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Autore: yonoi    15/10/2017    4 recensioni
Estate 1920: Hansi Wallemberg, cinque anni aggrappati a una grossa cornice col ritratto del padre decorato al valore, arriva dal suo paese di montagna a casa di Iolanda e Arrigo Drusiani. Sarà il loro piccolo affido per questa estate. Arrigo Drusiani ha combattuto nella Grande Guerra, sua moglie Iolanda è esperta nell’arte di riparare le cose. Con i Drusiani, Hansi stabilirà quel rapporto di affetto di cui ha così intensamente bisogno: partito per il fronte, suo padre non è più tornato, e sua madre, che non ha mai smesso di attenderlo, trascorre le giornate sulla soglia di casa.
Col tempo, si prefigurano per Hansi lunghi inverni in collegio, e in seguito l’Accademia militare: qui, si lega sempre più ad un coetaneo che suscita in lui una forte ammirazione, fino ad abbracciarne i valori e ad arruolarsi nelle SS. Sarà l’incontro - fugace e irrepetibile - con il vero amore della sua vita, a provocare in Hans un cambiamento sofferto, eppure definitivo.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. La strana faccenda dell’amore oltre la morte
 
Arrigo Drusiani e Iolanda Silvestri erano, a quel tempo, sposi recenti. Ancora in fase di reciproca conoscenza, al punto che talvolta si sentivano così impacciati da darsi ancora del lei, si erano da poco stabiliti nella casa che Luigi Silvestri, il padre della sposa, aveva ereditato da una prozia buonanima: un appartamento con giardino al pianoterra, ancora ingombro delle masserizie della defunta, dei tavoli pesanti e i tendaggi polverosi, nella stanza da letto l’enorme baldacchino, con le cortine grevi e piene di rumori.   
         Collegata da strade ancora in parte sterrate, che si perdevano in prati e nell’aperta campagna, la casa si trovava in un quartiere fuori porta, che aveva cominciato il suo sviluppo abitativo agli inizi del secolo, con gli smalti colorati delle villette liberty, le scalinate in ferro battuto rampicante, le torrette in miniatura che ad Hansi, durante le sue prime passeggiate con la Iolanda, ricorderanno i campanili affusolati, i castelli e le leggende di streghe del suo paese. 
         Del tutto estranea ai dinamismi del nuovo stile, la casa ereditata dalla prozia Silvestri esibiva un aspetto da rudere, non solo per il fatto che si trattava di una delle costruzioni più antiche: Arrigo Drusiani non dimenticò mai il senso di inquietudine che aveva percepito durante il sopralluogo prima del matrimonio, il peso di afflizione che gravava su quegli spazi, che parevano disabitati da secoli.
         Il primo impatto con i pavimenti sconnessi e l’odore di cantina che saliva da sotto, i muri gonfi e le macchie di umidità e di muffa, l’impressione che l’erba incolta del giardino entrasse fino in casa, a ciuffi tra le mattonelle della cucina, avrebbe scoraggiato chiunque, ma non la Iolanda: con il suo entusiasmo di sposa novella, era entrata spalancando porte e finestre rimaste sigillate dai tempi in cui la prozia Silvestri, dopo aver perso tutti i lumi della ragione, s’era rinchiusa in casa ad aspettare la morte, con addosso un abito di pizzo dell’altro secolo, e le scarpe di vernice nera da funerale.
         La Iolanda non era disposta a farsi impressionare dalla tristezza: ne fece le spese la piccola porta di legno che dalla cucina, a quel tempo più simile a una grotta, conduceva al giardino. Il legno si disfò in pezzi, la maniglia rimase in mano alla Iolanda: ma lei era già fuori, nell’erba alta e nel viscido umore delle lumache, tra lucertole simili a rettili preistorici, nell’aria perturbata da nugoli di zanzare.
         Immersa in quella vegetazione pluviale, la trovò suo marito: la vide come se fosse anche lei uno strano fiore, nata improvvisamente da quel viluppo verde con il cappello bianco, la corolla del volto, il gambo esile del corpo. Ed era così bianca da provare timore all’idea di sfiorarla.
         -“Ti mangeranno viva”- Arrigo già iniziava a schiaffeggiarsi sul collo, dai tempi pestilenziali delle pulci in trincea avendo maturato una totale insofferenza verso qualsiasi tipo di insetto -“Tra l’altro, non abbiamo ancora visto l’interno. Se è come qua fuori, non promette niente di buono”-
         -“Che bisogno c’è di vedere, mio caro?”- lo quietò la Iolanda, assaporando i profumi tutti insieme -“Tanto, la prendiamo. Il giardino è bellissimo, non senti quanta vita? Noi ne abbiamo bisogno, e ne avranno bisogno i bambini”-
         -“I bambini?”- Arrigo Drusiani, grandi occhi nerissimi e un temperamento allegro sciupato dalla guerra, era rimasto senza parole per un istante: perché di bambini non si era mai parlato prima di allora, tra quei due sposi affascinati l’uno dall’altra, eppure così timidi che talvolta inciampavano nelle loro stesse emozioni, e inciampando finivano per darsi ancora del lei. Nei momenti più critici, addirittura del voi.
         Quanto a quel vecchio rudere, e a quella boscaglia che l’assediava tutt’intorno, ben pochi posti al mondo, esclusa forse la prima linea del fronte, erano parsi ad Arrigo così desolati, impregnati di un disfacimento senza rimedio. Eppure, suo malgrado, aveva ceduto all’entusiasmo della sua sposa: un po’ perché amava la sua indole bizzarra, sempre propensa a cogliere strani significati e a trattare le cose come se avessero un’anima. E un po’ perché non era in grado di proporre un’alternativa concreta.
         Raggiunse la Iolanda facendosi strada tra grovigli di radici, e fiori istupiditi dai loro stessi aromi: -“La prendiamo”- le disse, e le strinse la mano un poco per convincersi, e forse anche per sentirsi rassicurato, perché nel tepore che emanava dalla pelle liscia della Iolanda lui avvertiva una forza, la capacità di proteggerlo da qualsiasi timore. Ciò che gli sembrava di particolare malaugurio in quel luogo, non era tanto lo sfacelo dell’abbandono, quanto piuttosto il fatto che la prozia Silvestri, nei suoi ultimi anni, s’era reclusa nella penombra verde mare delle persiane abbassate, a parlare coi morti. Aveva cacciato via anche l’ultima serva che le era rimasta accanto, una vecchia stranita che parlava coi gatti, portandogli di notte gli avanzi in mezzo ai prati. A questa compagnia, aveva preferito quella eterea dei morti, con i quali parlava vagando per le stanze, discutendo i dettagli del proprio trapasso. Finché, dimentica di se stessa, aveva varcato la soglia della solitudine ultima: e dopo una settimana di decomposizione avanzata, era stata ritrovata nel catafalco del letto dalla serva allertata dai vicini di casa, per via degli odori pestilenziali e dei colombi, che piovevano a frotte sui davanzali delle finestre.  
         Ancora più sinistre, erano certe voci sulle presunte cause di quella morte reclusa: stando alle dicerie, la prozia Silvestri s’era ben meritata di morire di solitudine, perché evocava i morti e il diavolo in persona, con le corna e la coda, e tutto per ritrovare, vecchia e pazza com’era, un amante scomparso da più di cinquant’anni. Era un’enormità a cui Arrigo Drusiani si rifiutava di credere: che la povera donna, non avendo più nessuno, andasse a cercare tra i morti qualcuno che aveva amato, probabilmente l’unico, più che una storia di streghe, pareva una fiaba triste. Per scrupolo di coscienza, tuttavia, il tenente Drusiani s’era preso la briga di sparpagliare l’esca di domande casuali qua e là tra le vicine: soprattutto perché nel quartiere si mormorava di bambini scomparsi senza lasciare traccia. Secondo le dicerie più tetre, le loro ultime tracce erano andate a ingrassare il lussureggiante giardino della prozia.
         Dalle indagini svolte tra i cortili e la parrocchia, risultò che l’inquietante vicenda, cresciuta attorno alla casa alla stessa velocità di quel giardino che tutt’intorno la proteggeva, aveva fondamenta ancora più vacillanti dell’antica dimora. Si trattava, a tutti gli effetti, di una storia di fantasmi, strano frutto del fascino che quella casa esercitava sul vicinato: il genere di storie che fiorivano attorno ai vecchi ruderi e alle case abbandonate, e che si andava avanti a raccontare per lungo tempo, senza neanche sapere com’erano iniziate.
         Arrigo archiviò l’inchiesta con un certo sollievo: tuttavia, per buona pace della sua coscienza, trascorse un intero pomeriggio a scavar buche in giardino, frugando la terra con apprensione e in profondità, con la scusa di togliere le erbacce e dissodare, per mettere a dimora l’oleandro e una siepe nuova di gelsomino. E poi le ortensie azzurre, rosa come di carne, che la Iolanda aveva portato insieme al suo corredo di sposa novella, a metri di tovaglie e lenzuola ricamate, e a una collezione di orologi sconclusionati, nessuno dei quali azzeccava l’ora esatta, neanche per puro caso.    
         Dai lavori di scavo, Arrigo non cavò altro che un mucchio di lumache dai corpi di terra molle e i gusci di madreperla, con un odore salino capace di evocare il mare nella pianura. Trovò anche una scatola di biscotti metallica ricolma delle lettere d’amore della prozia: erano custodite in fasci di buste bianche e senza alcun recapito, legate da nastri avorio che immediatamente si disfecero in polvere, lasciando tra le dita di Arrigo una cipria pallida. Né Luigi Silvestri e neppure la Iolanda, a quel tempo nel pieno di una giovinezza appassionata, che ignorava le pene tristi dei vecchi, furono in grado di fornire spiegazioni: né tanto meno di riconoscere l’uomo appannato del ritratto trovato in fondo alla scatola, sotto ai fasci di lettere sepolte, come se quella fosse l’unica maniera escogitata dalla prozia per riuscire a spedirle.
         Questo ritrovamento riconciliò Arrigo con le vicissitudini della vecchia Silvestri: dopo molte ricerche, riuscì ad identificare nelle vesti sfuocate dell’uomo del ritratto, l’uniforme austriaca delle Guerre d’Indipendenza, con le due bandoliere incrociate sul petto. E si meravigliò del suo stesso destino, che gli faceva ritrovare un Austriaco nel giardino di casa, dopo averne incontrati migliaia in prima linea.
         Infine, arrivò a convincersi che era ora di farla finita coi fantasmi: quelli della prozia, e i suoi personali. Fu in quel periodo che iniziarono i lavori di restauro: con l’aiuto dei muratori ingaggiati da Luigi Silvestri, Arrigo intraprese un’opera di ripulitura totale. E lui stesso iniziava a sentirsi più libero man mano che raschiava dai muri le macchie di umidità, strappava via le erbacce dalle mattonelle sconnesse, sfrondava ragnatele e liberava gli spazi ariosi dal superfluo.   
         Per un certo periodo, era stato tutto un andirivieni di carretti dei sulfaner[1] nello stradello: senza rimpianti, Arrigo aveva aiutato i robivecchi a caricare quel campionario di reliquie dell’altro secolo, i mobili infragiliti dai tarli, che scuotevano nuvole di segatura a spostarli, le pile ingiallite dei piatti che s’incrinavano solamente a toccarli. Solo la pendola decrepita dell’ingresso, e il letto con il suo baldacchino funereo, non si riuscì a spostarli, parevano inchiodati al pavimento dai secoli: l’idea di farli a pezzi risultò, alla fine, più triste che imparare a conviverci senza tormento.
         Rimasero nella casa, a ricordo del suo passato, il ritratto dell’Austriaco e il fascio di lettere senza indirizzo della prozia. Nessuno si prese la briga di leggerle: ma la Iolanda trovava troppo triste l’idea di disfarsi di quei cimeli, come se questo significasse gettar via, insieme coi fantasmi, gli ultimi ricordi della vecchia Silvestri.
         Fu così che Arrigo dovette rassegnarsi all’idea di tenere un Austriaco in casa: anche se si trattava di un ritratto sbiadito, palesemente innocuo a parte la fastidiosa abitudine di fissare i vivi negli occhi, e di inseguirli ovunque con quello sguardo annerito, dall’angolo del salotto dov’era stato incorniciato ed appeso, per esplicito desiderio della Iolanda. Era un quadretto esiguo, quasi una miniatura, ma talmente inquietante che Arrigo, di lì a poco, si era già stancato di tutta quella faccenda dell’amore oltre la morte, e s’era ripromesso di farlo scomparire alla prima occasione.
         Ancora in quel periodo, aveva promesso solennemente a se stesso di cancellare dalla memoria quel poco di tedesco che aveva imparato al fronte, e che suonava ai suoi orecchi come una sassaiola di ricordi e tormenti: ma questo fu molto prima che quella lingua ispida tornasse ad inseguirlo come gli occhi dell’Austriaco, correndo per le stanze con la voce di Hansi Wallemberg, e le sue continue richieste di tenerezze e lunghe storie.
 
[1] Sulfaner, in dialetto bolognese: rigattiere, robivecchi
  
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