorso da sola e completamente disarmata.
Ebbe quasi una sorta di dejà-vu, e in quell’istante provò un brivido che gli fece accapponare la pelle.
Un gridolino acuto e straziato, tuttavia, lo costrinse e focalizzare nuovamente la sua attenzione sulla lotta agguerrita e primitiva che si stava consumando di fronte i suoi occhi: e quando il suo S.I prese la rincorsa contro una delle pareti grezze e rocciose del suo rifugio, vide la sua giovane collega inarcarsi violentemente con la schiena contro il suo assalitore a seguito del forte impatto, sputando inevitabilmente un piccolo fiotto di sangue che le colò denso da entrambi gli angoli delle labbra.
In quel preciso momento, Spencer Reid ebbe paura. 
Pensò a tutto il dolore provato nell’averla persa la prima volta. Alle notti insonne, alle lacrime, al caos, al vuoto cosmico che gli aveva divorato le membra.
Fu allora che mise tutto l’orgoglio e la rabbia accumulata negli anni da parte e si convinse che, malgrado tutto, non l’avrebbe persa ancora una volta. Si sollevò di scatto cercando di focalizzare la sua attenzione nei dintorni sebbene gli girasse fortissimo la testa. Vedeva ancora sfocato a tratti, ma quando sentì la sua amica gridare per la forte presa delle mani di Wigh strette attorno alla sua gola, il suo cuore riprese a battere freneticamente, riportando ossigeno al cervello. Strinse forte le palpebre fino a farsi male, ma quando le riaprì finalmente vide la risposta a tutti i suoi problemi: la pistola di Daphne, proprio a pochi centimetri da lui.
 
La testa della giovane Collins aveva cominciato a girare, mentre quelle dita callose e ruvide affondavano nella sua tenera carne. Tentò di lottare, di dimenarsi come una furia ma le energie cominciavano a mancarle, e parte di lei si rammaricò del fatto che probabilmente non ce l’avrebbe fatta.
Poi udì un rombo, e meccanicamente chiuse gli occhi. Il tempo sembrava aver cominciato ad accelerare la sua folla corsa, talmente tanto che si ritrovò seduta a terra con un peso morto che le comprimeva l’addome. Ebbe bisogno di due minuti buoni per capire che, oramai, era tutto finito. Tossì più volte boccheggiando con ingordigia, ma quando finalmente riuscì a riprendere fiato, i suoi occhi si puntarono meccanicamente sul giovane castano steso a qualche metro di distanza da lei, con il volto macchiato di sangue e le mani strette attorno alla sua pistola ancora fumante. Nel suo sguardo, per la prima volta Daphne vide un fuoco impetuoso e magnetico che, non appena si posò su di lei, la fece fremere. 
-T-Tutto bene?- le domandò improvvisamente, riacquisendo il tuo tono pacato e rilassato, lasciandola interdetta. Aveva appena ucciso un uomo per salvarle la vita, e questo, malgrado tutto, l’aveva lusingata e stupita: perlomeno, pensò, il suo Spencer aveva imparato a difendersi.
“Suo”.
In realtà, Daphne non sapeva se quel ragazzo fosse mai stato suo. Era un amico, e lei lo aveva amato con tutte le sue forze. Ma era scappata, rovinando tutto.
Ci fu allora un breve silenzio che le permise di dipingere un piccolo sorriso amaro. E soltanto allora ritrovò il coraggio di parlare:  
-Io si, tu?- domandò a sua volta, scostandosi frettolosamente di dosso il cadavere di George Wigh per poi gattonare nella sua direzione. Spencer fece per dirle qualcosa ma perse le parole proprio quando la sentì stringersi impulsivamente attorno al suo corpo, avvolgendolo in un caldo abbraccio che lo riportò indietro nel tempo, ad una sensazione di calore che parve togliergli il fiato. E anche se gli faticava ammetterlo, quella era un’emozione che gli era mancata tremendamente.
-Grazie…- sussurrò lei, scostandosi quel tanto che le serviva per poterlo guardare dritto negli occhi, inchiodandolo:
-D-Di niente!- le risposte deglutendo rumorosamente prima di abbassare lo sguardo in evidente imbarazzo. Quella reazione finalmente le fece riconoscere quel ragazzo insolito e tremendamente sensibile per cui avrebbe messo a fuoco e fiamme il mondo intero. Non riuscì trattenere un risolino divertito, ma ben presto i suoi grandi fari verdi si spostarono sulla sua tempia:
-Lascia che ti fasci quella ferita- affermò portandogli istintivamente le mani al collo, armeggiando con la cravatta sottile del ragazzo che, inevitabilmente, cominciò a divincolarsi per la sorpresa:
-M-Ma che stai..?- fece quasi per fermarla quando la mano sottile di Daphne afferrò prontamente la sua, stringendola in una presa gentile ma, al contempo, vigorosa:
-Sta fermo- gli ordinò con voce sicura e rassicurante.
-N-non devi- balbettò appena con fare arrendevole mentre, osservandola di sottecchi, sperò che non potesse scorgere ulteriormente il profondo imbarazzo lo stava soffocando lentamente.
-Certo che devo! Ora smettila di fare il ragazzino e fatti medicare- risposte lei con fare più giocoso e beffardo, proprio come erano soliti fare un tempo. Quella situazione lo spiazzò, intrigandolo tanto da portarlo a inarcare stizzito un sopracciglio verso l’alto:
-Non faccio il ragazzino- puntualizzò il giovane dottore, facendo scoppiare la mora in una piccola risata:
-Si, invece!- Daphne sospirò appena, malinconica: -Sei arrabbiato con me. L’ho capito. Ma sei ferito e non ho intenzione di tollerare le tue lamentele. Ora chiudi quella fogna e fammi fare il mio lavoro- il suo tono era fermo, tremendamente austero. Eppure, nel suo sguardo, Reid vide una luce che gli fece esattamente ricordare perché in gioventù si fosse infatuato di lei: Daphne era impetuosa, carismatica; eppure gentile, apprensiva… dolce. Riusciva a vedere la bellezza anche in una persona come lui, con tutte le sue stranezze e i suoi difetti. E non l’avrebbe mai ringraziata abbastanza per questo.  
-Sissignora- rispose sarcasticamente, dipingendo un piccolo sorriso sulle sue labbra sottili. Daphne, dal canto suo, si godé quel piccolo istante a pieno: solo lui e lei, dopo anni di lontananza, finalmente assieme.
-E togliti quel sorrisetto del cazzo dalla bocca… Sono seria- cercando di ricomporsi, la ragazza annodò una salda fasciatura rudimentale attorno alle tempie del suo collega che, cercando il suo sguardo, le rispose:
-Oh lo so… grazie-  
-Figurati- e scostandosi dal suo corpo, la moretta tornò ad armeggiare con la sua inseparabile forcina e quel maledetto lucchetto che sembrava proprio non volersi aprire. Era calato nuovamente il silenzio tra di loro. Eppure, ambedue potevano percepire un’aria diversa. Come se quella piccola “tregua” fosse riuscita a togliere buona parte delle loro frustrazioni. Sapevano che la loro discussione non era ancora finita. C’erano ancora domande prive di risposte e dubbi irrisolti. Ma per ora, decisero semplicemente di accontentarsi e di portare a termine il loro lavoro.
-Mia madre sta piuttosto bene comunque- ammise improvvisamente Spencer, puntando i suoi grandi occhi sulle dita agili della sua collega:
-Si stanno prendendo cura di lei…- aggiunse poco dopo, sorprendendosi del fatto che, dopo qualche minuto di fatica, il gancio del lucchetto fosse finalmente scattato verso l’alto:
-Sono contenta…- ammise voltandosi appena verso di lui, esponendogli a sua volta un dolce sorriso che, per qualche istante, lo fece fremere al di sotto dei propri vestiti.
-Come sta Helen?- le domandò improvvisamente cogliendola letteralmente alla sprovvista. E vedendola arrestarsi di colpo in maniera tanto brusca immediatamente gli fece intendere di aver formulato la domanda sbagliata al momento meno opportuno. Daphne non gli rispose subito. Non ci riuscì. Si limitò solamente a fissare il pavimento sporco di sangue e fuliggine nel vano tentativo di riuscire a trattenere le lacrime. Non aveva il coraggio di dirglielo, in realtà. E come aggravante, tra l’altro, c’era il fatto che non avesse letto le sue lettere, quindi ignorava completamente quello che le fosse successo, e onestamente non si sentiva pronta per parlargliene apertamente.
-Daph..?- in un gesto del tutto impulsivo e incontrollato, Spencer si ritrovò a stringerle la mano in un piccolo tentativo di attirare la sua attenzione. Si era incupita, sbiancando di colpo, e questo non gli piaceva affatto. Gli sembrava di essere riuscito ad aprirsi un pochino, di aver stabilito un contatto. E ora aveva come la netta sensazione di aver rovinato anche quel momento di pace.
-È morta…- era seria. Quasi inespressiva. Ma il suo fu un sussurro talmente flebile che il giovane dottor Reid cominciò seriamente a pensare di aver sentito male. Helen era una delle poche persone che si era presa cura di lui e di sua madre. Gli era stata affianco nei momenti difficili, e gli aveva permesso di spendere maggior tempo insieme, specialmente prima del loro fatidico addio. Pensò al fatto che non l’aveva mai ringraziata per tutto quello che aveva fatto per sua madre durante le crisi, e una forte fitta gli attanagliò nuovamente lo stomaco.
-C-Cosa?- balbettò appena sentendosi la gola seccarsi di colpo. Si era irrigidito e persino la sua espressione facciale appariva ora più contrita e spigolosa. Non poteva immaginare quello che la sua compagna stesse pensando, ma vederla con gli occhi gonfi di lacrime fu come perdersi per la seconda volta nella sua vita.
-Non sono stata in grado di proteggerla…- fu tutto quello che Daphne riuscì a dire prima di concedere alle sue lacrime di colare leggere sulle sue gote lievemente arrosate.
Allora avrebbe voluto fare qualcosa. Magari stringerla fra le braccia, dirle che gli dispiaceva. Ma non disse nulla.
Spencer restò lì. Immobile a guardarla cadere a pezzi ancora una volta innanzi a lui.
Ed era bella. Lei che era così forte, impavida e imperiosa quando piangeva ritrovata tutta la sua umanità, le sue fragilità.
Un forte boato li colse poi tutti alla sprovvista, tanto che anche le tre ragazzine cominciarono a riprendere conoscenza, commuovendosi per la gioia di veder finalmente il loro incubo andare in frantumi. Daphne era sobbalzata appena, portandosi immediatamente le mani alle guance per cancellare ogni prova del suo pianto mentre, riposando la pistola nella fondina, tornò in piedi per cercare di sistemarsi gli abiti ormai sporchi di polvere e sangue.
-Reid, Collins tutto bene?- irrompendo nella cava ad ampie falcate, Derek abbassò subito l’arma quando li vide tutti a pochi metri di distanza da lui. E i suoi profondi occhi bruni non riuscirono a non vagare per l’ambiente circostante, permettendo alla sua mente di visualizzare e ipotizzare che cosa gli fosse successo: Reid aveva la testa fasciata dalla sua stessa cravatta violacea, Collins era tutta sporca e ancora le colava del sangue dagli angoli delle labbra mentre il loro S.I era ormai steso senza vita in un angolo della sala. C’era stata una colluttazione violenta, e quando percepì che fu proprio la giovane recluta a condurre la lotta ne rimase piacevolmente sorpreso. Ma a giudicare dai lievi segni rossi attorno al suo collo diafano, non era stata lei ad uccidere Wigh ma bensì Spencer, e questo lo lasciò interdetto. Sapeva che non amava premere il grilletto, o in generale ferire a morte un bersaglio. Eppure per lei non si era tirato indietro. E questo era strano, anche se non era difficile capire che ci fosse qualcosa tra quei due. Qualcosa che sicuramente andava al di là di una semplice conoscenza ma che probabilmente non sarebbe riuscito a comprendere.
-Io sto bene, e anche le ragazze. A Reid servono solo un paio di punti…- affermò la ragazza, sorridendogli appena mentre con il dorso nella mano cominciava a pulirsi la bocca ancora macchiata.
-Sei sicura?- le domandò successivamente, penetrandola con uno sguardo che, per qualche istante, la mise in soggezione. Pur conoscendolo da pochissimo, aveva subito intuito che Morgan fosse uno che dava un’importanza unica ai dettagli. E sentire le sue grandi iridi puntarsi su di lei fu come sentirsi analizzata, svuotata di ogni pensiero o punto di riferimento. Era intenso, apprensivo.
E del resto, Derek non poteva che allarmarsi nel vedere i suoi splendidi occhi verdi contornati da lacrime amare.
-Sì. È solo un graffio…- si limitò a rispondergli frettolosamente prima di avviarsi verso l’uscita come se, in realtà, non desiderasse altro che allontanarsi dai lì. Non per Spencer, ma per la situazione. L’omicidio di sua madre, seppur a tanti anni di distanza, era ancora una ferita aperta che faticava a rimarginarsi, e cominciava a pensare che i sensi di colpa non si sarebbero mai placati.
-Daphne? Aspetta!- Reid cercò il suo sguardo, ma quando la mora si voltò nella sua direzione, non riuscì a sostenere il suo sguardo per più di pochi secondi:
-Scusami…- fu tutto quello che riuscì a dirgli prima di fare dietrofront e riprendere a camminare senza più voltarsi. 

*Angolino di Virgy*
Eccomi qui, ancora. Non so onestamente come sta venedo. Mi sto solamente limitando a descrivere quello che la mia mente focalizza. 
Spero solo che vi piaccia, anche se cercare di mantenere ogni personaggio al proprio posto non è facile. Fatemi sapere cosa ne pensate.
Buona lettura!
Un bacio
-V-

 
  
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