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Autore: Nat_Matryoshka    23/10/2017    0 recensioni
"A volte dopo tante cadute si ottiene finalmente qualcosa, non credi?”
Rey è una giovane reporter, che si innamora di Venezia e del suo Carnevale. Ben, il fotografo che la accompagna, di notte sogna di un ragazzo misterioso e di un mondo che non conosce.
Forse le loro anime si assomigliano più di quanto immaginano.
[Modern AU || Scritta per la Reylo Fanfiction Anthology 2017, "Celebrate the Waking"]
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ben Solo/Kylo Ren, Luke Skywalker, Maz Kanata, Rey
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
 
 


“Venice never quite seems real,
but rather an ornate film set suspendend on the water.”
- Frida Giannini
 
 
 




Sabato mattina.

A Londra, avrebbe significato svegliarsi tardi e ciondolare per un po’ in pigiama, con una tazza di caffellatte in mano e la tranquillità di poter rimandare al pomeriggio qualunque lavoro avesse dovuto svolgere. Inviare un messaggio a Poe o Paige, chiedergli di vedersi da qualche parte per la sera. Oppure sedersi semplicemente in poltrona con un libro o le parole crociate, per svagare un po’ la mente prima di iniziare la giornata. Le piaceva prendersela comoda, il sabato.
Quando era in viaggio, invece, non era in grado di svegliarsi dopo le sette e mezzo del mattino. Nemmeno se puntava la sveglia più tardi, nemmeno se Luke le aveva assicurato che avevano appuntamento con la loro ospite alle nove: non riusciva a restarsene tranquilla a letto a riprendersi dal viaggio, non con un’intera città fatta d’acqua e di storie ad aspettarla fuori dalla finestra.

Si alzò e, prima ancora di vestirsi, aveva già sollevato la tapparella per guardare fuori: si preannunciava una bella giornata, luminosa e fredda. Il mare splendeva, il sole si rifletteva sulle foglie dei pochi alberi sempreverdi rimasti e giocava col verde delle loro chiome proprio come Rey aveva immaginato la sera prima, tutto sembrava risplendere di una propria gioia vivace, piena di energia. La ragazza si fece la doccia, poi si vestì canticchiando e afferrò la borsa. Ci aveva infilato un quaderno nuovo di zecca, pronto per essere inaugurato con interviste, pensieri, racconti. Nuove storie.
Ben e Luke la raggiunsero poco dopo. Nessuno dei due lo diceva, ma probabilmente non erano riusciti a restarsene a letto  proprio come lei. Ben aveva sistemato al collo la macchina fotografica, Luke scriveva velocemente messaggi, uno a Maz per avvisarla del loro arrivo e uno a Leia, la sua sorella gemella e madre di Ben, per dirle che erano giunti sani e salvi e si apprestavano a visitare la città. Il receptionist li salutò con un cenno della mano mentre varcavano la soglia dell’albergo e si gettavano di nuovo nei vicoli della città, verso la fermata del vaporetto che li avrebbe portati a Piazza San Marco. C’erano decisamente più turisti rispetto alla sera prima, gente che sciamava fuori dai bar e dalle residenze, donne con passeggini e semplici pendolari che lavoravano a Venezia, tanto che dovettero attendere una seconda imbarcazione dopo che la prima era partita carica di passeggeri. Non c’era fretta: Rey aveva tutta l’intenzione di imprimersi nella memoria ogni singolo angolo della città, dalle rientranze nel muro abitate solo dai piccioni alle case più lontane, che sparivano oltre i canali e i vicoletti della laguna.

Finalmente il vaporetto si staccò placidamente dal molo, e i palazzi iniziarono a venirgli incontro. La ragazza si mosse in fretta verso il parapetto e vi si appoggiò con i gomiti, sporgendosi quel tanto che bastava per poter guardare bene. Se la sera prima aveva visto il lato più misterioso di una Venezia immersa nell’oscurità, la luce del giorno svelava dei colori che mai avrebbe immaginato di notare sulle facciate dei palazzi e delle case.  Rimase a bocca aperta mentre scivolavano sull’acqua e costeggiavano alberghi e musei, approdi dove le gondole restavano legate ai pali di legno colorato, ristoranti-bar in cui i turisti facevano colazione su piccoli moli sospesi sull’acqua. Sembrava tutto parte di un sogno, eppure era sveglia e non riusciva a decidere dove volgere lo sguardo per accogliere quello che la città le offriva.
Percepì Ben che le si avvicinava e si spostò appena per fargli spazio, lasciando che anche lui si sporgesse per guardare meglio. Aprì l’obiettivo della macchina fotografica e scattò un paio di volte, poi rimise il tappo al suo posto. Rey osservava le sue dita con attenzione, stupendosi ancora una volta di quanto fossero lunghe ed affusolate.

Eleganti, come lui.

“Ti sei mai chiesta chi possa aver abitato quei palazzi in tutti questi secoli?”
La voce scura di Ben la riscosse dalle sue fantasie ad occhi aperti come aveva fatto la sera prima. Sembrava immerso in una riflessione, quasi avesse dato voce ai suoi pensieri senza accorgersene mentre giocherellava con il laccio della macchina fotografica. Rey osservò una facciata col suo balcone di pietra scolpita, le imposte chiuse a nascondere vite che ancora non conoscevano.

“Si, lo faccio spesso” confessò, sicura che in qualche modo lui l’avrebbe capita. “Mi piace immaginare come trascorrevano le loro giornate, come fosse la vita quando non esistevano né telefoni né internet a riempirla. Chi abitava in quel palazzo laggiù? Nobili, credo… non mi sembrano case per gente comune. Come si divertivano, in cosa speravano quando guardavano il cielo? Sarebbe interessante saperlo, ma forse è più bello provare a immaginarlo da soli.”

“Già.” Ben muoveva le dita impercettibilmente, sembravano danzare sulla fiancata metallica della nave. “Qualcuno mi ha detto che Venezia è come un caleidoscopio: è difficile staccare gli occhi da quello che vedi per concentrarti sulla tua vita, una volta che ti sei immerso nelle sue strade. Non ci avevo mai pensato, ma l’impressione che ho avuto è esattamente questa.”

“È così irreale e bello. L’acqua, le costruzioni… ogni cosa. Il fatto stesso che esista una città simile, e che continui ad esistere fino ad oggi, è una specie di miracolo.”

Rey sentiva accanto al viso il respiro del ragazzo, gentile e regolare. Era sereno, e quella consapevolezza le fece stringere il cuore per la gioia. Più sereno di quanto non l’avesse mai visto in tutti gli anni in cui lo conosceva. Lo seguì con una punta di felicità in più e, assieme a Luke, attraversò la pensilina della fermata di San Marco. Erano arrivati. La piazza li aspettava poco lontana, preceduta dal campanile che svettava sopra di loro: il tetto verde e acuminato, il corpo slanciato coperto di mattoni rossi che lo rendeva visibile già da distanza. Una volta entrati nella piazza vera e propria, rimasero per un attimo fermi a contemplare la meraviglia della basilica davanti a loro, con le sue sculture che sembravano toccare il cielo, le cupole tonde, l’oro e il blu dei mosaici. I turisti iniziavano a spargersi lungo tutto il perimetro per scattare fotografie o mettersi in fila per visitarne l’interno, accompagnati in ogni loro azione da stormi di piccioni che svolazzavano e beccavano le briciole scappate dalla colazione di qualche passante. Ce n’erano tantissimi, grigi neri e bianchi, e non sembravano affatto intimiditi dall’affollarsi della gente. Luke sorrise guardandoli. “Quando eravamo bambini, i miei genitori ci portarono in Italia per una vacanza di un paio di settimane… e ricordo benissimo che io e Leia abbiamo provato subito a dare da mangiare ai piccioni, ovviamente con ottimi risultati: più o meno tutti quelli presenti sulla piazza si sono lanciati verso di noi” ridacchiò sotto i baffi mentre controllava il nome esatto dell’albergo dove li attendeva Maz. “Adesso è vietato, devono pensarci da soli a trovarsi da mangiare… non che non fossero in grado di farlo anche prima. Dovrei mandare una foto a tua madre, Ben. Abbiamo dei bei ricordi legati a questa città, a Maz… peccato che non abbia potuto prendersi una vacanza dal lavoro per qualche giorno. Si sarebbe divertita di sicuro.”
 

*
 


L’albergo dove alloggiava Maz Kanata era totalmente diverso dal loro, piccolo e informale ma molto confortevole: già la porta d’ingresso con i vetri istoriati a disegni di fiori ne era una prova evidente. La hall era tutto uno sfavillare di porcellane raffinate, tappeti rossi, legni dorati e poltrone dalla foggia settecentesca, col personale vestito di verde scuro che accoglieva clienti dall’aria molto facoltosa, carichi di valige e buste di boutique famose. Per la prima volta da quando quel viaggio era iniziato, Rey si sentì intimidita dal lusso che la circondava: sapeva che nessuno avrebbe fatto caso a lei e che un abbigliamento elegante sarebbe stato fuori luogo per visitare musei, ma gettò comunque qualche occhiata preoccupata alle scarpe da ginnastica nere e al parka col collo di pelliccia finta che indossava, che contrastavano decisamente con l’aspetto del locale. Luke, però, era determinato a raggiungere la loro ospite e li condusse avanti, verso una grande sala oltre un corridoio punteggiato da quadri dall’aria antica, ognuno in una cornice dorata riccamente intagliata. I tavolini neri erano disseminati un po’ ovunque, circondati da sedie bianche imbottite e pattugliati da camerieri che portavano cibo e bevande su vassoi d’argento. In fondo alla sala, vicino ad una delle finestre che davano sul mare, era seduta una donna bassa, dalla pelle scura e dai capelli neri molto corti, nascosti sotto ad un fazzoletto arancione. Appena vide Luke avvicinarsi gli fece un cenno con la mano e lo accolse con un sorriso enorme e scintillante, che appariva troppo grande per quel viso minuscolo.

“Maz! Come te la passi, mia cara? Venezia ti ha catturata un’altra volta?”

Luke le prese una mano e la strinse con affetto. La donna indossava degli occhiali con la montatura di metallo argentato, lenti tonde che le ingrandivano ulteriormente gli occhi già grandi e scuri. Non era giovane, notò Rey, ma sembrava possedere il vigore di qualcuno che ha speso al meglio ogni anno della propria vita, senza sprecarne nessuno.

“Luke, ragazzo… quanto tempo. L’ultima volta che ti ho visto non avevi nemmeno i capelli grigi!” rise sommessamente e spostò una sedia per farlo accomodare. “Bella barba, ti sta bene” soggiunse, prima di spostare lo sguardo su Ben, che svettava dietro allo zio. “E chi abbiamo qui? Ben! Anche se ultimamente ho avuto modo di frequentare solo tuo padre, è impossibile non riconoscerti. Come stai? Spero che anche tua madre se la passi bene.”

“Come al solito.” Ben scrollò le spalle, quasi non avesse molta voglia di parlare di questioni familiari, Rey se ne accorse al volo dal modo in cui si muoveva. Sedette vicino allo zio, ma non prima di aver spostato un’altra sedia perché la ragazza potesse accomodarsi.

“E questa splendida ragazza?” chiese la donna, rivolgendosi a Luke. “La tua apprendista?”

“Si, sono un’aspirante giornalista. Mi chiamo Rey” la ragazza precedette l’uomo, abbassando appena gli occhi per l’imbarazzo. Non sapeva mai come comportarsi quando qualcuno le faceva un complimento inaspettato. Luke le venne in aiuto. “È la mia validissima allieva… senza di lei ricorderei la metà delle cose che devo fare, e poi sa preparare un tè straordinario. L’ho portata assieme a Ben per farla diventare pratica del mestiere.”

“Hai fatto benissimo. Rey, eh?” Maz la scrutò attentamente da dietro le lenti dei suoi occhiali. “Hai anche un bel nome. Molto regale, mi piace.”

Una volta che si furono tutti accomodati attorno al tavolo, Maz chiamò il cameriere perché portasse loro la colazione: avrebbe pagato lei per i suoi ospiti, nonostante Luke insistesse per fare a metà. in pochi minuti, un uomo in livrea tornò con un vassoio carico di svariate brioche e biscotti, oltre ad una teiera e una caffettiera, entrambe piene. C’era anche la marmellata e le uova fritte con la pancetta. Era parecchio tempo che Rey non vedeva così tanta varietà di alimenti per la colazione, così si versò una bella tazza di caffè e rimase un attimo a riflettere su quale brioche assaggiare per prima. Sembrava tutto assolutamente delizioso.

“È da tanto che non mangio dolci per colazione” dichiarò Ben, versandosi anche lui una tazza di caffè e scegliendo un pasticcino alla crema dal vassoio. “E poi così buoni.” Rey annuì, prendendo un biscotto alla marmellata con un angolo ricoperto di cioccolato.

“Felice che vi stiate ambientando.” Maz sorrise, un sorriso che toccava anche gli occhi. “Siete arrivati ieri, Luke mi ha detto che progettate di restare per tutta la durata del Carnevale. Oggi è sabato… per cui avete tutto il tempo che volete per visitare qualche museo e rilassarvi. Da domani a martedì ci sarà da divertirsi, per quanto riguarda gli eventi.”

“Non vedo l’ora!” Rey non riuscì a trattenere l’entusiasmo. Si pulì la bocca velocemente, sperando di non aver sporcato tutto attorno a sé, poi riprese. “Di visitare la città e vedere tutto il resto, intendo. Per ora abbiamo solo attraversato il Canal Grande col vaporetto… ed era meraviglioso. Quanti musei ci sono?”

“Molti più di quanto immagini, mia cara. Temo non riuscirete a vederli tutti… ma se volete posso passarvi una cartina, così potrete orientarvi. Ci sono dei posti meravigliosi che vale assolutamente la pena di visitare, e altri che purtroppo sono nel pieno dell’attività in altri momenti del’anno, come il Lido. Una volta dovreste venire alla fine di agosto… sono certa che il Festival del Cinema vi piacerebbe.”

Il Festival del Cinema… i pensieri della ragazza andarono subito a Paige, e ai suoi occhi che si illuminavano quando discutevano sull’argomento. Doveva assolutamente inviarle delle foto di tutto ciò che stava vedendo, lei, Poe e Finn ne sarebbero stati sicuramente felici.

“Sarebbe perfetto, Maz. Hai un posto da consigliarci in particolare?” chiese Luke, versandosi altro caffè. Sembrava apprezzarlo particolarmente. Maz mosse la mano, come a voler scacciare una mosca invisibile. “Ah, Venezia è tutta meravigliosa… faccio prima a consegnarvi direttamente la cartina, ci sono dei luoghi sottolineati che ho visitato spesso. Se volete vedere un palazzo e una collezione davvero straordinari, però, vi consiglio il Guggenheim… ho dei bei ricordi legati a quel luogo, e non è lontano dal vostro albergo. Intanto che siete qui a San Marco, però, dovreste visitare il Palazzo Ducale. Vi aiuterà ad entrare nello spirito giusto, in vista del Ballo di martedì.”

“Ballo?” Ben alzò un sopracciglio, in un misto di curiosità e scetticismo.

“Ballo, si. Un ballo in maschera. Ne organizzano tantissimi ogni anno, ma si dà il caso che io conosca la donna dietro ad uno di questi e che le abbia parlato del vostro lavoro, per cui… siete ufficialmente invitati. Oh, ma non siete obbligati a ballare, ovviamente” aggiunse con noncuranza, notando gli sguardi piuttosto dubbiosi di Ben e Luke. “Se volete potete anche solo osservare l’evento, l’importante è che abbiate un abito adatto. Pensavo fosse una bella occasione per immergervi totalmente nell’atmosfera del Carnevale… e poi ci sono tanti negozi che noleggiano costumi. Sono sicura che vi divertirete.”

“Perché no? Se è già stato tutto organizzato, suppongo sia il caso di prendere la palla al balzo.” Luke le sembrava molto più rilassato all’idea di non dover ballare per forza, notò Rey. Effettivamente, il maestro non pareva essere mai stato un tipo festaiolo. “Se per voi ragazzi va bene, allora più tardi penseremo anche a questo. Prima di tutto, però, godiamoci il nostro giro per musei.”

“E i vestiti?” azzardò Rey.

“Quelli potete tranquillamente noleggiarli, come vi ho già detto durante il Carnevale c’è solo l’imbarazzo della scelta. In realtà potreste anche comprarne uno, se voleste…” la donna ridacchiò, intingendo una brioche di pasta sfoglia nella tazza di tè “ma dubito vi entrerebbe in valigia. Non potete nemmeno immaginare che genere di travestimenti sfarzosi si vedano in giro in questo periodo!”
Maz era davvero piena di risorse, rifletté Rey. Ben aveva annuito, silenzioso e pensieroso come sempre, mentre il resto del tavolo terminava la colazione. Era difficile capire cosa gli passasse per la mente, e se l’idea della festa lo spaventasse o, piuttosto, lo incuriosisse.
 

 
*
 


La visita al Palazzo Ducale aveva riempito Rey di meraviglia.

Avevano passeggiato lungo le sale affrescate, una piccola radiolina all’orecchio che faceva da guida, la testa rivolta in alto per cogliere ogni dettaglio dei soffitti incorniciati in oro, affrescati come le pareti. Ora quel luogo era usato come museo, ma la bellezza degli arredi e dei pavimenti in marmo era perfettamente conservata e parlava di un’epoca di splendori. In una sala immensa, con sedili di legno scuro affiancati al muro, gli antichi governanti della città prendevano le loro decisioni, forse si erano tenute anche cerimonie importanti, banchetti. Non era difficile immaginarli chiudendo gli occhi. Anche Ben le sembrava interessato, a giudicare dagli sguardi curiosi che lanciava in giro, l’orecchio teso ad ascoltare l’audio guida che spiegava la storia millenaria della città. Non aveva scattato fotografie: probabilmente stava fissando quelle immagini nella mente, in attesa di poter schizzare qualche dettaglio degli interni sul suo quaderno dei disegni.

Una volta ammirati gli esterni del Palazzo, erano usciti per prendere una boccata d’aria e il vaporetto per la Collezione Peggy Guggenheim, il secondo luogo che Maz gli aveva raccomandato. Non era lontano dal loro albergo, ed era ospitato in uno dei più bei palazzi che la ragazza avesse mai visto in vita sua. Bianco di pietra, nero per le inferriate elaborate alle finestre, si apriva sulla laguna splendente per il sole pomeridiano, che inondava le sale di una luce d’oro preziosa, mista al blu pallido del riverbero del mare. L’ingresso era preceduto da un giardino pieno di sculture e un gazebo di pietra bianca, sormontato da alberi carichi di foglie, aspettava i turisti che terminavano il giro del museo. Maz aveva detto di essere legata con affetto a quel posto, e Rey non faticò a capire perché: vi si respirava un’atmosfera magica, rilassata eppure piena di vita, quasi elettrica, quella che dovevano aver respirato gli artisti le cui opere erano ospitate all’interno.

Avevano ammirato tutto con la curiosità dei bambini, tanto che perfino Luke le era sembrato entusiasta di quanto stavano guardando. Ad un certo punto era rimasto in disparte ad ammirare alcune sculture e Rey si era ritrovata sola a girovagare per opere d’arte, finché non si era fermata davanti ad alcuni Magritte, a riflettere sul perché l’artista avesse voluto rappresentare una casa nel buio della sera, rischiarata da un lampione, quando oltre le cime degli alberi il cielo era azzurro chiaro e solcato da nubi come in pieno giorno. Le piaceva il Surrealismo, e anche farsi domande sulle opere e trarne delle conclusioni personali. Decise che avrebbe scritto un piccolo articolo sul museo, sperando che Luke accettasse di inserirlo in una qualche rubrica del giornale.

A visita terminata, si sedette sulla panchina di pietra sotto al gazebo. Gli altri visitatori osservavano le sculture, passeggiavano con le mani dietro la schiena rivolgendo occhiate in giro. C’erano una biga con due cavalli, una piccola figura dalle gambe lunghe e magre che trascinava un teschio di toro. Panchine in pietra dai piedi scolpiti, alcune parte della collezione, altre no, Chissà quanta gente aveva provato a sedersi su alcune di quelle panchine, senza pensare che non erano parte dell’arredamento del giardino… rise e allungò le gambe davanti a sé, lasciando che il sole di febbraio le riscaldasse. Mancava ancora un’ora o poco più al tramonto, eppure la luce già iniziava a scarseggiare e il freddo le si attaccava alle ossa come un animale dispettoso che mordeva senza tregua. Pensò  a come dovesse essere visitare quel luogo in estate, con la brezza marina e il sole delle sei che rendeva la pelle tiepida e intorpidita, la consapevolezza di avere qualche altra ora prima del buio. Era così immersa nei suoi pensieri da non accorgersi dell’arrivo di Ben.

“Era da tanto che non mi capitava di visitare un museo. Almeno da quando abitavo a New York… e mi sono trasferito tre anni fa.”

“A chi lo dici” sospirò la ragazza, strofinando le mani tra loro. Come al solito si era scordata i guanti in valigia. “L’ultima volta che sono stata ad una mostra era l’anno scorso… e ho dovuto pregare Rose e Paige per mesi, avevano sempre da fare. Questa collezione è bellissima.”

“Già. Avevo già visto il Guggenheim di New York, anni fa… c’ero andato con mio padre, forse è stata l’ultima gita che abbiamo fatto insieme prima che rompesse del tutto con mia madre. Mi aveva colpito, ma questo… ha una sua atmosfera. Penso sia impossibile provarla a replicare da qualche altra parte del mondo.”

Rey percepì rassegnazione, una punta di tristezza malinconica nella sua voce, ma non rabbia, né rancore. Quei sentimenti dovevano essersene andati da tempo, o magari era diventato bravo a dissimularli. Tentò una domanda, un po’ titubante.

“Ben…” Lui si girò, stupito dal suono del suo nome. “Sei ancora arrabbiato con i tuoi genitori? Per il passato, voglio dire.”
Lui restò in silenzio per un attimo, un secondo in cui Rey si chiese se non gli avesse posto la più sbagliata delle domande. Quando rispose, però, non le sembrava ostile o arrabbiato.

“No, ormai non più.” Era deluso. “La rabbia è un sentimento che mi ha accompagnato durante tutta l’adolescenza… mi sentivo tradito, odiavo il fatto che avessero trascorso gran parte della loro vita come una coppia felice prima che nascessi io. Litigavano quando ero bambino, litigavano quando gli raccontavo i miei problemi a scuola, mio padre spariva per lavoro, trascorreva più tempo fuori che a casa, si faceva vedere solo quando si sentiva abbastanza in colpa da mettere da parte il suo desiderio di indipendenza. Dopo anni di rabbia e risentimento, però, non puoi più farti distruggere il fegato dal dolore… allora ho provato a renderli orgogliosi di me a tutti i costi, a far capire a mio padre quanto si sbagliasse, e cosa si stesse perdendo. Non ha funzionato comunque. Perché continuare ad autodistruggermi, quindi? Che senso aveva?”

Il Ben pieno di furia cieca, costretto da se stesso ad intraprendere un percorso che non sentiva proprio era ancora vicino a lei, poteva sentirlo. Nonostante stesse lottando con tutte le sue forze contro quella parte distruttiva, quel lato che per tanti anni l’aveva mosso come un burattino legato ad un filo. Respirava ancora insieme al ragazzo pieno di dubbi, pungeva il suo cuore quando prendeva una pausa dalle proprie insicurezze e provava a sentirsi diverso, a cambiare. Eppure qualcosa in lui era profondamente cambiato rispetto ad anni prima, ne era sicura.

“Forse non posso capire del tutto quello che dici… non ho mai avuto rapporti diretti con la mia famiglia, ma capisco cosa significhi lasciare andar via la rabbia.” Rey si strinse nel giubbotto, spostando le mani sulla superficie di pietra della panchina. “C’è stato un periodo in cui ho lottato disperatamente per capire chi ero davvero. E ci ho messo mesi, anni a venirne fuori… finché un giorno ho semplicemente capito che ero cresciuta, e che tutto ciò che avevo affrontato fino a quel momento era servito a farmi diventare la persona che si guardava allo specchio, odiandosi ogni giorno un po’ di meno. Non sono completa, sono tutto meno che completa e totalmente soddisfatta di me, ma ci sto arrivando. Sto cercando la mia strada, ma nel frattempo ne ho fatta abbastanza. Se sei qui a pensare a ciò che eri un tempo, significa che sei davvero cambiato.”

Fece scivolare le dita verso quelle di Ben, e con sua grande sorpresa sentì la mano del ragazzo chiudersi delicatamente sulla sua. Era caldo, e le fece ricordare l’ultima volta in cui si erano sfiorati in quel modo, quando l’aveva aiutato a portare via le sue fotografie dopo la mostra. Emanava una tranquillità quasi introversa. Una richiesta muta di affetto che probabilmente nemmeno lui sapeva di mandare. 

“Eppure, è sempre lì.” Amarezza, sempre quella punta di tristezza che impregnava ogni sillaba.    “La rabbia. Quando perdo il controllo, sento di non essere più io e ho paura. Vorrei essermi scrollato di dosso quel lato, ma riesce sempre a venir fuori… non voglio che succeda. Non voglio farti del male, né che tu veda quello che ero. Non te lo meriti.”

Rey strinse la presa sulle sue dita. Sentì che qualcuno o qualcosa, forse una voce gentile che aveva dimenticato da anni, le suggerivano quelle parole con cui provare a consolarlo.

“Non mi farai del male… stai diventando forte, Ben.” Sorrise, sperando di far sorridere anche lui. “Questi sono i tuoi primi passi.”
Chinò la testa e la posò sulla spalla di Ben. Socchiuse gli occhi e restò ferma in quell’attimo che sperò durasse il più possibile, a respirare senza pensare a nulla, solo al sole pigro di febbraio che continuava a scaldarla e disegnare ombre sulle sculture del giardino, tra i cespugli e l’edera sui muri. Dopo un attimo, sentì che anche lui si rilassava.
 

 
*
 


Stavano tornando in albergo: il loro tour di visite era terminata con la Galleria d’Arte Contemporanea di Ca’Pesaro, poi la stanchezza generale aveva portato Luke a scegliere di chiudere lì la giornata da turisti: avrebbero avuto qualche altro giorno per andare in giro. Si erano quindi infilati nel primo vaporetto disponibile, tutti piuttosto affamati e desiderosi di rilassarsi un po’ in albergo. Seduti sui sedili della barca, lasciarono che il moto morbido delle onde li cullasse fino alla meta: Luke e Ben, davanti a lei, discutevano delle foto scattate quel giorno e di quali sarebbe stato meglio includere nell’articolo sul Carnevale. Rey appoggiò la testa al finestrino, lasciando viaggiare lo sguardo sulla superficie del mare, che da oro diventava sempre più scura come la notte, un velluto morbido che sarebbe presto stato screziato da stelle e lampioni. Pensava al pomeriggio appena trascorso, alle opere che aveva avuto la fortuna di ammirare, a Maz che sorrideva come una ragazzina, una scintilla di giovinezza nel corpo di una donna dall’età indefinita. Alle storie che tratteneva nella mente e che sperava di poter lasciare andare sulla carta, a Venezia, alla sua bellezza e alle onde che cantavano sotto di lei e la cullavano quando veniva l’ora di andare a letto… pensava e fissava il mare e le case fuori dal finestrino, ascoltando la canzone dei flutti, quando la ragazza misteriosa riapparve oltre le sue palpebre.

Questa volta si muoveva correndo per le vie della città, ma non indossava l’abito di merletti leggerissimi che l’aveva coperta durante la sua ultima apparizione: era vestita di grigio e beige, ai piedi portava stivaletti legati con delle cinghie, un cestino di vimini al braccio carico di chissà quale merce, forse viveri per sé e la famiglia, o ciò che vendeva per vivere. Venezia era caotica e piena di gente, i nobili nelle loro livree coloratissime e sfarzose, qualche mendicante che cercava di non farsi notare: c’erano gondole e barche ovunque, il brusio percorreva le folle e l’aria fremeva come se si stesse preparando qualcosa di grande. La ragazza continuava a correre, apparentemente senza meta, leggera quasi fosse trasportata dal vento, felice. Attraversava vicoli, ponti, cortili, fino a fermarsi in una grande piazza: San Marco, la sagoma della basilica era impossibile da non notare. Vicino all’acqua, dove la pietra dei pavimenti incontrava il mare, una grande folla era in attesa di qualcosa, tra spinte e persone che si mettevano in punta di piedi per vedere meglio in lontananza. Stavano arrivando delle imbarcazioni, e quella che guidava la flotta era riccamente ornata da tessuti preziosi e aveva due stemmi dipinti sulle fiancate. Un gondola di grandi dimensioni, segno del prestigio del possessore. Qualche principe, sicuramente.

“Sono iniziati i festeggiamenti per il Carnevale!”

La ragazza si voltò: aveva occhi castani screziati di verde, come il legno venato dal muschio dei boschi sui monti, non lontano da Venezia. Non aveva mai visto le gondole delle famiglie nobili posarsi sul molo così da vicino, né le dame e i signori scendervi e formare un corteo di mantelli e stole, cappelli piumati e collane di perle, diretto verso il centro della piazza. Dalla prima gondola erano scesi due paggi, che si erano disposti ai lati dell’imbarcazione: uno di loro tendeva il braccio ad una dama che stava scendendo, una donna dai capelli striati di grigio legati in una crocchia, non giovanissima e bella come una regina da libro di fiabe. E dietro di lei, una figura imponente iniziava ad alzarsi, sovrastando di molto il servitore. Un giovane dai capelli neri, mossi e folti. La ragazza ebbe un fremito. Era lui…

Il vaporetto si fermò, permettendo ai passeggeri di alzarsi e lasciare l’imbarcazione per raggiungere la loro destinazione: Salute. Erano arrivati. Rey scosse la testa bruscamente, e quel sogno ad occhi aperti sparì come una bolla di sapone scoppiata da un bambino impaziente. Rimaneva solo quella sensazione bizzarra di aver vissuto la vita di un altro attraverso i propri occhi, una specie di malinconia che non riusciva a spiegarsi in nessun modo.
 

 
*
 

Dopo cena – che era stata più piacevole del solito, forse per merito del menu a base di pesce e dell’allegria che sembrava aver preso Luke e contagiato in parte anche Ben – era salita in camera, troppo stanca per dedicarsi a qualunque attività che non fossero la lettura, o le parole crociate. Lei e Ben avevano salito le scale insieme, parlando del cibo, scambiandosi chiacchiere rilassate che, finalmente, portavano con loro tranquillità. Si erano salutati per la buonanotte e Rey non era riuscita a trattenersi dal baciarlo sulla guancia, quasi all’angolo della bocca, tanto vicino da potersi riempire le narici del suo profumo. Se n’era pentita quasi immediatamente, temendo di metterlo a disagio, ma quando si era allontanata lui le aveva rivolto un piccolo sorriso in cui abitavano tante emozioni diverse, tranne il fastidio. Ognuno si era ritirato nella propria stanza, e Rey aveva avuto tempo per riflettere su quel momento, riviverlo altre diecimila volte nella sua testa.

Si era distesa a letto solo dopo aver appuntato le esperienze della giornata sul suo blocco. Aveva quindi provato ad aprire il libro che aveva portato con sé per leggerne almeno un capitolo, ma dopo averlo lasciato cadere a terra in un attacco di sonno pensò che sarebbe stato meglio posarlo e spegnere la luce. Era troppo stanca, ma leggere le piaceva così tanto che non avrebbe mai ceduto volontariamente…
Il sonno arrivò prima che potesse accorgersene.

Piazza San Marco brillava nel sole: la folla si era diradata, ma il corteo di nobili era appena passato per ritirarsi all’interno del grande palazzo bianco che guardava il mare. La vita dei curiosi era tornata ai suoi ritmi normali, i valletti avevano accompagnato i loro signori mentre i gondolieri le sistemavano in attesa del viaggio successivo. La ragazza restava in piedi, il mare alle spalle, e osservava il Palazzo Ducale con lo sguardo pieno di desiderio di chi darebbe tutto pur di poterlo anche solo guardare più da vicino.

Una voce che la chiamava la costrinse a voltarsi e a tornare sui suoi passi. In un battito di ciglia raggiunse una donna vestita con abiti simili ai suoi, che la aspettava all’interno di un negozio pieno di pezzi di macchinari e polvere, stracci e pile di oggetti appena riparati che attendevano i clienti. Non la rimproverò: sorrise e le indicò il banco dove era solita lavorare, come ad invitarla a riprendere ciò che doveva fare e risollevarsi da quelle fantasticherie. La ragazza sospirò e si rimise al lavoro, strofinando un meccanismo per ripulirlo dal grasso. Smettere di sognare, però, era impossibile.

“Ancora non ti sei tolta quell’idea dalla testa?” la donna bionda, che in qualche modo sembrava essere un suo superiore, stava spazzando il negozio. La brunetta scosse la testa, facendo finire un ciuffo esattamente vicino agli occhi e trovandosi costretta a spostarlo con un gesto della testa.
“Come potrei? I miei genitori potrebbero essere tra quei nobili, lo sai. Vivo in strada da quando ero una bambina e non ho mai saputo nulla di loro, né del perché mi abbiano abbandonata… e se fossero lì? Se in qualche modo mi aspettassero? Non lo posso sapere, Agnese. Per questo devo continuare a cercarli ovunque… anche in alto, alle feste dei nobili. Il ballo è aperto al popolo, basta avere un vestito con cui andarci.”
“E noi non ne abbiamo uno. A meno che non consideri un abito da festa quello con cui esci la domenica, che è pieno di toppe” sospirò la bionda, raccogliendo la polvere per gettarla in un secchio. La ragazza del sogno scosse la testa, delusa, e si rimise a pulire il meccanismo. Nel negozio non si sentivano altro che il rumore prodotto dallo straccio che sfregava e dalla scopa che raschiava il pavimento, finché Agnese non terminò di lavorare, raccogliendo i capelli in una crocchia per spostarli dal viso. Lasciò la scopa per recarsi nel retrobottega, poi tornò con un una serie di panni piegati, che depositò in un angolo pulito del banco. L’altra ragazza sporse la testa in avanti per vedere di cosa si trattasse.

“Però” Agnese aveva assunto un tono da chi sa esattamente come risolvere una situazione “niente ti vieta di prenderne in prestito uno, specie se si tratta di un abito della tua misura. L’altro giorno ho trovato questo nel baule di mia madre… e ti ho pensata subito. Sono merletti di Burano autentici, è antico. Provalo!”
La ragazza non riusciva a credere ai suoi occhi. Sfiorò il mucchio di stracci con reverenza, spostandolo per rivelare un meraviglioso abito bianco con piccoli fiori ricamati ovunque nel merletto e una delicatissima cinta di fiori rossi, morbida, che cadeva delicatamente sui fianchi. Lo alzò con attenzione perché non si sporcasse e il bell’abito seguì il movimento della sua mano, mentre Agnese sorrideva soddisfatta.

“Sei sicura? È troppo bello, io… non posso accettare. Lo rovinerei, non…”
“Oh, non dire sciocchezze. Sono sicura che ti starà benissimo, mia madre aveva più o meno la tua taglia quando era più giovane, e se non dovesse starti posso comunque stringerlo un po’. Vuoi andare a quel ballo o no?”
“Certo che voglio!” si affrettò a rispondere l’altra. “È solo che…”
“È solo che non devi preoccuparti. Pensa piuttosto a provarlo per vedere se ti entra, me lo restituirai dopo la festa.”

La ragazza bruna non rispose. Si rigirò quell’abito tra le dita come se non riuscisse a credere a tanta meraviglia, poi lo rimise al suo posto, coprendolo nuovamente con gli stracci in cui era avvolto. Rivolse un’occhiata piena di gratitudine all’amica, sussurrò un “grazie” e l’attimo dopo si ritrovò a correre fuori, a sfogare la propria gioia passando rapidamente per calli e piazzette, incapace di trattenere l’entusiasmo che provava. Ora le sarebbe servita una maschera per coprire il viso, ma non riusciva ancora a credere a quanto era appena successo: aveva un abito. Un abito vero, un vestito elegante per varcare la soglia del Palazzo e ballare, divertirsi, cercare tracce della sua famiglia. E guardare da vicino quel ragazzo che chiamavano il Principe, il giovane dai capelli neri e dall’espressione malinconica che era sceso dalla gondola quella mattina e che aveva visto muoversi per la città molte altre volte, accompagnato dalla sua scorta di valletti e nobili. Sarebbe stata anche lei come loro, per una sera, e forse avrebbe scoperto qualcosa su se stessa.

Salì su un muretto per guardare l’orizzonte, spingendo lo sguardo il più lontano possibile. Le barche si muovevano pigramente nella laguna, il sole invernale rendeva tiepida e brillante l’acqua, quasi fosse ricoperta delle stesse piccole gemme che ornavano gli abiti delle signore. Socchiuse gli occhi e lasciò che la brezza la accarezzasse: a quella stessa ora, qualche giorno dopo, avrebbe salutato Agnese per correre a casa a prepararsi per la festa. Sorrise di nuovo.

Nello stesso momento, una ragazza inglese dai capelli scuri aprì gli occhi nel suo letto in un albergo di Venezia, sollecitata dal suono prolungato che veniva dalla sveglia del telefono. 








***

Ed eccoci anche al secondo capitolo. Chiedo scusa per i tempi biblici di pubblicazione, ma il lavoro e la vita quotidiana spesso e volentieri si mettono in mezzo e mi tengono lontana dalla scrittura più di quanto vorrei Se avete voglia di sostenermi con un cuoricino, qui trovate la storia in inglese su AO3!

Spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento :3

Rey




 
 
 
 
 
   
 
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