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Autore: Roriam    25/10/2017    0 recensioni
“Così mi disse il diavolo: -Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini.", Fredrich Nietzche.
ATTENZIONE: la mia storia si differenzia molto dall'originale: il personaggio di Yuki è sostituito, quello di Kanata non è presente, Luze viene fatto partecipare di più e Takashiro non ha alcun compito legato alla reincarnazione degli Zweilt.
N.B.: non intendo urtare la sensibilità di nessuno (e se proprio così deve accadere me ne scuso): a parte delle frasi prese dal film The Tree of Life (che non ho potuto fare a meno di riprendere perché mi hanno profondamente toccato), la storia tratta, secondo quello che ho imparato e su cui ho riflettuto a livello personale, il tema del confronto tra Dio e il demonio, con i protagonisti che si schierano i favore della fede cattolica.
*Non ne sapevo niente ma a quanto apre anche in Giappone è praticata la religione cattolica.
NOTA: tutto quello che scrivo ha il solo scopo di contribuire alla storia: non intendo criticare, bacchettare né fare la morale a nessuno.
Per il resto spero che vi piaccia. Godetevela!
Attendo le vostre recensioni. :)
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luze, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Zess/Luka Crosszeria
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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-È giunto.
-Come?
-Il momento è giunto.
-Di cosa parli? Dove sei?
-Sono qui.
-Dove?
-Io sono qui.
Davanti ai suoi occhi non c’era altro che il nero. Nero. Fermo e torbido come nel più oscuro degli abissi. Il nero dell’assenza e del nulla.
Ma ad un tratto ecco  emergere una figura sottile con lunghi capelli. Una sagoma fatta di niente, come lo scenario che l’avvolgeva.
-Non manca molto. Presto risponderai alla nostra chiamata.
I suoi capelli si accorciarono scoprendo la linea delle spalle e del collo. Poi la sua voce cambiò.
-Abbiamo riposto le nostre speranze in te. Medita su queste parole, e apri gli occhi.
Poi il dolore arrivò. Veloce e brutale. E tutto scomparve. Le voci, il nero, le due ombre. Uno sprazzo di luce e davanti ai suoi occhi comparve il soffitto della sua camera.
Ancora una volta il sogno era finito.
Yori si tirò a sedere e si tamponò la fronte umida con la manica. Anche la sua schiena era appiccicosa per via del sudore freddo, ma quello era il minore dei mali.
Succedeva da circa dodici anni, la prassi era sempre la stessa.
Chiudeva gli occhi e da principio si godeva la calma di un sonno privo di sogni. Poi all’improvviso ecco che cominciava a prendere coscienza di sé stessa e della sua reale presenza in quell’universo onirico, ecco che si accorgeva che l’oscurità intorno a lei era così intensa da imperdirle di distinguere le sue stesse mani. Poi esordiva la prima voce, che se comparata alla seconda poteva essere attribuita ad un giovane, un ragazzo. Non le rivolgeva sempre le stesse frasi, nel corso degli anni erano cambiate. E poi di colpo la sagoma di quell’individuo mutava e le parlava con una voce nuova, una voce che sarebbe potuta appartenere ad una giovane ragazza.
E poi arrivava la parte peggiore.
Era sempre il dolore a svegliarla. Ed ecco che all’improvviso si ritrovava nella sua stanza, in un lago di sudore freddo, avvolta da un’aria malsana che sapeva di ferro, e di impurità.
Suo malgrado Yori dovette respirare profondamente per quietare i battiti frenetici del cuore. Poi, senza fretta, rivolse lo sguardo al suo braccio sinistro.
Ci aveva fatto l’abitudine, ormai non urlava più terrorizzata come i primi tempi, ma ogni volta si ripeteva che non era un bello spettacolo. Era veramente spiacevole.
Erano dei piccoli segni, grandi quanto la punta di una spina e molto vicini l’uno all’altro, che descrivevano una spirale di quasi dieci centimetri. Come se un rampicante spinoso le si fosse avviluppato intorno al polso.
E poi sanguinava. Copiosamente.
Sulle lenzuola azzurrine c’erano grandi macchie di un rosso spaventoso.
L’unico lato positivo di quel terrificante episodio che si ripeteva praticamente ogni notte era che Yori sapeva cosa fare, sapeva come comportarsi. Corse in bagno e mise il polso sotto l’acqua bollente, era un’operazione dolorosa ma serviva a disinfettare e cauterizzare allo stesso tempo la ferita. Così usciva meno sangue. Poi la tamponò con del disinfettante e la fasciò con bende sterilizzate.
Un minuto dopo suonò la sveglia. Era ora di iniziare la giornata veramente.
 
Nonostante il dolore scemasse dopo il suo risveglio non scompariva, e la ferita non si rimarginava mai del tutto. Aveva solo bisogno della notte per potersi riaprire.
Mentre camminava per strada Yori sentiva il polso formicolare, ma era grata del fatto che l’uniforme scolastica nascondesse il bendaggio. Da piccola ne aveva passate tante a causa di quel segno, sia in famiglia che a scuola. Ma non volle soffermarsi su quei ricordi un secondo di più. Aveva imparato ad accettarlo, e a conviverci.
Ormai aveva smesso di farlo presente persino ai suoi genitori.
Quella mattina, dopo che la sveglia aveva suonato aveva lavato via in fretta il sangue dalle lenzuola e dal pigiama, prima che sua madre e suo padre si svegliassero. Spesso dormiva anche con il braccio fuori dal letto, la mano che sfiorava i fondo di una bacinella in cui  veniva raccolto tutto il sangue. E così evitava di lasciare tracce.
Di trucchi per non farsi scoprire ne conosceva parecchi, si può dire che gli anni passati le fossero serviti come allenamento.
E quando sfortunatamente non riusciva a far sparire il sangue prima che sua madre lo scoprisse ne attribuiva la causa all’epistassi o, quando i giorni coincidevano, alle mestruazioni.
Non le faceva piacere mentire ai suoi genitori ma era meglio così. In passato Yori era stata costretta a vivere esperienze oltremodo spiacevoli per colpa di quella specie di piaga, esperienze che l’avevano profondamente segnata, e che voleva non dovessero ripetersi mai più. Era più facile evitare che si ripetessero se nessuna delle persone che conosceva ne venisse a sapere qualcosa.
Ma per il momento non valeva la pena darsi tanto pensiero.
Mancavano ancora diverse ore prima che giungesse la notte, c’era un’intera giornata da vivere.
Yori svoltò la via e oltrepassò il cancello del liceo Shiroi Kumo, proprio in quel momento la campanella suonò ed un gruppo di amici la salutò da lontano e le fece cenno di sbrigarsi a raggiungerli. Mentre correva verso di loro si dimenticò per un istante del formicolio al polso.
 
-E poi Kanade ha cominciato passare a me, Miyoshi e Akihito dei Pocky alla fragola mentre il professor Tanaka si girava per scrivere alla lavagna.
-Ma pensa, quel soggetto non sopravvivrebbe un giorno senza smerciare snack a qualcuno.
-Così pare, ma almeno con lui non si corre il rischio di sbadigliare per la noia.
Kenji ridacchiò. –Hai ragione.
Kenji era uno degli amici della comitiva scolastica con cui Yori era solita ritrovarsi. Frequentava il terzo anno come lei ma era stato assegnato ad una sezione diversa, assieme ad un altra ragazza della comitiva, Chiaki.
Tutti i pomeriggi dopo la scuola Yori prestava servizio come volontaria presso l’orfanotrofio Asahi, e dato che Kenji passava prorpio da quelle parti per tornare a casa si offriva sempre di darle un passaggio con la sua bicicletta. E così i due si raccontavano come avevano passato la giornata sui banchi di scuola.
Alcuni isolati prima la via in cui Yori sarebbe dovuto scendere il ragazzo le raccontò di come lui e Chiaki fossero riusciti a scambiarsi bigliettini e frasi fugaci durante la lezione di inglese senza farsi beccare dalla professoressa Watanabe.
-Ha detto che i suoi genitori saranno fuori città per tutto il fine settimana, quindi potremmo restare a dormire da lei.
-Che bellezza, non vedo l’ora. Magari potremmo vederci una maratona di film horror, di sicuro Akihito ne sarebbe felice.- propose lei, ricordando come da principio nessuno di loro vedesse di buon occhio la passione dell’amico per i film dell’orrore, però poi con il tempo avevano imparato ad accettarla, finendo addirittura in qualche modo per condividerla.
Kenji finse di tremare e fece zig zag con la bici.
-Ehi, non sbandare! Devo arrivare sana e salva dai miei bambini, altrimenti nessuno finirà di leggergli la favola del falenino e della stella.
-La favola del falenino e della stella? Ma ... ce l’hai il permesso per riempire la testa di quelle povere creature con queste baggianate europee?
-Tu stai tranquillo. Di certo non passerò la mia adolescenza dietro le sbarre solo per delle favole dalla morale cristiana. Ai bambini fa bene imparare, ma nessuno ha il coraggio di insegnargli ad essere stupidi.
-Come sarebbe ... “ad essere stupidi”?
-Già: più una persona è “stupida” e più sarà facile per lei conquistare la felicità. Viceversa: più cose apprende e più sarà difficile che sia felice. Continuerà a volere cose, cose, e ancora cose. E si dimenticherà del fatto che basta molto poco, poco come la vista di un fiore che sboccia, per riuscire a sorridere.
Kenji ripeté quelle parole nella mente.
-È un bel pensiero- disse. –È tuo o è un insegnamento del tuo Dio?
-In un certo senso è una convinzione di entrambi.
-Vuoi dire che il tuo Dio desidera che i suoi seguaci siano stupidi?
-Non abusare di questa parola, Kenji. Egli non vuole che la conoscenza ci sia negata, desidera solo che i suoi fedeli non ne siano del tutto soggiogati. Ad esempio, se l’uomo non sapesse che l’oro e il petrolio sono cose preziose, se ignorasse il loro valore forse non si lascerebbe consumare dall’ambizione di possederli entrambi. Senza una tale smania il suo cuore sarebbe più leggero, non credi?
-Capisco ... allora è questo che intendi quando dici “stupidità”.
-E poi Lui non è il mio Dio.- disse Yori enfatizzando quel “mio”, che non le andava a genio. -Sono io, e sono tutte le sue creature che appartengono a Lui.
“Solo che spesso ce ne dimentichiamo...” aggiunse nella sua mente.
Poco dopo Kenji fermò la bici davanti ad un cancello al quale era affissa una targa con scritto “Asahi”, e Yori scese. I ragazzi si salutarono augurandosi di passare bene la serata, e di vedersi presto il giorno dopo per fare colazione insieme a Miyoshi, Akihito, Chiaki e Kanade. Poi Kenji proseguì e Yori lo salutò agitando il braccio sinistro, di colpo il polso riprese a formicolarle e dovette stringerlo con l’altra mano.
Ci vollero alcuni istanti ma poi la sensazione si fece meno intensa e lei si voltò e varcò il cancello.
L’orfanotrofio Asahi non era diverso da una qualunque casa di periferia di modeste dimensioni, dato che ospitava in tutto trentacinque persone tra bambini, adolescenti, responsabili e inservienti. Ma la cosa che Yori trovava in assoluto più bella in quel posto era il cortile. Era un misero prato fatto di erba incolta, pochi fiori selvatici, sassolini nella terra e con un albero sostanzialmente giovane nel centro dell’area.
Era perfetto.
Ovviamente non era mai stato coltivato nulla in quello spazio, a Yori sarebbe piaciuto ma era un tipo di suolo che non lo consentiva. Non tutti i terreni sono pronti ad accogliere i semi piantati da mani estranee.
Si accontentava di camminarci a piedi nudi nelle giornate calde, di insegnare ai bambini a costruire collane con i fiori, di giocare con loro alla battaglia nel fango e a saltare nelle pozzanghere nei giorni di pioggia.
Anche dalle cose all’apparenza più superflue si poteva trarre qualcosa di bello.
Ed era un peccato che la maggioranza delle persone si fermasse invece solo all’apparenza.
-Sorellona Yori!.- disse una squillante voce multipla.
Yori si voltò e due braccia esili e corte le strinsero la vita, e poi altre due le si attaccarono ad un fianco, e altre due all’altro, due le presero una mano e due l’altra.
-Bentornata sorellona!
-Non vedevo l’ora che arrivassi.
-Lo sai che oggi la maestra mi ha dato una stellina per il disegno che ho fatto? Te li faccio vedere entrambi più tardi.
-Ci finirai di leggere la favola del falenino e della stella dopo, vero?
-Ma prima giochiamo insieme con la palla, per favore!
Yori accarezzò ognuna delle loro teste minute. Li chiamò per nome e diede degli amichevoli buffetti alle loro guance rosee.
Quei cinque erano solo alcuni dei molti bambini che vivevano lì. Bastardelli abbandonati in seguito a relazioni illecite, raccolti dalla strada o salvati dalle violenze domestiche di famiglie adottive troppo insensibili. In quel posto potevano ritrovare un po’ di gioia, ma c’era bisogno di qualcuno che se ne occupasse, qualcuno che li volesse, che li amasse.
E in attesa di qualcuno che li prendesse con sé per il resto della vita toccava a persone come lei. Era felice, Yori, di dedicare un po’ del suo tempo a loro. Il tempo. Il proprio tempo regalato ad altri è uno dei regali più preziosi che si possano fare. Soprattutto se donato a coloro a cui di tempo non ne dedicano in molti.
Non lo faceva per i soldi, di certo non ne trascurava l’importanza ma se lo faceva era soprattutto per loro. Per quelle creature che erano appena in grado di sporgere la punta del naso sulla soglia della vita, perché trovassero il coraggio di protendersi ancora di più, senza paura.
Una bambina, impaziente di cominciare a giocare, la tirò per la manica e Yori ispirò aria attreaverso i denti.
-Sorellona perdonami! Ti fa male qui?- chiese tastandole delicatamente il polso.
Gli altri bambini si avvicinarono con le teste, gli occhi pieni di sincera preoccupazione.
-Per caso sei stata ferita?
-Qualcuno ti ha picchiata? Dimmi chi è stato, ci penserò io a fargliela pagare, sta’ tranquilla!
Yori ritirò con gentilezza il braccio e sorrise accarezzando loro i voti.
-Sto bene,- sorrise. –non preoccupatevi. Oggi a scuola ho sbattuto contro lo spigolo del tavolo. Mi passerà entro domani, vedrete.
-Ah, meno male!
-Sono contenta che non sia nulla di grave.
-Che sollievo! Allora vado a prendere la palla.
Poco dopo iniziarono a giocare e a chiacchierare distesi sull’erba, e a loro si aggiunsero altri bambini,  fino a che il sole non fu abbastanza basso da toccare il tetto della casa più vicina.
I pargoli la cercavano sempre. Per loro Yori era qualcuno di diverso. Non era una dei responsabili, perciò il suo compito non era esclusivamente quello di controllarli, e non la si poteva neanche considerare un’adulta rispetto a loro. Era come una sorella maggiore.
Un’amica che poteva permettersi di riprenderli senza per questo attirare su di sé il loro astio.
Non potevano fare a meno di volerle bene, di ascoltarla e di rispettarla. Senza mai smettere di volerle bene.
-Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: “Non ti bruci un’ala da mesi, ragazzo mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti, datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e robusto come te senza neppure un segno addosso!”.
 
Il falenino lasciò la casa paterna ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada né intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva invece che fosse impigliata tra i rami alti di un olmo.
 
Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi.
Yori chiuse il libro con entrambe le mani e ascoltò tutte le domande e i commenti che i bambini avanzarono sulla favola. Ad alcuni era piaciuta, altri non capivano perché mai le falene volessero bruciarsi, altri ancora formulavano ipotesi sulla possibile morale del racconto.
La morale di ogni favola che leggeva, lei non gliela rivelavava mai. Lasciava che ci arrivassero da soli.
La stupidità non è sinonimo di ignoranza.
E quei bambini erano molto intelligenti. Quando finalmente ci arrivavano, a volte dopo pochi giorni, altre volte dopo addirittura mesi, lei diceva semplicemente: -Giusto.
Loro non avevano bisogno di sentire altro.
   
 
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