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Autore: heliodor    17/10/2017    2 recensioni
Joyce è nata senza poteri in un mondo dove la stregoneria regna sovrana. Figlia di potenti stregoni, è cresciuta al riparo dai pericoli del mondo esterno, sognando l'avventura della sua vita tra principi valorosi e duelli magici.
Quando scoppia la guerra contro l'arcistregone Malag, Joyce prende una decisione: imparerà la magia proibita per seguire il suo destino, anche se questo potrebbe costarle la vita...
Tra guerre, tradimenti, amori cortesi e duelli magici Joyce forgerà il suo destino e quello di un intero mondo.
Fate un bel respiro, rilassatevi e gettatevi a capofitto nell'avventura più fitta. Joyce vi terrà compagnia a lungo su queste pagine.
Buona lettura!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Anaterra'
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Il Mare di Fuoco

Dei vi prego, salvatemi, pensò Joyce in uno dei suoi rari momenti di lucidità.
Il sole era alto nel cielo e lei si trascinava da tre giorni tra dune e valli di sabbia interminabili. Non beveva né mangiava da quando era arrivata in quel posto orribile.
Una parte di sé sapeva che tra due o tre giorni al massimo sarebbe morta. Forse prima se il suo corpo cedeva alla fatica.
Più di una volta pensò di stendersi sulla sabbia e aspettare la morte, ma ogni volta riusciva a trovare le forze per fare un altro passo avanti e poi un altro ancora e ancora e ancora... finché il pensiero di farla finita non tornava e allora il ciclo riprendeva.
Di giorno il sole picchiava così forte che la fronte le scottava come se avesse la febbre, ma di notte era anche peggio.
Invece del fresco ristoratore, la temperatura calava così tanto che le sembrava di gelare. Dormiva rannicchiata su se stessa per cercare di trattenere il calore, i denti che le battevano così forte da non farle prendere sonno.
E al mattino, quando il sole sorgeva, tornava il caldo asfissiante.
Ogni tanto qualche viso a lei noto la veniva a trovare nel delirio febbricitante in cui si trovava in ogni momento.
A volte era il viso di sua madre, a volte quello di suo padre e dei suoi fratelli. Una volta aveva visto persino Mythey. E poi anche Fennir, Rancey e Wena. E il principe Tharry. Ma quelli che vedeva più spesso erano Vyncent e Oren.
E Bryce.
Lei più di tutti gli altri.
Non si erano lasciate bene. Per settimane, prima del suo matrimonio, non si erano né viste né parlate. Quando sua sorella si recava in visita al palazzo lei trovava sempre una scusa per rintanarsi nella sua stanza e aspettava di vederla ripartire col suo cavallo.
Era stata proprio una stupida.
Che importava se Bryce amava Vyncent? Aveva il diritto di amare chi le pareva e lei non poteva farci niente.
Si era comportata come la ragazzina viziata che tutti dicevano che fosse. Aveva puntato i piedi rifiutandosi di guardare in faccia la realtà.
Poi Bryce era venuta a salvarla.
Lei e Rancey si erano battuti in un duello magico, come nei romanzi?
Bryce era sopravvissuta?
Era ferita l'ultima volta che l'aveva vista.
E Oren? E Vyncent? E suo padre?
Dove siete?, pensò disperata.
Venite a salvarmi.
Inciampò e cadde, rotolando lungo il pendio di una duna. Le era già capitato altre volte e sapeva che era inutile opporsi.
Segui il destino.
Ti ho rubato il destino, aveva detto Robern.
Ma come si fa a rubare il destino di una persona? Bisogna essere dei ladri molto abili.
Robern era un ladro?
Aprì gli occhi.
Da quanto tempo era lì distesa sotto il sole? Sentiva la pelle arderle come se vi avessero passato sopra un ferro rovente. Cercò di alzare un braccio, ma non ne aveva la forza.
Era così stremata da non riuscire a muovere un solo muscolo. Alla fine quel momento era giunto. Ora sarebbe morta, da sola, in quel luogo infame.
Senza aver mai rivisto Bryce, o Vyncent o Oren o...
Un viso che non aveva mai visto torreggiava su di lei riempiendo il cielo. Un viso dalla pelle color nocciola, grandi occhi neri e un sorriso incerto. Muoveva le labbra ma lei non sentiva.
I suoni le giungevano ovattati.
Buio.
Luce.
Poi ancora buio.
Qualcosa di fresco sulla fronte, sulle labbra. Una pressione delicata. L'odore penetrante di qualcosa che stava bruciando.
Voci.
"Vivrà?"
"È presto per dirlo."
"Aiutami a girarla."
"Attento alla gamba."
"I suoi capelli..."
"Alil, vai a prendere dell'altra acqua per favore."
"Sì, zia."
Il sole che filtrava da un imposta. L'odore di lenzuola fresche posate sul suo corpo martoriato. Gli occhi che le bruciavano e lacrimavano.
Infine la sensazione di avere la gola così secca che le sembrava di aver ingoiato sabbia rovente.
"Mi senti?" chiese la donna. Era accovacciata al suo fianco, le mani immerse in una bacinella colma d'acqua profumata.
Il suo viso era del colore della notte, grandi occhi scuri e capelli lisci e neri. Di rado aveva visto persone con quei caratteri, ma sapeva che nel vecchio continente erano molto più comuni che nel grande, abitato in larga parte da persone con la pelle e i capelli chiari. Elvana era una di loro.
Joyce era distesa sul giaciglio, la testa sollevata grazie a un cuscino. Mosse appena gli occhi facendoli vagare a caso.
La stanza era spoglia. Mura color sabbia e un paio di finestre dalle quali filtrava la luce del sole. Un lavabo in un angolo e un baule nell'altro. I suoi vestiti gettati su uno sgabello.
Respirò a fondo. "Dove?" La voce le uscì più simile a un rantolo.
"Non ti sforzare" disse la donna. "Sei ancora debole."
Joyce indossava una vestaglia bianca che le stava un po' larga. I piedi erano scalzi e i capelli arruffati. La splendida acconciatura che le ancelle le avevano fatto era del tutto sparita.
La donna strizzò un panno umido e glielo appoggiò sulla fronte. Joyce avvertì subito il fresco ristoro di quel tocco e vi si abbandonò grata.
Scivolò in un sonno leggero e quando si svegliò la donna non c'era.
Restò distesa sul giaciglio, immobile, cercando di raccogliere i pensieri. Era da qualche parte in mezzo al deserto. Non aveva visto case o villaggi né strade durante la sua marcia, ma sapeva che dovevano esistere da qualche parte. Il vecchio continente non era una landa disabitata e aveva sperato di incontrare qualcuno quando si era messa in viaggio.
Le era parsa una buona idea. Sempre meglio che attendere che qualcuno la venisse a salvare.
Alla fine si era salvata da sola, anche se con un piccolo aiuto.
La donna tornò quando il sole era basso. "Hai fame?" le chiese. "Ho preparato dell'ottima zuppa calda."
Joyce era affamata. "Mi piace."
La donna se ne andò e quando fu di ritorno aveva con se una ciotola di brodo fumante, un cucchiaio di legno e un ragazzino dall'aspetto smagrito ma dall'aria vivace che la seguiva in silenzio.
Joyce si buttò sulla zuppa e la divorò con poche cucchiaiate. Poi si ricordò dei due e rallentò. "È buona" disse con cortesia. In verità l'aveva trangugiata così in fretta che non aveva fatto in tempo ad assaporarla. "Come ti chiami?"
"Anjeza" disse la donna.
"Io sono... Sibyl." Non sapeva perché le aveva detto quel nome. Forse perché in quel momento desiderava essere l'intrepida strega che non ha paura di niente, invece della piccola e indifesa principessa che non aveva idea di dove si trovasse.
"Piacere di conoscervi, vostra grazia."
Joyce era abituata all'altra formula, quella riservata ai nobili. Stava per dire qualcosa, poi ricordò che lei adesso era Sibyl la strega. Joyce la principessa non c'era più. "E tu?" chiese indicando il ragazzino con un cenno della testa.
"Lui è Alil, il figlio di mia sorella."
"Piacere di conoscerti" disse Joyce sforzandosi di sorridere.
Il ragazzino la guardò con curiosità. "Perché hai i capelli rossi?"
"Sono nata così."
Alil sgranò gli occhi. "Non sono bianchi."
Certo che no, pensò Joyce. Ci mancherebbe solo questo. "Sono ancora troppo giovane per..."
Anjeza sorrise. "Perdonalo. Alil è abituato agli albini. Non è abituato a vedere streghe di un altro circolo."
"Gli albini?"
Anjeza si accigliò. "Non sai chi sono?"
Joyce decise di tenersi sul vago. "Io credo di essermi persa. Ero diretta a..." cercò di ricordare un qualsiasi luogo del vecchio continente. "... Nergathel" disse, ripensando alla povera Deliza e a quello che aveva passato con suo fratello Mirka.
Anjeza scosse la testa. "Mai sentito questo nome. Ora sei a Mar Qwara. O almeno nelle sue vicinanze."
"È una città?"
"La più grande che esista nel raggio di mille miglia."
Era già qualcosa. Le serviva un posto da cui poter raggiungere il mare, trovare un passaggio su di una nave e tornare a casa. "È molto distante?"
"Circa dieci miglia."
"Devo andarci."
Anjeza sorrise e scosse la testa. "Per ora devi riposare. Sei ancora molto debole."
Aveva ragione. Non riusciva a muovere un muscolo senza sentire dolore.
"Stanotte dormi e domani ti sentirai già meglio" disse Anjeza. "Andiamo Alil, lasciamo che Sibyl riposi."
I due lasciarono la stanza.
Rimasta sola, Joyce cercò di restare sveglia, ma la stanchezza prese il sopravvento e scivolò in un sonno pesante e senza sogni.
 
La mattina dopo fece colazione con del pane e dei cereali inzuppati nel latte di pecora. Sentendosi meglio si alzò e fece due passi per la stanza.
Dopo un paio di tentativi riuscì a stare in piedi senza cadere. Per prima cosa controllò i suoi vestiti.
Del suo splendido abito da sposa non era rimasto niente. Il delicato tessuto era strappato e lacero e sporco di sabbia. I delicati ricami erano scomparsi.
Poco male, si disse. Sull'altare era stata sul punto di dire a Vyncent che voleva tirarsi indietro, che non se la sentiva. Lo avrebbe fatto davvero? Avrebbe trovato il coraggio di andare fino in fondo?
Vyncent era l'amore della sua vita, il principe stregone che aveva sempre sognato e atteso come la principessa prigioniera nel castello attendeva l'eroe che venisse a liberarla.
Ma gli eventi successivi l'avevano cambiata e lei non era più sicura di niente, nemmeno di quello che voleva.
O chi.
Prima che Anjeza tornasse decise di uscire dalla stanza. La porta era un semplice pezzo di stoffa appeso a un'asticella di legno.
La scostò appena per vedere quello che c'era dall'altra parte. Le apparve un'altra stanza di forma ovale, con le solite pareti color ocra. Al centro vi era un focolare spento e lungo le mura delle panche. Stuoie dai colori sgargianti erano arrotolate lungo la parete.
C'era un buon odore che permeava l'ambiente.
Una ragazzina dagli occhi grandi la stava fissando da un angolo. In mano aveva una cesta piena di frutti di colore arancione.
Joyce le rivolse un cenno di saluto con la mano.
Per tutta risposta la ragazzina lasciò cadere la cesta di frutta e corse via.
"Ho un aspetto così terribile?" mormorò Joyce. Si chinò per raccogliere i frutti e li rimise nella cesta. Avevano un odore aspro che le solleticò le narici.
Quando ebbe finito mise la cesta vicino al focolare e sedette su una delle panche. Era di nuovo stanca, ma non esausta. Aveva solo bisogno di riprendere fiato.
In quel momento arrivò Anjeza in compagnia di Alil, della ragazzina e di un uomo anziano. "Per un attimo ho pensato che stessi male."
"Sto bene" disse Joyce. "Mi dispiace di averla spaventata."
"Bajula non ha mai visto un'albina" spiegò la donna. "È per questo che è scappata via. Non voleva mancarti di rispetto."
"È stata colpa mia" disse lei. "Non me la sono presa."
Bajula sedette in un angolo senza staccarle gli occhi di dosso.
Anche l'anziano la teneva sott'occhio, però il suo sguardo era più severo che curioso.
"Lui è Bruk, il capo del villaggio" disse Anjeza presentandolo. "Vorrebbe farti qualche domanda."
Era quello che temeva. Joyce sapeva che la sua presenza lì avrebbe sollevato delle curiosità e c'erano domande alle quali non sapeva e non poteva rispondere. Sperò che Bruk non gli rivolgesse nessuna delle due.
"Piacere di conoscerti, vostra grazia" disse l'anziano. Come Anjeza la sua pelle era scura e macchiata dal trascorrere degli anni. Gli occhi erano neri e i capelli ricci e corti. Indossava una lunga veste colorata che gli copriva tutto il corpo fino alle ginocchia.
"L'onore è mio, capo Bruk" disse Joyce cercando di essere educata.
"Io so che esistono streghe e stregoni dalla pelle bianca che non appartengono agli albini" disse Bruk. "A giudicare dal colore dei tuoi capelli, tu sei uno di quelli. È giusto?"
"È vero."
"Posso sapere da dove vieni e perché ti trovavi nel deserto?"
Ecco una delle domande alle quali non sapeva rispondere. Decise di improvvisare. "Sono in missione per il mio circolo. Vengo da Valonde."
"È un regno vicino?"
Scosse la testa. "No, molto lontano. Oltre il mare che divide le nostre terre."
Bruk si accigliò. "Mio zio una volta mi parlò del mare. È una specie di pozzanghera colma d'acqua, non è vero?"
"È molto più grande, ma più o meno è così."
"E dove eri diretta?"
"A Nergathel."
"Il regno delle ombre?"
Joyce non aveva idea che cosa significasse quella frase. Si limitò a scrollare le spalle. "È un regno lontano e io mi sono persa. Tutto qui."
"Perdersi nel deserto è molto pericoloso. È una vera fortuna che tu sia sopravvissuta. Però devo chiederti di andare via il prima possibile."
"Ho fatto qualcosa che vi ha offesi?" Joyce era sorpresa da quell'improvviso cambio di atteggiamento.
"No" disse Bruk. "Ma la tua presenza qui ci mette in difficoltà. Se gli albini dovessero trovarti potrebbero reagire male. Sono molto sospettosi."
Joyce voleva sapere chi fossero questi albini, ma la loro esistenza sembrava così scontata agli occhi di Bruk e Anjeza che chiederlo sarebbe sembrato sospetto. "Non voglio mettervi nei guai con gli albini" disse. "Me ne andrò non appena le mia gambe me lo permetteranno." Anche se non sapeva dove andare.
Bruk sembrò soddisfatto da quella risposta e si congedò.
"Alil" disse Anjeza. "Accompagna Bajula a casa sua."
Quando anche i due ragazzini se ne furono andati, la donna disse: "Perdona Bruk, ma non è più lo stesso da quando ha perso i suoi due adorati figli."
"Mi dispiace. Come sono morti?"
La donna sospirò. "Non sono morti. Sono stati gli albini a prenderli. Ma è come se lo fossero."
Joyce annuì senza sapere cos'altro aggiungere.
"Se intendi andare a Nergathel" proseguì Anjeza. "Devi per forza andare a Mar Qwara, anche se lì è pieno di albini. Ci sono molte carovane che partono verso i regni vicini e potrai trovare un passaggio."
"Grazie per l'informazione."
Quella notte faticò a prendere sonno, chiedendosi chi fossero questi misteriosi albini e perché avessero preso i figli di Bruk.
 
Il giorno dopo trovò la forza per concedersi un piccolo giro del villaggio.
L'abitato era un grumo di case concentrate vicino a un'oasi che sorgeva nel deserto. C'era una fonte d'acqua dalla quale gli abitanti attingevano per dissetarsi e irrigare i campi coltivati.
Nell'ocre uniformità del deserto quel tappeto di verde rigoglioso era uno spettacolo stupendo per gli occhi.
Gli anziani lavoravano nei campi dalla mattina alla sera cercando di strappare qualche lembo di terra al deserto, mentre i ragazzini badavano agli animali, un centinaio di capre che pascolavano libere per i prati che circondavano il villaggio.
Mentre si guardava in girò non notò che vecchi e giovanissimi.
"Dove sono gli adulti?" chiese ad Anjeza quella sera.
"Sono stati presi dagli albini" rispose la donna.
"Tutti quanti?"
"I più forti, quelli che si reggevano in piedi. Hanno lasciato solo i vecchi, i bambini e i deboli."
Joyce era sconvolta sia dalla notizia sia dall'assoluta tranquillità della donna. "Perché?"
Anjeza scrollò le spalle. "Agli albini servono braccia forti per scavare nella montagna sacra."
"Montagna sacra?"
"Il monte che sorge a poche miglia dalla capitale Mar Qwara."
"E non possono scavare da soli nella loro montagna?"
"Gli albini non fanno lavori pesanti. Non coltivano la terra, non commerciano, non allevano gli animali."
"E che cosa fanno?"
"Loro..."
Alil arrivò di corsa. "Zia Anjeza" gridò. "Zia."
"Alil" disse la donna. "Cos'hai da urlare così tanto?"
"Stanno arrivando dei cavalieri" disse il ragazzino indicando il deserto. "Li ha visti anche Ezo."
Anjeza fissò le dune preoccupata. "Sibyl, torna in casa e non uscire per nessun motivo."
"Che succede?"
"Per favore, fai come ti dico."
Joyce tornò in casa e andò nella sua stanza. Nel frattempo la notizia dei cavalieri si diffuse nel villaggio e gli anziani tornarono dai campi. I ragazzi vennero mandati nelle case e fu ordinato loro di non uscire.
Joyce si avvicinò alle imposte e sbirciò fuori. Da quel punto poteva vedere il centro del villaggio e il pozzo.
Parecchi anziani si erano radunati lì in attesa, compresi Bruk e Anjeza.
I cavalieri arrivano qualche minuto dopo.
Si trattava di sei uomini. Cinque di essi indossavano delle armature ed erano armati di lance e scudi.
Il sesto, che guidava il gruppo, era vestito con una lunga veste color porpora. La sua pelle era bianca come il latte e i capelli erano dello stesso colore. Gli occhi di un blu intenso scrutavano con ostilità gli abitanti del villaggio.
È quello uno degli albini?, si chiese Joyce.
"Voi" disse rivolgendosi ai presenti. "Chi è il capo qui?"
Bruk fece un passo avanti. "Vostra grazia, sono io. Mi chiamo..."
"Non ti ho chiesto il tuo nome" lo interruppe l'uomo. "Dove sono gli adulti? Vedo solo vecchi."
"Sono stati portati via due mesi fa, vostra grazia."
L'albino rivolse un'occhiata furente al vecchio. "Mi stai dicendo che ho fatto un viaggio a vuoto?"
Bruk si curvò in avanti. "Vostra grazia..."
"Tu" disse l'albino indicando una donna. "Portami dell'acqua."
La donna corse al pozzo e riempì una caraffa d'acqua. La portò all'albino, che bevve una breve sorsata.
L'uomo sputò l'acqua a terra e gettò via la caraffa, rovesciando l'acqua. "È putrida" disse furioso. "Stai cercando di uccidermi?"
"No vostra grazia. È l'acqua che beviamo anche noi."
"È per questo che avete un aspetto così orribile?" L'albino si rivolse a uno dei soldati. "Qualcuno ha dimenticato di mettere questo villaggio nella lista di quelli che abbiamo già visitato. Quando tornerò al circolo farò rapporto a Kwame. Il responsabile dovrà pagare per questo."
"Sì vostra grazia" disse il soldato.
Una donna si staccò dal gruppo degli abitanti e si inginocchiò ai piedi dell'albino. "Vostra grazia" disse sfiorandogli i piedi.
"Come osi?" L'albino la colpì con un calcio alla spalla.
La donna gemette per il dolore. "Vostra grazia, mio figlio e mio marito sono stai presi un anno fa. Da allora non li ho più visti."
"Cosa vuoi che me ne importi?" disse l'albino. Quasi calpestò la donna col cavallo. "Non osare più toccarmi."
Joyce sentì il sangue ribollirle nelle vene.
"Vostra grazia..." fece la donna allungando le mani verso i piedi dell'uomo.
L'albino sollevò il braccio e qualcosa brillò nel suo palmo. Un dardo esplose colpendo la donna alla spalla. Il contraccolpo la spinse lontano.
Anjeza e altre due donne corsero verso di lei e la trascinarono via. La donna perdeva sangue da una ferita e si lamentava, ma non sembrava in pericolo di vita.
"L'avete visto tutti" disse l'albino a voce alta. "Ha cercato di aggredirmi. È fortunata se oggi sono di buon umore e ho deciso di essere clemente con lei."
Gli abitanti del villaggio chinarono le teste.
"Mi avete offeso" disse l'albino. "Per punizione mi darete dieci capre. Le porterete domani in città e le consegnerete alla villa di Obasi. Avete capito?" Guardò Bruk. "Se domani non avrò quelle bestie, verrò qui e me ne prenderò venti. E prenderò anche venti di voi. Hai capito?"
Bruk annuì.
Joyce era tentata di uscire e dare una lezione a Obasi. Se lo prendeva di sorpresa poteva piazzare un paio di dardi magici nel suo petto.
Poi pensò che altri sarebbero arrivati dopo di lui, curiosi di sapere che cosa era accaduto all'albino. Una volta scoperto quello che aveva fatto, l'avrebbero punita. E se lei fosse sparita prima del loro arrivo, se la sarebbero presa con gli abitanti del villaggio.
Doveva mantenere la calma e rimandare la vendetta a un momento migliore.
Obasi fece voltare il cavallo e si allontanò. I soldati lo seguirono.
Quando sparirono dietro le dune, gli abitanti del villaggio si dispersero.
Anjeza aiutò la donna ferita a tornare alla sua abitazione. Mentre altre tre donne si occupavano di lei andò da Joyce.
"Ora hai visto che cosa fanno gli albini" disse.
"È uno stregone" disse Joyce. "Sono tutti come lui?"
Anjeza annuì. "A Mar Qwara solo gli albini nascono con i poteri. È per questo che Alil credeva che tu fossi una strega."
"Non dovete dargli quelle capre. Servono a voi."
"Se non lo faremo Obasi tornerà. E stavolta non sarà da solo. Porterà altri con se."
"Ma non è giusto."
"È così da sempre" disse la donna rassegnata. "Domani manderò Alil con le capre."
"Io andrò con lui" disse Joyce.
"Sei ancora troppo debole."
"Voglio vedere con i miei occhi la loro città" rispose.
Anjeza sospirò. "So che cosa stai pensando, ma non c'è bisogno che tu ci difenda. Gli albini possono essere crudeli con noi certe volte, ma possono esserlo di più verso gli stranieri."
Joyce si accigliò.
"Non si fidano di nessuno" proseguì la donna. "Se davvero vuoi andare a Mar Qwara devi trovare il modo di non attirare troppo l'attenzione o il circolo si insospettirà."
"Starò attenta" disse lei con tono sicuro. Stava già pensando a un buon piano per entrare in città senza destare sospetti.

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