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Autore: ArtemisiaSando    20/10/2017    0 recensioni
[Arkhamverse]
April, giovane medico di Boston, a soli ventinove anni capisce di aver messo in pausa la propria vita per perseguire una carriera che l'ha condotta ormai alla solitudine di un appartamento vuoto fra i mattoni cotti dal sole della capitale del Massachusetts.
Quel bisogno di amore e famiglia che per anni, dopo la morte di suo padre, ha allontanato come una malattia senza mai desiderarlo per se stessa, torna con insistenza alla porta del suo cuore imponendole un cambiamento di rotta.
Ingoiando la paura che per una vita intera ha guidato i suoi passi, decide di accettare un lavoro nella famigerata metropoli del crimine, lasciandosi alle spalle un passato logoro e le vecchie abitudini.
Si trasferisce così a Gotham City. Una città che, con le sue contraddizioni, i suoi miti e le sue tetre leggende, riuscirà a coinvolgerla in modi inaspettati cambiando il corso della sua esistenza per sempre.
[Questo racconto è ispirato all'opera videoludica Rocksteady "Batman: Arkham Knight" e fa riferimento agli avvenimenti accaduti nel gioco e nel relativo prequel comic.]
Genere: Azione, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alfred Pennyworth, Batman, Joker, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
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~9~ Who's afraid of a machine gun?

Nei giorni che seguirono l'autunno morì prematuramente, lasciando che un bizzoso inverno s'instillasse con prepotenza fra le strade affollate in un perpetuo viavai. I gothamiti ormai battevano i denti nelle giacche ancora ostinatamente leggere ed un cielo color piombo si era appiccicato alle cime dei palazzi come un manifesto ormai sbiadito dalle intemperie.

Il gigante brunito che, il giorno del suo arrivo in treno, si stiracchiava nella luce riflessa dei grattacieli oltre il finestrino, era entrato all'improvviso in una curiosa stasi di nebbia e umidità, quasi fosse precipitato sul fondo dell'oceano.

Fuori dalla grande vetrata, all'ultimo piano della tozza palazzina all'incrocio fra la settima e l'undicesima, i giorni si confondevano in una bruma biancastra che risaliva imperterrita la facciata di mattoni, poi la scala antincendio, su fino al cornicione consumato dal vento e dalle piogge notturne.

Sarebbe stato facile, nella realtà sfilacciata di quel purgatorio di umidità e inquinamento, credere che le ultime settimane non fossero state nient'altro che un sogno.

Dove in lontananza si disperdeva la luce azzurrina che disegnava, giorno e notte, la gigantesca W in cima al grattacielo delle Wayne Enterprises, perdeva consistenza anche il ricordo dell'uomo che aveva preso la spiacevole abitudine di entrare ed uscire dalla sua vita a piacimento.

Era stato davvero così semplice per Bruce Wayne? Bello da far girare la testa, atletico e miliardario?

Lo era stato di sicuro. Più ripensava a quello che era successo, più si stupiva di essere caduta in quel trucchetto.

Qualche sguardo languido ben assestato, chiacchiere pretenziosamente intime di fronte ad un cocktail e ci era cascata con tutte le scarpe. Non sapeva un bel niente di lui, a parte qualche informazione che avrebbe potuto facilmente reperire su internet o su un qualsiasi giornaletto scandalistico da due soldi.

Quello che non riusciva a capire era il perché continuasse a cercarla, solo per tenerla meticolosamente fuori dalla propria vita con la precisione ossessiva di un chirurgo.

Le relazioni amorose non erano mai state il suo forte, ma sapeva per certo che escludersi vicendevolmente a quel modo non era un buon modo per iniziare ed April aveva la sua parte di colpa. Non sapeva quello che voleva da se stessa, figuriamoci ciò che avrebbe voluto da lui.

Lambiccarsi il cervello, d'altra parte, sarebbe servito ben poco alla propria autostima e con l'ospedale in subbuglio di certo non poteva prendersi il tempo necessario per rifletterci in tutta calma.

Pronto soccorso e reparto d'urgenza venivano giornalmente subissati da numeri impressionanti di piccoli delinquenti e tirapiedi della peggior specie, tutti con in comune una storia da raccontare.

Ossa fratturate, lividi, tagli e denti fuori posto. Con il terrore negli occhi confabulavano di un gigantesco pipistrello, il misterioso vigilante di Gotham, che feriva decine di criminali abbastanza seriamente da richiedere un ricovero in ospedale, ma senza mai ucciderne nessuno.

April cominciava ad essere davvero spaventata da quei racconti. Quel Batman, che si vociferava vigilasse insonne sulle strade e sui vicoli bui della città, aveva infine preso forma nei suoi pensieri, una forma ripugnante e temibile. Uno sguardo malevolo ed impietoso che pareva avesse l'abilità di spandersi ovunque a Gotham, persino nel cuore delle persone.

Si era guadagnato la fedeltà e la stima di buona parte dei cittadini di Gotham al prezzo del sovraffollamento dell'ospedale, delle ossa frantumate degli uomini su cui si era abbattuto.

Eppure le notti a Gotham erano più sicure, dicevano, per merito suo. Notti che sempre più spesso si ritrovò a dover trascorrere fra quelle asettiche mura di cemento e linoleum. 

Fino a quel giorno maledetto.

Il sole era tramontato presto la sera del 3 ottobre ed April se ne accorse solo a giro visite finito, mentre con le colleghe percorreva a ritroso il lungo corridoio del decimo piano diretta alla sala medici ed al conforto di un caffè prima di affrontare la lunga notte.

Un'unica lastra nera scorreva limpida fuori dalle spesse vetrate, interrotta solo a tratti dalle luci pulsanti delle strade e dai lumicini lontani dei grattacieli circostanti. Delle nubi temporalesche dei giorni precedenti non restava neppure l'ombra.

L'ora di cena era già passata, ma nell'aria aleggiava ancora l'odore familiare e desolante del pasto d'ospedale, misto a quello di medicinali ed antisettici. Le dottoresse chiacchieravano sommessamente per non disturbare i pazienti nelle stanze già chiuse, di sottofondo solo il ronzio ovattato delle lampade alogene disturbato a tratti dal vocio di una televisione accesa.

Poi nella quiete uno strappo. Quasi quel cielo pece si fosse all'improvviso squarciato come un lenzuolo vecchio, in qualche punto non lontano dal palazzo. Un boato risalì dal suolo, un cupo ruggito dalle viscere della terra, in un tremito che scosse pavimenti e finestre, costringendo le tre ragazze ad aggrapparsi ai corrimani d'emergenza per non rovinare a terra.

Dopo un lunghissimo istante di fatale silenzio, in cui l'intero edificio sembrava aver trattenuto il respiro in attesa di qualcosa, dalle stanze emersero grida di terrore, mentre i vetri s'incrinavano come scrollati da una forza invisibile.

I neon sfarfallarono pericolosamente sopra le loro teste e, con un unico schiocco secco, tre squilli di sirena annunciarono il blocco d'emergenza.

Senza neppure osare esprimere a parole i propri timori, ingoiando la paura che affiorava insieme ad un tremito incontrollabile, le dottoresse si divisero immediatamente secondo lo schema che era stato loro meticolosamente insegnato nelle esercitazioni.

Sapendo di non poter perdere la testa, raggiunsero ciascuna una corsia del decimo piano, bypassando con il badge dell'ospedale il blocco delle porte sterili.

Un denso fumo grigio si fece strada attraverso i condotti di ventilazione, serpeggiando sul linoleum verde chiaro mentre April passava in rassegna le stanze con la rigidità di un automa, mascherando le proprie valutazioni su un'eventuale evacuazione con un tentativo di calmare i degenti terrorizzati.

Chiunque l'avesse vista in quel momento si sarebbe certo complimentato per il suo sangue freddo, la realtà non sarebbe potuta essere più diversa. Stava solo ripetendo meccanicamente qualcosa che aveva imparato una volta, da qualche parte, non lo sapeva più, era così difficile pensare con il rombo del cuore nelle orecchie.

Sentiva le loro voci, ma alla sua coscienza sembravano arrivare col ritardo di un'eco, di una radio dalla cattiva ricezione. Avrebbe voluto fermarsi a riflettere, ma allo stesso tempo era dannatamente sicura che se l'avesse fatto, avrebbe finito col ritrovarsi anche lei risucchiata in un attacco d'ansia.

Se non era riuscito ad arrivare alla sua mente, perlomeno non completamente, di certo il panico si era impossessato del suo corpo. Stava tremando e se ne accorse solo quando perse involontariamente la presa su una boccetta di valium. Il vetro si frantumò ai suoi piedi ad una lentezza esasperante.

Erano soli, tagliati fuori dal resto dell'edificio, senza notizie su cosa fosse accaduto, su chi fosse rimasto coinvolto e da cosa.

Con i primi, inconfondibili, rumori di spari, il buio calò sul piano prima che si azionassero con un lieve ronzio i generatori d'emergenza. L'aria era di nuovo ferma, satura di qualcosa che April non aveva mai provato prima, non era solo paura, ma qualcosa di più tangibile, di più profondo.

Di nuovo silenzio, poi con uno schiocco assordante che riaprì molte delle gole asciutte intorno a lei, gli allarmi del piano scattarono contemporaneamente, dando il via al piano di evacuazione.

Da quando si era trasferita a Gotham non era mai stata coinvolta in un'esercitazione vera e propria, ma conosceva il protocollo, ricordava le lezioni che aveva seguito insieme a tutto il personale in tarda serata, anche se ora sembravano immagini sbiadite di un'altra epoca.

Sapeva che i generatori avrebbero convogliato tutta l'elettricità verso gli ascensori di emergenza bypassando il blocco, per consentire a medici e infermieri di spostare i pazienti sul tetto dove gli elicotteri avrebbero provveduto al trasferimento.

Mentre i battiti del cuore le rimbombavano nelle orecchie minacciando di sovrastare le sue parole, April cercò di spiegare brevemente il piano di emergenza. Avrebbero dovuto fidarsi di lei, prestarle tutta la loro collaborazione perché potessero essere evacuati in tutta sicurezza. Le tremava la voce, ma non avrebbe ceduto al conforto di accasciarsi in un angolo e piangere, lasciando ad altri quell'incombenza.

Con tutta la lucidità che le era rimasta riuscì a farli uscire dalle stanze, uno dopo l'altro, liberandoli da elettrodi e cannule il più velocemente possibile, evitando che qualcuno di loro nella foga strappasse gli aghi e rischiasse un'emorragia di cui non poteva occuparsi.

Si predispose a chiudere la fila, aiutando chi era impacciato nei movimenti a causa di punti di sutura ancora troppo freschi, mentre si avviavano nel corridoio in penombra, apparentemente deserto. Verso la salvezza o un ignoto pericolo.

Quando d'improvviso un colpo d'arma da fuoco fece saltare il quadro elettrico della porta sterile alle loro spalle, April avrebbe voluto gridare ma aveva la salivazione azzerata e i pensieri le si accavallavano nel cervello ad una velocità impressionante.

Cercò di far accelerare il passo, ma chiunque in buona forma fisica li avrebbe raggiunti in non meno di dieci secondi e quasi la ragazza cedette alla disperazione, quando la doppia porta rovinò al suolo con un tonfo assordante.

Ne vide emergere chiaramente quattro massicce figure e, per un istante che le parve interminabile, pregò con tutto il cuore che fossero poliziotti o perlomeno qualcuno in grado di aiutarla ad evacuare i pazienti.

Nulla si mosse finché la penombra non le restituì il rombo di quattro risate, sgradevoli, assordanti.

- E' un medico. – biascicò uno degli uomini a volto coperto, il fucile automatico che occhieggiava angosciante alla luce intermittente dei neon.

Fu una fuga senza speranza quella che April tentò per i propri pazienti e per se stessa, ma c'era ancora troppa distanza fra loro e l'ascensore, e gli aggressori godevano di un non trascurabile vantaggio fisico.

Come previsto, li raggiunsero senza fatica, senza fretta, lasciandosi il gusto di terrorizzarli, mentre le lame dei coltelli stridevano contro la parete lucida di linoleum.

In preda ad un istinto sconosciuto la ragazza si voltò a fronteggiarli, non sarebbe fuggita, non di fronte a quel tipo di uomini, la stessa risma di vigliacchi che aveva tolto la vita a suo padre. Quello più grosso si chinò su di lei, gli abiti luridi puzzavano di grasso e benzina.

- Fatti da parte, dolcezza. –

Era così vicino che l'odore di fumo e alcol scadente nel respiro le arrivò fino in gola. Non riuscì a reprimere un moto di disgusto, le unghie che si conficcavano nei palmi delle mani mentre le dita ruvide dell'aggressore raggiungevano il suo viso. Le sentiva stringere così forte da bloccarle la circolazione.

- Non vi permetterò di fare loro del male. – abbaiò sottraendosi con violenza alla presa, scioccata da quell'insano coraggio che non proveniva dalla parte cosciente del suo cervello.

I muscoli erano in fiamme e le guance pulsavano terribilmente in sincronia col treno che le correva nel petto.

Non era il momento di giocare a fare l'eroina, non poteva certo risparmiare nessuno dal male che avrebbero potuto fare a chiunque di loro, e l'avrebbero fatto, glielo leggeva chiaro in faccia.

Eppure un tarlo insistente nella sua testa continuava a suggerirle che se avevano assaltato in quel modo un ospedale non era stato certo per assassinare una manciata di medici, ma per assicurarsi farmaci e cure gratuite, incuranti dell'illegalità.

- Voglio proprio vedere come ... - ribatté quello a denti serrati, un ghigno sdentato attraverso il passamontagna, ma gli occhi neri, furiosi, baluginavano come pozze d'acqua stagnante.

Accadde tutto in poche frazioni di secondo. No, non al ritmo rallentato dei film dell'orrore, ma ad una velocità lucida, nauseante.

Il braccio armato dell'uomo si sollevò all'improvviso per sferrare un colpo. April serrò istintivamente le palpebre, tendendo i muscoli, pronta a ricevere in pieno volto il calcio di fucile che avrebbe dovuto tramortirla. Invece nulla.

Un istante più tardi il rumore di uno sparo esplose a pochi centimetri da lei, assordandola.

Una delle luci al neon del soffitto, ormai in frantumi, gettava scintille rosse sui presenti. Attraverso il soffitto squarciato, un intrico di vecchie tubature borbottava e sbuffava, congelando la scena su quella nuova falce d'ombra.

Poi qualcuno gridò. Qualcuno di loro.

Uno degli uomini incappucciati venne atterrato in una frazione di secondo da qualcosa che, dietro di sé, lasciò solo un corpo esanime e nient'altro. Il panico dilagò in quei pochi metri di corridoio come una folata di vento gelido, portando con sé qualcosa di stonato e terribile.

Con le orecchie che fischiavano, April dovette sbattere le palpebre un paio di volte per mettere di nuovo a fuoco l'ambiente mentre la luce sfarfallava pericolosamente, a tratti svaniva, quasi qualcosa di inumano fosse piombato fra loro. Trattenne inconsciamente il respiro per un interminabile momento, senza poter calmare il battito assordante del cuore, e allora la vide.

Una gigantesca ombra nera si era frapposta alla sua visuale, deviando miracolosamente il colpo di fucile con un sordo clang. Un istante ed era già sparita, senza poterne afferrare i contorni, portando con sé un altro degli uomini con il passamontagna.

- Cazzo! È lui! –

Minacce e bestemmie invasero il corridoio, mentre una sconosciuta ed apparentemente inafferrabile minaccia stava terrorizzando i loro assalitori.

Una nuova raffica di spari la scosse dal torpore e la ragazza si gettò istintivamente in ginocchio, lasciandosi sfuggire qualcosa che non assomigliava affatto ad un grido, piuttosto ad un singulto strozzato. Strinse a sé la paziente più giovane, paralizzata a pochi passi da lei, chinando la testa di entrambe.

I rumori che seguirono terrorizzarono le sue notti nei mesi a seguire. Alcuni non li riconobbe, ma altri si, assomigliavano allo schioccare di ossa spezzate.

Avrebbe voluto gridare per la violenza inaudita che si stava consumando alle sue spalle, ma la paura le aveva tolto il respiro. Di una sola cosa era certa, c'era qualcun altro là con loro, una furia cieca, terribile.

- E' il pipistrello ... è venuto a salvarci. –

- Non ci farà del male, vero? –

In contrasto con tutto ciò che le stava gridando il suo buon senso, April sollevò cautamente lo sguardo. Uno ad uno, i loro aggressori svanirono nel buio di quell'ombra, come ingoiati, finché non ne rimase uno soltanto, terrorizzato latrava al vuoto sconnesse minacce.

Per l'ultima volta qualcosa di pesante uscì dalle tenebre affilate, April la vide distintamente strisciare alle spalle dell'assassino armato ed ignaro, alta e minacciosa, era la sagoma di un enorme pipistrello. Non aveva mai avuto paura come in quel momento, eppure scoprì di non poter distogliere lo sguardo.

Vide il braccio enorme del vigilante stringersi alla gola dell'uomo, bastò un istante di pressione ed il corpo cadde a terra privo di sensi.

Per un attimo che parve interminabile, la creatura rimase lì a fissarli, immobile, gli occhi due dischi di luce bianca nel buio, in cerca di qualcosa che la ragazza non sapeva indovinare. Si augurò che sarebbe sparito, così come si era manifestato, invece rimase, raggiungendola in poche falcate.

April non avrebbe saputo dire con quale forza riuscì a rimettersi in piedi, dominando il tremito delle gambe, per fronteggiare l'enorme pipistrello. Nella penombra le orbite illuminate della maschera si spensero con un guizzo, rivelando due iridi azzurre che si conficcarono impietosamente nelle sue.

Alto come un armadio, tremendamente massiccio nell'armatura grigia, se solo avesse voluto, avrebbe potuto spezzarle il collo con una sola delle mani avvolte dai guanti rinforzati e senza neppure sforzarsi troppo.

Represse un tremito che le si era instillato alla base della nuca. Una leggera nausea si stava impossessando della bocca del suo stomaco, ma era troppo spaventata per distogliere lo sguardo, quasi tenere d'occhio le sue mosse fosse servito in qualche modo a proteggersi da lui.

- Non voglio problemi ... -

Stava annaspando e il cuore batteva così forte che credette di sentirlo rimbombare sulle pareti del corridoio. Di certo lui se n'era accorto o non l'avrebbe soppesata con quello sguardo insopportabilmente diretto, come se cercasse di guardarle fin dentro le ossa.

- Non sono qui per farle del male. Sta bene? – le chiese perentorio rompendo il silenzio, una voce scura, raspante. Avrebbe dovuto sentirsi sollevata, invece fece fatica a dominare la paura.

- Questo dovrei chiederlo a lei. –

E quella spacconata? Da dove veniva? L'adrenalina le stava giocando dei brutti scherzi, nessuno sano di mente si sarebbe messo a provocare un ammasso di muscoli in armatura, ma l'uomo rimase impassibile, continuava a fissarla, lo sguardo indecifrabile sotto la maschera nera.

- Si, sto bene. – cedette infine la ragazza, era chiaro che non l'avrebbe degnata di una risposta se non avesse prima soddisfatto quella sua semplice richiesta.

- Stanno sequestrando i medici. Molti dei suoi colleghi sono al sicuro, barricati in una stanza dall'altra parte del piano. Deve andare. Penserò io a loro. – riprese con lo stesso fiero distacco, era un ordine, ma April non avrebbe mai ceduto ad un compromesso simile.

Al di là della paura, le era rimasta ancora lucidità sufficiente per capire che sarebbe servito ben poco alla sua autostima lasciare quelle persone in balia di un destino sconosciuto, Batman o non Batman.

In un'intrusione poco gradevole da parte del suo inconscio, ricordò la voce di sua nonna di fronte ad una tazza di tè fumante. La stava rimproverando per qualcosa che non riusciva più a focalizzare.

"Sei troppo orgogliosa, bambina mia. Tu soffrirai."

- Se lo scordi. Non posso lasciarli così. Alcuni di loro hanno subito da poco un intervento, fanno fatica a camminare. Devono essere accompagnati da un medico. – si accigliò, forte di quella convinzione.

Per un attimo temette che l'uomo l'avrebbe colpita, o addirittura rapita, visto il tempo che impiegò a soppesare le sue parole.

- Va bene. La scorterò fino all'ascensore di emergenza, farò in modo che arriviate sul tetto. – gracchiò invece, il corpo massiccio che la sovrastava avvolto nel lungo mantello color pece.

- Grazie. –

Si lasciò sfuggire un sospiro, per la prima volta davvero sincera da quando il vigilante era comparso nel corridoio, salvandole la vita.

Aiutata dall'enorme uomo pipistrello riuscì a rimettere in piedi tutti i pazienti, a riprendere la fuga verso l'ascensore. Nonostante si confondesse ancora nella penombra del corridoio, April sentiva ben chiara la sua presenza accanto a sé, un respiro misurato, profondo che a passi pesanti si adattava alla loro andatura.

- Sapevo che sarebbe arrivato, dottoressa ... Batman, non l'avevo mai visto così da vicino. È davvero impressionante. – mormorò la ragazzina aggrappata al suo braccio, tremava ancora, ma gli occhi azzurri scrutavano avidamente l'uomo al suo fianco, adoranti.

- Lo è davvero. –

April abbozzò un sorriso, osservandolo di sottecchi per non farsi pizzicare. Non aveva mai visto niente del genere in vita sua.

Non c'erano dubbi che fosse un uomo, eppure il mantello che ondeggiava nella scia dei loro passi, la complicata armatura e quella maschera appuntita riuscivano a conferirgli un macabro aspetto bestiale.

Il petto ampio si alzò in un respiro, poi in un altro e di nuovo gli occhi blu incontrarono i suoi, fulminandola.


C'erano notti buone a Gotham e notti meno buone. Quella andava sicuramente ad accrescere di una tacca l'elenco delle notti pessime.

Un fianco gli doleva, nella confusione qualcuno aveva sferrato un colpo fortunato ed era riuscito a ferirlo. Tuttavia non era l'idea del livido violaceo che sarebbe comparso da lì a poche ore a disturbarlo.

Gestire dei malviventi da quattro soldi come aveva fatto negli ultimi tempi era stato fin troppo semplice, tipi come quelli se li mangiava a colazione. Ma fermare un assalto armato ad un ospedale, quella era tutt'altra cosa. Rozza, certo, eppure era difficile capire di chi fosse la mano dietro quel disastro.

Bruce cercò di dominare la rabbia, mentre a grandi falcate si addentrava nella penombra insieme alla giovane dottoressa. Qualcuno avrebbe pagato per lo scempio a cui stava ancora tentando di porre rimedio, l'avrebbe trovato e l'avrebbe fatto parlare. E non con le buone maniere.

Erano mesi, forse anni, che nessuno dei vermi che nel frattempo il suo cervello stava enumerando alla velocità della luce, tentava una mossa audace come quella. Qualcosa non tornava e il pensiero che potesse essergli sfuggito un particolare nel quadro generale dei fatti, batteva nel retro del suo cervello con la perseveranza di una goccia d'acqua.

A questo si aggiungeva la totale mancanza di lucidità che la dottoressa aveva mostrato opponendosi agli aggressori, un errore che avrebbe potuto costarle ben più del proprio orgoglio. Gli sarebbe bastato arrivare un istante più tardi.

Quel pensiero lo mandava ai matti. Forse era stata l'adrenalina, forse altro, ma il fegato che la ragazza aveva mostrato nel ribellarsi, fronteggiando quattro uomini armati per proteggere i propri pazienti, riuscì a metterlo in soggezione. Era stata una scelta stupida, avventata, ma la diceva lunga su di lei, su quello che ancora non gli aveva mostrato.

L'istinto di controllo avrebbe voluto gridarle che era stata un'incosciente ad esporsi a quel modo, ma vederla terrorizzata alla sua comparsa nel corridoio in qualche modo lo aveva turbato. Secondo lo scanner il cuore aveva continuato a batterle all'impazzata anche dopo le sue rassicurazioni, anche se tutti gli uomini armati erano stati neutralizzati. Per lei il pericolo non era mai cessato.

Per questo cercò di non guardarla mentre procedevano, concentrandosi invece sull'ambiente circostante, sui rumori che di rimando arrivavano ovattati dai condotti di areazione.

La via rimase libera fino alle lucide porte tagliafuoco dell'ascensore. Bruce premette sgraziatamente il pulsante di richiamo e con estrema lentezza il meccanismo si mise in moto.

Neppure dieci secondi e diversi colpi di fucile automatico annunciarono che non erano più soli nella corsia del decimo piano, in lontananza le minacce degli inseguitori si persero nelle grida dei pazienti terrorizzati.

Una granata fumogena esplose a pochi passi da loro, spargendo in fretta un denso fumo chimico che grattava la gola con un vago sapore di benzina. Sentì la ragazza tossire accanto a lui ed istintivamente cercò di proteggerla dagli effluvi schermandola attraverso il mantello.

Gli assalitori avanzavano senza fretta, razziavano le stanze, distruggevano finestre, qualunque cosa pur di lasciarsi alle spalle quanta più devastazione possibile. Bruce valutò attentamente quanto tempo rimaneva prima che li raggiungessero, quanto tempo poteva guadagnare per la loro fuga. I muscoli tesi, il cervello forzatamente quieto.

Finalmente le doppie porte si aprirono alle loro spalle con uno stridore angosciante, aiutò la ragazza a sistemare tutti nell'ampia cabina, tranne se stessa.

- Vada. – le ordinò spingendola bruscamente all'interno. Se le fosse accaduto qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato.

Bruce attese un insulto che non arrivò mai, gli occhi chiari lo guardarono invece con una dolcezza che non si sarebbe aspettato in quella situazione.

- La prego, faccia attenzione. –

Le porte ingoiarono le sue ultime parole e la sagoma impaurita nel camice bianco, sporco di sangue e polvere. Per un lungo istante Bruce la guardò sparire attraverso il sottile spiraglio fra le lamiere.

Passi pesanti di scarponi sul linoleum, gli dissero che l'attesa era finita.

- E' Batman! –


La salita verso il tetto sembrò dilatarsi all'infinito fra le quattro pareti, improvvisamente soffocanti, del grande ascensore d'emergenza e sui volti spaventati dei pazienti.

Quei minuti interminabili le diedero il tempo di fermarsi, di riflettere a mente appena più lucida su quello che stava accadendo, su ciò che aveva visto.

Si chiese se le sue colleghe fossero già sane e salve su un elicottero, se Batman avesse salvato anche loro e l'incertezza di quelle terribili domande riuscì quasi a farle perdere quella compostezza che era riuscita in qualche modo a tenerla in piedi fino a quel momento.

Con un cigolio assordante la cabina d'acciaio si fermò all'ultimo piano del grattacielo, aprendosi sulla pista d'atterraggio spazzata dalle enormi pale di un elicottero di soccorso. Uno dei piloti venne loro incontro in tutta fretta, aiutandola a sistemare al meglio gli otto degenti che aveva portato con sé. Troppi.

- Dottoressa, non posso trasportare un uomo in più. Torneremo a prenderla, glielo prometto. –

Le grida del soccorritore, il volto semicoperto dal casco isolante, si persero nel rumore assordante dei rotori eppure April riuscì comunque ad afferrare l'angoscia dietro le sue parole.

Di nuovo la paura tentò di sopraffarla, sarebbe rimasta sola su quel tetto, senza possibilità di tornare indietro, né di essere evacuata assieme agli altri.

Sentiva Il cuore battere dolorosamente nelle orecchie, sovrastando il rumore sordo e pulsante delle pale sopra le loro teste, impedendole di pensare.

- Andate! Portateli via, io aspetterò. – esclamò d'istinto.

Non sapeva gestire il surplus di adrenalina, e questo era un fatto. Stava mettendo ancora una volta a repentaglio la propria vita senza la minima esitazione. Guardò il pilota alzare il pollice, rimontare sull'elicottero. Ormai era tardi per i ripensamenti.

Non avrebbe potuto sperare in un secondo portentoso intervento del vigilante di Gotham, era sola. E il coraggio si trasformò in dubbio atroce, in profonda disperazione nel momento in cui l'elicottero riprese quota, allontanandosi in una nuvola di polvere e detriti, lasciandola indietro.

Lo vide sparire oltre i grattacieli, nascosto ormai dalla Wayne Tower quando le ginocchia tremarono all'improvviso, così forte da farle credere che non l'avrebbero retta per un altro istante.

La strada sottostante, lontanissima, era un tripudio di sirene e grida. Rumori ovattati di spari si confondevano all'urlo del vento, polvere e detriti le ferivano il viso e i polmoni mentre il mondo sembrava sgretolarsi sotto i suoi piedi.

Per un lungo attimo pensò a suo padre, alla paura che doveva aver provato quel maledetto giorno di quindici anni prima.

Era curioso come ricordasse gli eventi di quei giorni quasi fosse stato qualcun altro a viverli, ricordava se stessa sull'uscio di casa, mentre due colleghi di suo padre erano stati mandati a prelevarla. Si ricordava accanto a quel letto, occupato da un uomo già morto dal cuore battente, la sua mano tiepida e molle fra le proprie.

Per tre giorni aveva parlato al silenzio, finché sua nonna aveva deciso di far staccare la spina, ma non le permise di rimanere mentre il respiro di quell'involucro vuoto cessava per sempre. Per anni era stata furiosa con lui, per averla tradita, per averla lasciata sola, solo ora April poteva capire.

Perdonare era tutta un'altra faccenda, non avrebbe mai perdonato se stessa, né lui.

Il tonfo alle spalle la scosse, facendo deragliare quei pensieri in un panico istintivo, l'ascensore stava scendendo. Si maledisse fra i denti per non averlo bloccato, ma non c'era via di fuga ora che qualcuno stava arrivando. Fu un viaggio breve, di un solo piano forse e di nuovo la cabina d'acciaio tornò a cigolare, aprendosi lentamente sull'ignoto. 

   
 
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