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Autore: ntlrostova    16/10/2017    1 recensioni
Afferrò la mano del Maji. Era calda, era vita, era giustizia.
“Come ti chiami?” gli chiese.
“Bokuto Koutarou.” Sorrise di nuovo e questa volta gli occhi di Akaashi si riempirono di lacrime.
Genere: Angst, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Kodoku era una città crudele, corrotta, marcia.

Akaashi lo sapeva.

Chi meglio di lui, della sua famiglia? Chi meglio di coloro che avevano provato sulla propria pelle i livelli di mostruosità a cui poteva arrivare il Seifu?

Chi meglio del ragazzo a cui avevano ammazzato il fratello?

Eppure eccolo lì, a fare da vedetta per un governo che disprezzava. Eccolo lì, parte del sistema, pronto all’omicidio insensato, primitivo, feroce.

Il fucile a compressione gli pesava sulle spalle, il paesaggio di desolazione al di là delle mura di difesa gli pesava sullo sguardo.

Il mondo era grigio, il mondo era buio.

E così doveva restare.

Il primo Maji che avesse mai visto, all’infuori del fratello, era una ragazza dai lunghi capelli biondi, insoliti. L’aveva guardato negli occhi mentre lui le perforava il petto con una raffica di proiettili silenziosi, polvere rosa fluorescente le brillava sulle mani e continuò a diffondere una soffusa luce anche quando quelle stesse mani, inerti, ciondolarono ai lati di una barella.

Akaashi non sapeva cosa facessero dei corpi, poi.

Non erano informazioni di sua competenza.

Il suo compito, in quanto Dansei, era proteggere quelli come lui dai Maji.
La magia era dannosa, la magia era pericolosa, portava all’onnipotenza e ciò non era accettabile.

Nessuno doveva volerla.

Evitare la guerra, evitare lo scontro tra due razze, in cui i Maji avrebbero incondizionatamente trionfato, queste erano le chiacchiere che il Seifu dava in pasto all’opinione pubblica.

Ma, tra le fila dei soldati, serpeggiavano voci disgustose, voci sul governo che usava l’energia dei Maji uccisi per conquistare i continenti al di là del Mare Scarlatto, per assicurarsi l’egemonia mondiale.

Akaashi non riusciva a crederci, o preferiva non farlo. Pensare che i Maji fossero malvagi e che li avrebbero ridotti in schiavitù se fossero riusciti a sollevarsi contro di loro era più facile.

L’idea che non fossero umani, che non ragionassero, che non amassero, che non avessero anima, gli rendeva l’omicidio a sangue freddo più semplice.

Però, per quanto ci provasse, non poteva scordarsi lo sguardo determinato della ragazza dalle mani rosa e mai, mai avrebbe potuto dimenticare la voce di suo fratello e i suoi polpastrelli azzurri come sarebbe dovuto essere il cielo dietro quella coltre opprimente di fumo nero.

La notte pareva identica a tutte le altre. Akaashi faceva la ronda sulle mura, guardando in basso, nei vicoli, in cerca di qualche bagliore, in cerca di colore. Erano diversi giorni che non si verificavano attività inconsuete, almeno non in sua presenza.

I Maji lasciavano nell’aria una traccia permanente, soprattutto se avevano praticato la loro arte. I membri della guardia imparavano a farci l’abitudine ed erano capaci di individuare il segno del passaggio di un Maji in pochi secondi. Si imprimeva sull’interno delle palpebre, indelebile, come una sentenza.

Perciò Akaashi si voltò di scatto, come se qualcuno avesse gridato il suo nome nel silenzio assoluto.

Guardò in basso, diversi piedi sotto di lui, dove una luce aveva attirato la sua attenzione.

Niente a che vedere con le smorte lampade bianche dei civili che si aggiravano di notte tra le strade della città come vermi tra i cunicoli del sottosuolo.

No.

Questo era oro. Oro puro, oro liquido, il colore più sorprendente che Akaashi avesse mai visto, più sfolgorante dei lampi, che, occasionalmente, fendevano le nuvole e illuminavano la crosta nera e sterile della terra.

Lanciò un’occhiata alla sua destra e si rese conto che le scale più vicine erano fuori dalla sua portata, allora scavalcò la ringhiera con un balzo e si lasciò cadere. Atterrò piegando le ginocchia per attutire il salto e premendo il palmo contro il suolo polveroso.

Raddrizzandosi, imboccò la strada ebbra d’oro, luminosa quanto avrebbe potuto essere una chiesa, migliaia di anni fa, nel pieno del giorno, riscaldata dal sole. Ne raggiunse la fine e si fermò.

Vide, circondato da spire dorate, un ragazzo a occhi chiusi. Sorrideva e lasciava che la magia fluisse fuori dal suo corpo, annodandosi ai capelli colorati di nero e di bianco e dritti sulla testa, inondando il vico e arrampicandosi sulle pareti umide.

Akaashi non ne aveva mai vista così tanta in una volta sola. Se ne sentì avvolto, consolato, cullato.

Poi si riscosse.

Imbracciò il fucile e si avvicinò al ragazzo, puntandogli la canna alla tempia.

Il Maji non smise di sorridere, ma aprì gli occhi e Akaashi, nella luce della magia, notò che erano ciechi e non potevano colmarsi dello spettacolo a cui quella città crudele e quel piccolo, insignificante e disperato soldato stavano assistendo.

“Mamma l’aveva detto,” disse il Maji. “Ma io non ce la facevo più.”

Prese un grosso respiro, “Sono pronto.”

Serrò di nuovo le palpebre, ma le sue mani non fremettero e continuarono a illuminare la notte come fari.

Akaashi guardò il Maji, incuriosito, e furono le sue di mani a vacillare.

Dai Dansei ci si aspettava rigore, ci si aspettava un esercito di guerrieri senza pietà, però, quel volto così disteso e beato; certo che la morte stesse per arrivare e non per questo spaventato, né tremante, né implorante, ma rassegnato; mosse qualcosa in Akaashi.

Avrebbe avuto lo stesso coraggio, al posto di quel ragazzo? Avrebbe tremato, implorato, strisciato? O avrebbe affrontato tutto a testa alta e a occhi chiusi con un sorriso appagato sulle labbra?

Abbassò il fucile.

Il Maji riaprì gli occhi. “Perché?”

“Ti hanno mai detto di che colore è la tua magia?” Akaashi si morse il labbro, chiedendosi quale fosse il motivo per cui quella fosse stata la prima frase a uscirgli di bocca.

“E’ la prima volta che la uso sul serio,” rispose il Maji, stringendosi nelle spalle e puntando gli occhi vacui appena al di sopra della testa di Akaashi. “Di che colore è?”

“Del colore della luce.”

“Ed è una buona cosa?”

“Per un mondo che ne è privo può essere una maledizione, o una benedizione.”

“Perché non mi uccidi?” domandò il ragazzo. “Mia madre dice che è questo che fate qui.”

“Non lo so,” disse Akaashi.

Non lo sapeva davvero.

Quel Maji sarebbe stato la sua decima vittima. Dopo di lui avrebbe ricevuto una promozione, eppure tutto cominciava a sembrargli vano.

La sua vita non era nient’altro che lo stelo di un fiore appassito.

Aveva bisogno di luce.

“Perché vi ostinate a fare magie?” chiese. “Perché rischiare tanto?”

“La magia non ci appartiene, soldato.” Il Maji serrò i pugni e strozzò le spire nella sua stretta. “Noi siamo veicoli, servitori, contenitori. Essa è in perpetua trasformazione e accrescimento. Arriva il momento, quindi, per ogni uomo con il dono, di esternarlo, affinché non lo consumi dall’interno. E’ questo quello che dice mamma.”

“Continui a nominarla.” Akaashi riflettè su quelle nuove, inquietanti informazioni. Se non erano i Maji a comandare la magia e se quest’ultima era impulso vitale, che senso aveva quella faida tra le loro razze? E cosa voleva da loro quell’entità che chiamavano magia?

“Perchè lei è come me. Ci proteggiamo a vicenda,” dichiarò il Maji. “Però oggi sono scappato. Sarà preoccupata.”

Il ragazzo si piegò su se stesso, come se la consapevolezza di aver causato del dolore a sua madre lo corrodesse dentro, peggio di come faceva quell’essere che si era impossessato del suo corpo.

“Dove abitate?” chiese Akaashi, conscio del fatto che, anche se lo avesse riportato a casa, da sua madre, avrebbe avuto vita breve.

Le sue tracce erano ovunque, impregnavano la roccia e ne colavano come miele. Presto gli altri Dansei di turno li avrebbero raggiunti.

Non c’era tempo da perdere.

Il Maji scosse la testa e Akaashi si rese contò dell’assurdità della sua domanda. Ovvio che non poteva saperlo.

“Non puoi restare qui,” gli disse. “Ti uccideranno.”

“Perchè non lo fai tu?” chiese il ragazzo.

“Sono stanco.”

Il Maji corrugò le sopracciglia e annuì. “Mamma dice che chi riesce a uscire da queste mura viene salvato da quelli della Rivolta, ma che uscirne vivi è difficilissimo.”

Kodoku era una fortezza inespugnabile che si estendeva come una malattia mortale, come una goccia di acido corrosivo e accresceva le sue dimensioni ogni anno, ogni giorno, ogni secondo.

I vicoli si moltiplicavano e intricavano su se stessi, le direzioni e le dimensioni perdevano senso e misura.

Definirla un labirinto sarebbe stato riduttivo.

Però Akaashi era un Dansei e, una volta a settimana, presidiava una delle brecce nelle mura.

Il suo cuore prese a martellare nel petto come non faceva da tanto, troppo tempo.

Per la prima volta da quando suo fratello era morto, si sentì in grado di scegliere e di agire.

Tutti quegli anni e aveva sempre saputo che la verità era un’altra, non quella che gli propinavano. Eppure non aveva fatto niente. Nulla era riuscito a smuoverlo dal suo stato di apatia e torpore.

Adesso, però, aveva incontrato un portatore di luce con una sentenza di morte scritta nell’aria attorno a sè.

Akaashi scosse la testa e scelse di assumersi un compito, uno che valesse la pena perseguire.

Per la prima volta da quando il fratello era morto, non si sentiva un verme.

Afferrò la mano del Maji. Era calda, era vita, era giustizia.

“Come ti chiami?” gli chiese.

“Bokuto Koutarou.” Sorrise di nuovo e questa volta gli occhi di Akaashi si riempirono di lacrime.

“Akaashi Keiji,” disse, ignorando il groppo che gli impediva di ingoiare. “Sei sicuro che verranno a  prenderti se esci dalle mura?”

“E’ quello che dice mia madre,” Bokuto scrollò le spalle. “Me la caverò comunque.”

Akaashi rafforzò la stretta. “Allora andiamo.”

Condusse Bokuto attraverso i vicoli e i cunicoli di Kodoku. Animato da qualcosa a cui non sapeva dare un nome, Akaashi sentiva il cuore gonfiarsi nel petto e minacciare di scoppiargli.

Finalmente sapeva che i Maji non erano pericolosi, finalmente poteva fare qualcosa di buono, qualcosa che forse, alla fine, lo avrebbe salvato dall’inferno.

Giunsero alla porta orientale e Akaashi scoprì, con sollievo, che il Dansei di guardia non era in posizione, probabilmente stava completando il suo giro di ronda.

Tuttavia, non poteva prevedere quando sarebbe tornato, perciò dovevano fare presto.

“Eccoci. Va’,” disse, tirando Bokuto per la mano e indirizzandolo sulla strada giusta.

“Grazie, Akaashi,” rispose il Maji. “Sapevo che non eravate tutti cattivi. Lo dicevo a mia madre, ma lei non mi dava ascolto.”

Il viso gli si contrasse in una smorfia di dolore e Akaashi si accorse che non riusciva a sopportarne la vista. “Se dovessi incontrarla…dille che sto bene.”

“Te lo prometto.”

Bokuto lo abbracciò di slancio e Akaashi si strinse a lui, incapace di fare altro, e si aggrappò alla sua schiena in cerca di un appiglio.

Respirò la luce sulla sua pelle e pensò che quel tipo di magia non poteva essere dannoso, che nel mondo circolavano idee insensate e irreversibili e che una singola opinione poteva sconvolgere leggi universali.

E non era giusto.

Akaashi sentì le lacrime bruciargli le palpebre.

“Porterò la rivoluzione,” disse Bokuto. “E libererò tutti. L’ho sempre voluto.”

Akaashi si era sempre sentito lacerato ad imbracciare un fucile contro qualcosa che gli sembrava bellissimo e adesso capì che c’era bisogno di un cambiamento radicale.

Bisognava scardinare il mondo e rifarlo da capo.

Aspettare non sarebbe servito a nulla.

Adesso, spettava a loro.

Annuì e Bokuto si staccò da lui e varcò le mura. “Potresti venire con me, se ti va,” sussurrò, senza voltarsi.

Kodoku era una città crudele, corrotta, marcia, ma non irrecuperabile.

C’erano ancora scintille di speranza tra le sue strade che si rifiutavano di spegnersi, c’erano ancora migliaia di Maji che rischiavano la vita ogni giorno, ogni ora.

Akaashi ne aveva aiutato uno, ma gli altri erano molti, troppi.

 “Verrò, ma non ora,” gli rispose Akaashi, “E poi ho un messaggio importante da recapitare a tua madre, ricordi?”

Bokuto si voltò e i suoi occhi si mossero in ogni direzione, non posandosi mai su nulla. Sorrise e in lui c’era il sole. Sorrise e Akaashi non si era mai sentito così vicino al cielo. Sorrise e stava piangendo.
Si voltò e cominciò ad allontanarsi nella notte. Man mano che avanzava, la luce dorata lo circondava, facendogli da scudo contro il buio.

Sul palmo della mano di Akaashi era rimasta l’impronta della magia. Era una traccia forte, fin troppo facile da individuare.

Non passò molto tempo che un clangore di armi e stivali si fece largo lungo la strada fino alle sue orecchie.

 Akaashi serrò il pugno e prese a correre.
   
 
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